True
2021-11-18
La seconda vita di Rocky IV, il film più iconico della guerra fredda
True
Una scena di Rocky IV (Getty Images)
In principio fu «Ti spiezzo in due». Che nella versione originale era «I must break you», forse meno maccheronico, ma che con la voce robotica di Dolph Lungrend faceva persino più paura. Rocky IV è stato ed è uno dei film più iconici della storia del cinema, caso peraltro raro, per un quarto capitolo di una saga cinematografica. Altra storia, certo, dai toni un po' crepuscolari e intimisti del primo film: qui siamo in presenza di un blockbuster bello e buono, in cui ogni fotogramma, ogni battuta, ogni canzone sono pensati per imprimersi a forza nella mente del più vasto pubblico possibile.
Di Rocky IV si è tornati a parlare di recente perché Sylvester Stallone vi ha dedicato ben due nuove iniziative. Da un lato ha da poco fatto uscire in noleggio in America il director's cut chiamato Rocky vs Drago. Dall'altro, ha diffuso su Youtube il documentario The Making of Rocky vs Drago by Sylvester Stallone, in cui ha svelato i segreti del film originale e del nuovo montaggio. Chi ha visto Rocky vs Drago parla di un film che ovviamente ricalca la pellicola originale, ma con molti tagli e 38 minuti del tutto inediti. Ci sono anche particolari secondari ma di grande importanza simbolica che cambiano: nel film del 1985, per esempio, Michail Gorbacev finiva per farsi trascinare dall'exploit di Rocky Balboa e, alla fine, si alzava in piedi e applaudiva il pugile americano, nella nuova versione se ne va stizzito dopo aver visto il campione della boxe sovietica perdere rovinosamente all'ombra del Cremlino. Più in generale, Rocky ha tagliato tutte le parti sentimentali – come quelle dedicate alla moglie e al figlio – o ironiche – come i siparietti iniziali con il cognato Paulie e il robot – per dar vita a un film più duro e asciutto.
Sono emersi anche aneddoti saporiti: Sly, infatti, volle usare per il film il suono reale dei pugni e Lundgren, che era cintura nera 4° dan. Così facendo, però, si espose alla potenza del colosso svedese (e che adesso sta a sua volta producendo un documentario su se stesso). A un certo punto, un pugno rischiò di metterlo realmente al tappeto: «Non ho sentito quel pugno sul momento, ma più tardi quella notte il mio cuore ha cominciato a gonfiarsi», ha raccontato Stallone. «La mia pressione sanguigna è salita a 260 e stavo per parlare con gli angeli. L'unica cosa che ricordo a questo punto è questo volo d'emergenza dal Canada» e il ricovero in terapia intensiva in un ospedale di Santa Monica in California per 4 giorni. Carl Weathers (Apollo) e Lundgren ebbero inoltre dei litigi poiché lo svedese pare avesse esagerato con la forza dei suoi colpi durante una delle scene del film, sbattendo l'avversario contro l'angolo del ring: Weathers decise di rinunciare al film e minacciò di chiamare il suo agente, ma poi Stallone riuscì a far conciliare i due attori. L'evento causò l'interruzione delle riprese per quattro giorni.
A rivederlo oggi, Rocky IV fa uno strano effetto. Sceneggiato, diretto e interpretato da Stallone, come i capitoli II e III (del primo scrisse solo la sceneggiatura), il film del 1985 colpisce per l'esplicita e a tratti esagerata portata politica. Si tratta di un tipico film da guerra fredda, seppur delle sue battute finali, quando i russi non mettevano più così paura, la terza guerra mondiale non sembrava più alle porte e il conflitto est/ovest si poteva ridurre serenamente a fumettoni manichei come questa pellicola sulla boxe.
Colpisce in particolar modo la totale buona coscienza della propaganda americana dell'epoca, che non doveva neanche troppo giustificare le sue buone ragioni rispetto al rivale storico. In fin dei conti, se si fa eccezione per qualche riferimento al doping, nel film i russi non fanno mai nulla di veramente terribile, oltre a presentarsi globalmente come antipatici. Apollo Creed, al contrario, appare per tutto il film – finché resta in scena – come provocatore, sbruffone e presuntuoso. È lui a politicizzare l'incontro, ad alzare i toni inutilmente in conferenza stampa, a ridicolizzare l'avversario. Illuminante anche la credenza un po' ingenua che per battere il gigante sovietico bastasse un'atleta con un po' di generosità e purezza di cuore, come accade a Rocky nel match finale, che termina con gli spettatori russi che scandiscono il suo nome e lui che arringa la popolazione per il cambiamento e la libertà. La metà degli anni Ottanta era evidentemente un periodo in cui la contrapposizione della guerra fredda era così cristallizzata nell'immaginario collettivo che non serviva calcare la mano sui sovietici per ottenere il coinvolgimento del pubblico.
Che i tempi siano cambiati e certi riferimenti oggi risultino poco intelligibili lo ha testimoniato qualche tempo un ammiratore d'eccellenza della saga di Rocky: l'allenatore del Liverpool Jürgen Klopp. Nel 2011, ha raccontato, quando allenava il Borussia Dortmund, il tecnico tedesco fece vedere Rocky IV alla sua squadra prima di un match con il Bayern Monaco: «Dissi ai ragazzi: "Vedete? Il Bayern Monaco è Ivan Drago. Il meglio di tutto! La migliore tecnologia! Le migliori macchine! È inarrestabile!". Poi vedi Rocky che si allena in Siberia nella sua piccola capanna di tronchi. Sta abbattendo alberi di pino e portando tronchi attraverso la neve e correndo verso la cima della montagna. E ho detto ai ragazzi: "Vedete? Siamo noi. Siamo Rocky. Siamo più piccoli, sì. Ma abbiamo la passione! Abbiamo il cuore di un campione! Possiamo fare l'impossibile". Mi fermai per studiare la loro reazione. Mi aspettavo di vederli in piedi sulle sedie, esaltati e pronti a scalare montagne. Invece erano tutti fermi, spenti, vuoti. Alla fine dissi: "Aspettate un attimo, ragazzi. Per favore, alzi la mano chi sa chi è Rocky Balboa...". Solo due mani si alzarono. Sebastian Kehl e Patrick Owomoyela. Tutto il mio discorso era stato sciocco! Avevo parlato di tecnologia sovietica e Siberia per 10 minuti, era la partita più importante della nostra carriera, ma non era servito a nulla».
Continua a leggereRiduci
La pellicola cult del 1985 ritorna nel director's cut di Stallone e il making del film su Youtube. Rivivono gli echi dell'era Gorbacev, tra pugni veri sul set, tramonto della guerra fredda e una visione fumettistica dei sovietici. Con un aneddoto del ct del Liverpool Jürgen Klopp.In principio fu «Ti spiezzo in due». Che nella versione originale era «I must break you», forse meno maccheronico, ma che con la voce robotica di Dolph Lungrend faceva persino più paura. Rocky IV è stato ed è uno dei film più iconici della storia del cinema, caso peraltro raro, per un quarto capitolo di una saga cinematografica. Altra storia, certo, dai toni un po' crepuscolari e intimisti del primo film: qui siamo in presenza di un blockbuster bello e buono, in cui ogni fotogramma, ogni battuta, ogni canzone sono pensati per imprimersi a forza nella mente del più vasto pubblico possibile. Di Rocky IV si è tornati a parlare di recente perché Sylvester Stallone vi ha dedicato ben due nuove iniziative. Da un lato ha da poco fatto uscire in noleggio in America il director's cut chiamato Rocky vs Drago. Dall'altro, ha diffuso su Youtube il documentario The Making of Rocky vs Drago by Sylvester Stallone, in cui ha svelato i segreti del film originale e del nuovo montaggio. Chi ha visto Rocky vs Drago parla di un film che ovviamente ricalca la pellicola originale, ma con molti tagli e 38 minuti del tutto inediti. Ci sono anche particolari secondari ma di grande importanza simbolica che cambiano: nel film del 1985, per esempio, Michail Gorbacev finiva per farsi trascinare dall'exploit di Rocky Balboa e, alla fine, si alzava in piedi e applaudiva il pugile americano, nella nuova versione se ne va stizzito dopo aver visto il campione della boxe sovietica perdere rovinosamente all'ombra del Cremlino. Più in generale, Rocky ha tagliato tutte le parti sentimentali – come quelle dedicate alla moglie e al figlio – o ironiche – come i siparietti iniziali con il cognato Paulie e il robot – per dar vita a un film più duro e asciutto.Sono emersi anche aneddoti saporiti: Sly, infatti, volle usare per il film il suono reale dei pugni e Lundgren, che era cintura nera 4° dan. Così facendo, però, si espose alla potenza del colosso svedese (e che adesso sta a sua volta producendo un documentario su se stesso). A un certo punto, un pugno rischiò di metterlo realmente al tappeto: «Non ho sentito quel pugno sul momento, ma più tardi quella notte il mio cuore ha cominciato a gonfiarsi», ha raccontato Stallone. «La mia pressione sanguigna è salita a 260 e stavo per parlare con gli angeli. L'unica cosa che ricordo a questo punto è questo volo d'emergenza dal Canada» e il ricovero in terapia intensiva in un ospedale di Santa Monica in California per 4 giorni. Carl Weathers (Apollo) e Lundgren ebbero inoltre dei litigi poiché lo svedese pare avesse esagerato con la forza dei suoi colpi durante una delle scene del film, sbattendo l'avversario contro l'angolo del ring: Weathers decise di rinunciare al film e minacciò di chiamare il suo agente, ma poi Stallone riuscì a far conciliare i due attori. L'evento causò l'interruzione delle riprese per quattro giorni.A rivederlo oggi, Rocky IV fa uno strano effetto. Sceneggiato, diretto e interpretato da Stallone, come i capitoli II e III (del primo scrisse solo la sceneggiatura), il film del 1985 colpisce per l'esplicita e a tratti esagerata portata politica. Si tratta di un tipico film da guerra fredda, seppur delle sue battute finali, quando i russi non mettevano più così paura, la terza guerra mondiale non sembrava più alle porte e il conflitto est/ovest si poteva ridurre serenamente a fumettoni manichei come questa pellicola sulla boxe. Colpisce in particolar modo la totale buona coscienza della propaganda americana dell'epoca, che non doveva neanche troppo giustificare le sue buone ragioni rispetto al rivale storico. In fin dei conti, se si fa eccezione per qualche riferimento al doping, nel film i russi non fanno mai nulla di veramente terribile, oltre a presentarsi globalmente come antipatici. Apollo Creed, al contrario, appare per tutto il film – finché resta in scena – come provocatore, sbruffone e presuntuoso. È lui a politicizzare l'incontro, ad alzare i toni inutilmente in conferenza stampa, a ridicolizzare l'avversario. Illuminante anche la credenza un po' ingenua che per battere il gigante sovietico bastasse un'atleta con un po' di generosità e purezza di cuore, come accade a Rocky nel match finale, che termina con gli spettatori russi che scandiscono il suo nome e lui che arringa la popolazione per il cambiamento e la libertà. La metà degli anni Ottanta era evidentemente un periodo in cui la contrapposizione della guerra fredda era così cristallizzata nell'immaginario collettivo che non serviva calcare la mano sui sovietici per ottenere il coinvolgimento del pubblico. Che i tempi siano cambiati e certi riferimenti oggi risultino poco intelligibili lo ha testimoniato qualche tempo un ammiratore d'eccellenza della saga di Rocky: l'allenatore del Liverpool Jürgen Klopp. Nel 2011, ha raccontato, quando allenava il Borussia Dortmund, il tecnico tedesco fece vedere Rocky IV alla sua squadra prima di un match con il Bayern Monaco: «Dissi ai ragazzi: "Vedete? Il Bayern Monaco è Ivan Drago. Il meglio di tutto! La migliore tecnologia! Le migliori macchine! È inarrestabile!". Poi vedi Rocky che si allena in Siberia nella sua piccola capanna di tronchi. Sta abbattendo alberi di pino e portando tronchi attraverso la neve e correndo verso la cima della montagna. E ho detto ai ragazzi: "Vedete? Siamo noi. Siamo Rocky. Siamo più piccoli, sì. Ma abbiamo la passione! Abbiamo il cuore di un campione! Possiamo fare l'impossibile". Mi fermai per studiare la loro reazione. Mi aspettavo di vederli in piedi sulle sedie, esaltati e pronti a scalare montagne. Invece erano tutti fermi, spenti, vuoti. Alla fine dissi: "Aspettate un attimo, ragazzi. Per favore, alzi la mano chi sa chi è Rocky Balboa...". Solo due mani si alzarono. Sebastian Kehl e Patrick Owomoyela. Tutto il mio discorso era stato sciocco! Avevo parlato di tecnologia sovietica e Siberia per 10 minuti, era la partita più importante della nostra carriera, ma non era servito a nulla».
Lando Norris (Getty Images)
Nell’ultimo GP stagionale di Abu Dhabi, Lando Norris si laurea campione del mondo per la prima volta grazie al terzo posto sul circuito di Yas Marina. Nonostante la vittoria in gara, Max Verstappen non riesce a difendere il titolo, interrompendo il suo ciclo di quattro mondiali consecutivi.
Lando Norris è campione del mondo. Dopo quattro anni di dominio incontrastato di Max Verstappen, il pilota britannico centra il titolo iridato al termine di una stagione in cui ha saputo coniugare costanza, precisione e lucidità nei momenti decisivi. La vittoria ad Abu Dhabi, conquistata con una gara solida e senza errori, suggella un percorso iniziato con un Mondiale che sembrava già scritto a favore dell’olandese.
La stagione ha visto Norris prendere il comando delle operazioni già nelle prime gare, approfittando di alcuni passaggi a vuoto di Verstappen e di una gestione impeccabile del suo team. Il britannico ha messo in mostra una costanza rara, evitando rischi inutili e capitalizzando ogni occasione: punti preziosi accumulati gara dopo gara che hanno costruito un vantaggio psicologico e tecnico difficile da colmare per chiunque, ma non per Verstappen, che nelle ultime gare ha tentato il tutto per tutto per costruirsi una chance di rimonta. Una rimonta sfumata per appena due punti, visto che il pilota della McLaren ha chiuso il Mondiale a quota 423 punti, davanti ai 421 del rivale della RedBull e che se avessero chiuso a pari punti il titolo sarebbe andato a Verstappen in virtù del numero di gran premi vinti in stagione: otto contro i sette di Norris. Inevitabile per l'olandese non pensare alla gara della scorsa settimana in Qatar, dove Norris ha recuperato proprio due punti sfruttando un errore di Kimi Antonelli all'inizio dell'ultimo giro.
La gara di Abu Dhabi ha rappresentato la sintesi perfetta della stagione di Norris: partenza accorta, gestione dei pit stop e mantenimento della concentrazione fino alla bandiera a scacchi. L’olandese, pur vincendo la corsa, non è riuscito a recuperare il distacco, confermando che i quattro anni di dominio sono stati interrotti da un talento giovane e capace di gestire la pressione del momento clou.
Alle spalle dei due contendenti, la stagione è stata amara per Ferrari e altri protagonisti attesi al vertice. Charles Leclerc e Lewis Hamilton non hanno mai realmente impensierito i leader della classifica, incapaci di inserirsi nella lotta per il titolo o di ottenere risultati significativi in gran parte del campionato. Una conferma, se ce ne fosse bisogno, delle difficoltà del Cavallino Rosso nel trovare una combinazione di macchina e strategia competitiva.
Il Mondiale 2025 si chiude quindi con un volto nuovo sul gradino più alto del podio e con alcune conferme sullo stato della Formula 1: Norris dimostra che la gestione mentale, l’attenzione ai dettagli e la capacità di evitare errori critici contano quanto la velocità pura. Verstappen, pur da vincitore di tante gare, dovrà riflettere sulle occasioni perdute, mentre la Ferrari è chiamata a ripensare, ancora una volta, strategie e sviluppo per la stagione successiva.
Continua a leggereRiduci