2025-02-07
Beniamino Zuncheddu: «Lo Stato mi ha sequestrato per 33 anni»
Il pastore sardo vittima di un errore giudiziario: «Sono stato condannato ingiustamente all’ergastolo per la strage di Sinnai. Avevo 26 anni, ora ne ho 60. In prigione tutti sapevano che non avevo fatto niente. Ma una volta uscito nessuno si è scusato».La giustizia terrena non è in grado di evitare errori. Beniamino Zuncheddu, classe 1964, nato a Burcei, oggi nella provincia Sud Sardegna, è stato vittima di uno svarione madornale. Pur essendo innocente, due testimonianze mendaci costrinsero l’uomo, di professione pastore, a essere rinchiuso in un penitenziario. Incriminato per la strage di Sinnai, dell’8 gennaio 1991, tre pastori uccisi a colpi di fucile e un quarto ferito, fu condannato all’ergastolo. Tuttavia, talvolta può accadere ciò che sembrerebbe impossibile. Il 26 gennaio 2024, l’esito del processo di revisione ha portato alla sua assoluzione con formula piena. È entrato in prigione a 26 anni e ne è uscito a 59. E così, nell’aprile 2025, potrà trascorrere il suo 61° compleanno da uomo libero. Signor Zuncheddu, quanti anni e quanti mesi ha dovuto trascorrere in carcere, da innocente?«Trentadue anni e mezzo».In quante e quali prigioni è stato detenuto?«Sempre qui in Sardegna. Nuoro, Cagliari e Uta». Qual è stata quella in cui le condizioni di vita erano peggiori?«Le carceri sono tutte uguali. Le condizioni sono sempre peggiori perché sono tutte sovraffollate. Bisognerebbe smaltire un po’. Alcuni detenuti si potrebbero mandare all’esterno e, se hanno un’abitazione, farli lavorare a casa. Non è possibile sopravvivere così, tutti ammassati l’uno sull’altro. Forse ci vorrebbe, di tanto in tanto, qualche amnistia. Ma si vede che fa comodo allo Stato il fatto che ci siano molti detenuti dentro, arrestati anche per fesserie. Si potrebbe pensare agli arresti domiciliari o a qualcos’altro. Ad esempio per chi è ammalato. Lì, cure non ce ne sono. A casa si potrebbero curare meglio, secondo me». Con quanti detenuti, da un minimo a un massimo, è stato in una cella?«Minimo sei, massimo undici. In un caso, due dormivano per terra. C’erano solo due letti a castello».Questo in quale carcere?«In quello di Cagliari. Meno male che l’hanno chiuso».In uno spazio di quanti metri quadrati?«Pochi, pochi metri quadrati. Eravamo spesso in piedi in tre o quattro. Gli altri dovevano stare a letto. Oppure bisognava aggiustarsi come si poteva. Una cosa disumana». Il wc, in cella, è a vista oppure c’è un separé?«In quello di Cagliari c’era un separé, con la turca. Però, in undici persone, può capire, la mattina... Un problema. Poi un lavandino e il rubinetto dell’acqua».Il separé c’era anche nelle altre carceri?«In quello di Uta sì. C’era il bagno, con il bidet, la doccia in cella. Invece a Nuoro...».Badu e’ Carros?«Sissignore. Tra le brande, c’era una specie di separé. Ma non c’era la porta. Per cui bisognava fare i bisogni di fronte agli altri. Ci vuole la dignità, no?».Non c’è dubbio. Com’è stato il rapporto con i compagni di cella e gli altri detenuti?«Dall’inizio alla fine ci siamo sempre comportati bene, perché bisogna capirsi l’uno con l’altro. In pratica nasce una famiglia, con i compagni ma anche con le guardie».Mai subito intimidazioni, tentativi di violenza?«Mai. Niente di tutto questo». Con gli altri detenuti vi raccontavate le vostre storie?«Sì, ognuno parlava della sua storia. Così, almeno, passavamo le ore. Quando stai a lungo con delle persone, magari parli più a fondo». I suoi compagni di cella avevano compreso che lei è innocente? «Sì, tutti, sia i detenuti e anche le guardie. Lo sapevano tutti che sono innocente». Nei lunghi anni di carcere, in cosa sperava?«Speravo sempre di uscire. Un giorno o l’altro doveva venire fuori la verità. Perché il carcere è un mondo a sé. Il corpo è dentro, ma la mente è sempre fuori. Pensi sempre ai familiari, agli amici, a tutto ciò che è rimasto dietro e resta sempre. La mente è sempre fuori, non rimane dentro».Era informato, attraverso la televisione, su cosa stava accadendo nel mondo esterno? «Sì, la tivù c’era. Eravamo aggiornati». La fede l’ha aiutata?«Anche la fede aiuta. E lì non c’è altro da fare. A qualche santo ci si rivolge sempre. Ognuno di noi si rivolge sempre a qualcosa».Un santo in particolare?«Quasi tutti i santi (sorride), perché c’è voluta la forza di tutti i santi. Non è facile».Quanti anni aveva quando fu condannato e recluso?«Avevo 26 anni». Certo che bisogna essere forti, sapendo di subire una pena senza colpa. «Il carattere ci vuole, forte, e pensare sempre a fare del bene, non a fare del male, perché se uno si lascia andare non conclude niente, non vince mai. Pensavo sempre che la verità, un giorno o l’altro, sarebbe uscita. Pensavo che la vita è una sola. La facciamo come Dio comanda, e via». I veri responsabili della strage sono liberi, mai stati condannati?«Eh sì, non si sa niente. Non sono mai stati condannati. Per il momento no». Secondo lei ci sono altri innocenti in carcere?«Sì, sì. E ce ne sono anche tanti». Il suo avvocato, Mauro Trogu, nel 2016 iniziò a lavorare per difenderla e portarla alla scarcerazione. Convinse l’allora procuratore generale di Cagliari Francesca Nanni a riaprire il caso, con nuove prove al processo di revisione che l’hanno scagionata. Maggiori particolari nel vostro libro Io sono innocente (De Agostini). Una persona e un professionista come pochi se ne trovano. «Raro trovarne di persone come l’avvocato Trogu. Sono come le mosche bianche. È non solo un bravo avvocato, ma anche una persona umana. Molti avvocati ti prendono i soldi, dicendo di fare questo o quell’altro e poi non fanno niente. Lui è il sesto avvocato che ho avuto e quelli di prima i migliori della Sardegna. Ma non ce l’hanno fatta. Invece lui ha letto bene tutte le carte ed è riuscito a liberarmi». È palese. Lo Stato ha sbagliato. «Lo Stato mi ha sequestrato...».Dalle istituzioni le è giunta una lettera di scuse? «Ma quando mai? Assolutamente no».Se l’aspetterebbe?«Ormai non me l’aspetto, perché lo Stato... Quando sbaglia qualcuno dello Stato spesso non paga. Se sbaglia un poverino, buttano la chiave nel mare. Oppure ne prendono uno a caso, come hanno fatto con me e “giustizia è fatta”». È evidente che avrebbe diritto a un risarcimento.«Questo sì, ma chi sa quando».È stata avviata la richiesta? «Sì, sta facendo tutto l’avvocato. Ma dovrebbe essere una cosa immediata. Invece mi hanno buttato fuori dal carcere e arràngiati. Ma se io non avevo una famiglia, mio cognato, mia sorella, come avrei fatto? O sarei diventato davvero un delinquente o dormirei sotto un ponte e così ritornavo dentro, perché senza soldi, senza nulla, uno come fa a vivere? Dopo tanti anni, poi, non sai neppure come muoverti perché, alla fine, sei stato più dentro che fuori. Vorrei vedere se a qualcuno dello Stato facessero come hanno fatto con me. Qualche detenuto esce e non ha una lira. Magari abita a Milano o a Roma. Come fa a tornare a casa? Uno è come fosse obbligato a rubare per fare il biglietto e andarsene. E allora ci sarebbe un delinquente in più».Le daranno una pensione?«Sì, questo è possibile, con i contributi lavorativi, perché dentro il carcere lavoravo, avevo la busta paga».Perdoni la domanda. Quanto poteva percepire?«Sui 300-400 euro al mese, dipendeva dal lavoro fatto». In carcere c’è bisogno di soldi?«Moltissimo, anche per mangiare; uno che fuma, per acquistare le sigarette; poi il caffè, lo zucchero, le bombolette dei fornellini per farti da mangiare come vuoi, qualcosa per lui insomma. Le cose che ti dà il carcere sono solo per sopravvivere, non per vivere. La roba da mangiare è tutta a grammi». Qualora non avesse dovuto sopportare questo grave evento, avrebbe voluto sposarsi, avere dei figli?«Certo. Avere una famiglia mia. Adesso vedo tutti i miei amici, che ho lasciato quando mi hanno preso, sposati, con i figli grandi; qualcuno è nonno, una cosa bella. Questo per me, ormai, è tutto perso. Devo ricominciare da zero». Dopo la liberazione è tornato al suo paese, Burcei. «Sì, vivo a casa di mia sorella, con mio fratello, mio cognato e mia nipote». I suoi familiari si dedicano sempre alla pastorizia?«Sì, sempre alla pastorizia».Dopo quasi 33 anni trascorsi nei penitenziari c’è necessità di riabituarsi a una vita in libertà. «Piano piano, sto cercando di riprendere ritmo, ma piano piano, anche perché sono ancora senza pensione». Le piacerebbe fare un viaggio o una vacanza?«Per il momento no, sto con la famiglia. Vedo qualche amico, in paese sono tutti amici; avevano raccolto le firme per me perché sapevano che sono innocente, sono tutti solidali, lo siamo tutti». E quando è tornato, una bella accoglienza? «Hanno preparato una festa, addirittura con i fuochi d’artificio. C’era tutto il paese, grandi e piccoli, sindaco, parroco, tutti». Da allora le è capitato di venire in continente?«Da quando sono uscito sono andato anche a Roma, al carcere di Rebibbia, per una conferenza con i radicali. Si stanno impegnando molto per raccogliere le firme per fare una legge per il risarcimento automatico di una persona innocente. Bravissima Irene Testa, ci lavora sempre. Ci vorrebbero 50.000 firme e potrebbe inviare, nei Comuni, dei fogli affinché la gente possa andare a firmare».La mamma e il papà?«Non ci sono più. Mia madre ci ha lasciato prima del carcere e mio padre 8-9 anni fa». Le è stato consentito di partecipare alle esequie del papà?«Sì, questo sì». Ritiene esista una giustizia divina? «Di questo non so, sono un po’ scettico, non si sa, perché chi è andato su non è mai tornato». Si sentono uccellini che cinguettano...«Sì, sono fuori, al balcone. Gli animali mi sono sempre piaciuti fin da piccolino, cani, gatti, pecore, capre. L’importante è che siano animali». Nel suo profilo WhatsApp si vede l’immagine di un cane. È il suo cane? «Sì, è il mio cane, aiuta mio fratello con le pecore. Ha 3-4 anni».Come si chiama?«Libero».
Roberto Occhiuto (Imagoeconomica)
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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