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2024-01-06
Spunta la mail della vittima di Epstein: «Per coprirlo Clinton minacciò i cronisti»
Bill Clinton (Ansa)
Il nome di Bill Clinton continua a spuntare dai documenti giudiziari che, desegretati su ordine del giudice Loretta Preska, sono relativi a una causa civile per diffamazione, intentata nel 2015 da una delle vittime di Jeffrey Epstein, Virginia Giuffre, contro Ghislaine Maxwell: la socia del finanziere, morto suicida in carcere nell’agosto 2019. Ebbene, tra i nuovi incartamenti è emerso uno scambio di email, avvenuto nel 2011, tra la giornalista Sharon Churcher e la stessa Giuffre. In particolare, quest’ultima espresse preoccupazione sulla copertura giornalistica del caso Epstein da parte del magazine Vanity Fair, scrivendo: «Ieri, mentre stavo facendo delle ricerche su Vf, mi sono preoccupata di cosa potrebbero voler scrivere su di me considerando che B. Clinton è entrato in Vf e li ha minacciati di non scrivere articoli sul traffico sessuale relativo al suo buon amico JE (Jeffrey Epstein, ndr)». Non è chiaro se l’affermazione della Giuffre si basasse su conoscenze di prima mano o su fonti di stampa. Tale episodio era stato riportato nel 2007 dal sito Gawker. Come che sia, le presunte minacce di Clinton ai vertici della redazione di Vanity Fair sono state smentite sia all’epoca sia l’altro ieri, quando l’allora direttore della rivista, Graydon Carter, ha dichiarato al Telegraph: «Questo non è categoricamente accaduto». Un’affermazione, la sua, che è stata rilanciata dallo staff dello stesso Clinton.
Ora, pur prendendo atto di queste smentite, bisogna rammentare ulteriori elementi, resi noti da John Connolly: un giornalista di Vanity Fair che si occupò all’epoca del caso Epstein. A ricordarli è stato ieri il Guardian. «Nel 2019, Connolly ha detto a Npr che Epstein aveva minacciato Carter anni prima quando Vanity Fair aveva preso in considerazione la possibilità di seguire le accuse di cattiva condotta sessuale contro il finanziere», ha scritto la testata britannica. «Connolly affermò che nel 2006, quando stava indagando su Epstein, un gatto morto era stato messo fuori dalla casa di Carter. Secondo Npr, Connolly ha detto che Carter gli aveva riferito che era preoccupato per la sicurezza dei suoi figli e il giornalista ha detto che aveva deciso di interrompere le sue inchieste», ha proseguito il Guardian. Nell’agosto 2019, il New York Magazine riportò inoltre che «secondo un rapporto di All Things Considered della Npr, Epstein ha minacciato orribilmente il direttore di Vanity Fair, Graydon Carter, per allontanare la giornalista Vicky Ward dalla pista degli abusi sessuali di Epstein su minori, dopo che lei aveva scritto un articolo su di lui nel 2003». «Il mese scorso», continuò la testata, «la Ward ha accusato Carter di aver rimosso le accuse di abusi delle sorelle Maria e Annie Farmer - che sostengono che Epstein le abbia aggredite sessualmente quando Annie aveva 15 anni - dopo che il finanziere aveva fatto pressioni sul direttore». Stando alla stessa testata, Carter avrebbe inoltre raccontato a Connolly di aver trovato un proiettile fuori dalla propria porta.
Ma non è tutto. Tra i nuovi documenti desegretati, spunta anche una richiesta, avanzata dai legali della Giuffre, per chiamare a testimoniare Clinton. «Ha viaggiato con Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell e potrebbe avere informazioni sulla condotta di traffico sessuale di Ghislaine Maxwell e Jeffrey Epstein», sostennero. Ricordiamo che, nella prima tranche di documenti, un’altra vittima del finanziere, Johanna Sjoberg, aveva raccontato di aver saputo proprio da Epstein che a Clinton piacevano le ragazze giovani. Va detto che dai vari incartamenti in via di pubblicazione non emergono elementi penalmente rivelanti sull’ex presidente dem. Tuttavia questi dettagli certo non fanno bene alla sua reputazione, che già da qualche anno si è appannata. D’altronde, nel 2021 il New York Post rivelò che Epstein aveva visitato la Casa Bianca ai tempi dell’amministrazione Clinton per almeno 17 volte. Tutto questo può tradursi in un problema per l’immagine pubblica della Clinton Foundation e del suo network. Senza trascurare che alcuni fedelissimi dei Clinton ricoprono oggi posizioni apicali nell’amministrazione Biden. Finora, l’ex presidente si è limitato a riproporre un vecchio comunicato del 2019, in cui sosteneva di non essere coinvolto nelle attività illegali di Epstein e di aver effettuato quattro viaggi sul suo jet: «Uno in Europa, uno in Asia e due in Africa, comprese tappe legate al lavoro della Clinton Foundation».
Dai documenti, pubblicati fino a questo momento, Donald Trump è uscito invece fondamentalmente indenne. Viene citato due volte dalla Sjoberg. Nella prima occasione, racconta che Epstein lo avrebbe chiamato per andare al suo casinò di Atlantic City, dopo che i piloti del jet gli avevano detto che avrebbero effettuato un atterraggio in quella città. Nella seconda, la Sjoberg ha negato di aver avuto rapporti sessuali con il futuro presidente repubblicano. Oltre ad Andrea di York, a uscirne peggio sono invece vari esponenti del Partito democratico. Dagli incartamenti emerge infatti che la Giuffre ha raccontato di aver avuto rapporti sessuali con l’ex governatore dem del New Mexico, Bill Richardson, e con i miliardari Glenn Dubin e Thomas Pritzker: il primo è un finanziatore dell’Asinello, mentre il secondo è il cugino dell’attuale governatore dem dell’Illinois, J. B. Pritzker. Richardson fu anche segretario all’Energia nell’amministrazione Clinton dal 1998 al 2001.
La stampa dem sta scaricando Biden
L’Economist sta scaricando Joe Biden? Sembrerebbe proprio di sì. Dopo avergli dato l’endorsement nel 2020 e dopo aver recentemente definito Donald Trump «il più grande pericolo per il mondo nel 2024», il settimanale britannico si è all’improvviso accorto delle difficoltà che ha davanti l’attuale inquilino della Casa Bianca. Pochi giorni fa, infatti, ha pubblicato un’analisi intitolata significativamente: «Le chances di Joe Biden non sembrano buone. I democratici non hanno un piano B». In particolare, l’articolo mette in evidenza l’impopolarità in cui versa il presidente americano, sottolineando anche la sua indisponibilità ad abbandonare la corsa elettorale per la riconferma.
Un elemento decisivo, ragiona il settimanale, potrebbe essere rappresentato dal fatto che una crescente quota di elettori ispanici e afroamericani sta progressivamente abbandonando il Partito democratico. La testata prende, sì, in considerazione l’ipotesi di un ritiro di Biden. Il punto è che, nel caso, la finestra temporale per condurre una campagna elettorale alternativa si sta ormai chiudendo. Senza poi trascurare che, qualora dicesse addio alla corsa, non è detto che la nomination presidenziale dem sarebbe automaticamente riconosciuta a Kamala Harris. Non dimentichiamo, infatti, che il vicepresidente americano è attualmente piuttosto impopolare. E che, dietro le quinte, stanno scaldando i motori vari potenziali concorrenti, a partire dal governatore della California, Gavin Newsom.
Insomma, sembra proprio che il settimanale della famiglia Elkann non sia più così entusiasta della ricandidatura di Biden, anche se - va detto - le problematiche sottolineate nel suo recente articolo sono note da mesi. D’altronde, non è il primo segnale di malumore emerso verso l’attuale presidente americano da parte dell’establishment mediatico progressista. Era lo scorso settembre, quando il giornalista David Ignatius scrisse sul Washington Post che Biden non avrebbe dovuto ricandidarsi. Inoltre, critiche al presidente in carica sono ultimamente arrivate anche dagli ex consiglieri di Barack Obama, Larry Summers e David Axelrod. Tutto questo, mentre alcune settimane fa The Hill parlava di «tensioni persistenti» tra il team di Obama e quello di Biden. Non è del resto un mistero che, dopo averlo aiutato a vincere le primarie del 2020, lo stesso Obama mostri oggi freddezza nei confronti del suo ex vice. A giugno, i due ebbero un pranzo alla Casa Bianca, in cui l’ex presidente - pur formalmente ribadendo il proprio sostegno all’attuale - si concentrò molto sulle difficoltà insite nell’affrontare e battere elettoralmente Trump. Una posizione che qualcuno interpretò come un tentativo di convincere Biden a fare un passo indietro.
Sarà un caso, ma gli Elkann non sono affatto distanti dal network dell’ex presidente democratico. Nel marzo 2014, John Elkann si vide con Obama a Villa Taverna, parlando di un incontro positivo. Sempre Elkann, nel maggio 2017, fu tra gli invitati alla cena milanese in onore dello stesso Obama organizzata dall’Ispi. Insomma, non è forse del tutto escludibile che nel riposizionamento dell’Economist su Biden possa aver in qualche modo influito il network obamiano, che resta assai influente in seno al Partito democratico statunitense. A febbraio scorso, il Los Angeles Times riportò che Axelrod aveva avuto parole di elogio per Newsom. Il che pone un interrogativo: non è che Obama sta cercando di puntare su di lui per le prossime presidenziali?
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Il «Guardian» elenca le intimidazioni fatte dal magnate ai giornalisti che seguivano il suo caso. E restano dubbi sul ruolo del marito di Hillary (che però non è indagato).Joe Biden è in crisi nera di popolarità e i fogli progressisti, incluso l’«Economist», temono un trionfo di Donald Trump. Ma il tempo stringe e i liberal non hanno un vero piano B.Lo speciale contiene due articoli.Il nome di Bill Clinton continua a spuntare dai documenti giudiziari che, desegretati su ordine del giudice Loretta Preska, sono relativi a una causa civile per diffamazione, intentata nel 2015 da una delle vittime di Jeffrey Epstein, Virginia Giuffre, contro Ghislaine Maxwell: la socia del finanziere, morto suicida in carcere nell’agosto 2019. Ebbene, tra i nuovi incartamenti è emerso uno scambio di email, avvenuto nel 2011, tra la giornalista Sharon Churcher e la stessa Giuffre. In particolare, quest’ultima espresse preoccupazione sulla copertura giornalistica del caso Epstein da parte del magazine Vanity Fair, scrivendo: «Ieri, mentre stavo facendo delle ricerche su Vf, mi sono preoccupata di cosa potrebbero voler scrivere su di me considerando che B. Clinton è entrato in Vf e li ha minacciati di non scrivere articoli sul traffico sessuale relativo al suo buon amico JE (Jeffrey Epstein, ndr)». Non è chiaro se l’affermazione della Giuffre si basasse su conoscenze di prima mano o su fonti di stampa. Tale episodio era stato riportato nel 2007 dal sito Gawker. Come che sia, le presunte minacce di Clinton ai vertici della redazione di Vanity Fair sono state smentite sia all’epoca sia l’altro ieri, quando l’allora direttore della rivista, Graydon Carter, ha dichiarato al Telegraph: «Questo non è categoricamente accaduto». Un’affermazione, la sua, che è stata rilanciata dallo staff dello stesso Clinton. Ora, pur prendendo atto di queste smentite, bisogna rammentare ulteriori elementi, resi noti da John Connolly: un giornalista di Vanity Fair che si occupò all’epoca del caso Epstein. A ricordarli è stato ieri il Guardian. «Nel 2019, Connolly ha detto a Npr che Epstein aveva minacciato Carter anni prima quando Vanity Fair aveva preso in considerazione la possibilità di seguire le accuse di cattiva condotta sessuale contro il finanziere», ha scritto la testata britannica. «Connolly affermò che nel 2006, quando stava indagando su Epstein, un gatto morto era stato messo fuori dalla casa di Carter. Secondo Npr, Connolly ha detto che Carter gli aveva riferito che era preoccupato per la sicurezza dei suoi figli e il giornalista ha detto che aveva deciso di interrompere le sue inchieste», ha proseguito il Guardian. Nell’agosto 2019, il New York Magazine riportò inoltre che «secondo un rapporto di All Things Considered della Npr, Epstein ha minacciato orribilmente il direttore di Vanity Fair, Graydon Carter, per allontanare la giornalista Vicky Ward dalla pista degli abusi sessuali di Epstein su minori, dopo che lei aveva scritto un articolo su di lui nel 2003». «Il mese scorso», continuò la testata, «la Ward ha accusato Carter di aver rimosso le accuse di abusi delle sorelle Maria e Annie Farmer - che sostengono che Epstein le abbia aggredite sessualmente quando Annie aveva 15 anni - dopo che il finanziere aveva fatto pressioni sul direttore». Stando alla stessa testata, Carter avrebbe inoltre raccontato a Connolly di aver trovato un proiettile fuori dalla propria porta. Ma non è tutto. Tra i nuovi documenti desegretati, spunta anche una richiesta, avanzata dai legali della Giuffre, per chiamare a testimoniare Clinton. «Ha viaggiato con Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell e potrebbe avere informazioni sulla condotta di traffico sessuale di Ghislaine Maxwell e Jeffrey Epstein», sostennero. Ricordiamo che, nella prima tranche di documenti, un’altra vittima del finanziere, Johanna Sjoberg, aveva raccontato di aver saputo proprio da Epstein che a Clinton piacevano le ragazze giovani. Va detto che dai vari incartamenti in via di pubblicazione non emergono elementi penalmente rivelanti sull’ex presidente dem. Tuttavia questi dettagli certo non fanno bene alla sua reputazione, che già da qualche anno si è appannata. D’altronde, nel 2021 il New York Post rivelò che Epstein aveva visitato la Casa Bianca ai tempi dell’amministrazione Clinton per almeno 17 volte. Tutto questo può tradursi in un problema per l’immagine pubblica della Clinton Foundation e del suo network. Senza trascurare che alcuni fedelissimi dei Clinton ricoprono oggi posizioni apicali nell’amministrazione Biden. Finora, l’ex presidente si è limitato a riproporre un vecchio comunicato del 2019, in cui sosteneva di non essere coinvolto nelle attività illegali di Epstein e di aver effettuato quattro viaggi sul suo jet: «Uno in Europa, uno in Asia e due in Africa, comprese tappe legate al lavoro della Clinton Foundation». Dai documenti, pubblicati fino a questo momento, Donald Trump è uscito invece fondamentalmente indenne. Viene citato due volte dalla Sjoberg. Nella prima occasione, racconta che Epstein lo avrebbe chiamato per andare al suo casinò di Atlantic City, dopo che i piloti del jet gli avevano detto che avrebbero effettuato un atterraggio in quella città. Nella seconda, la Sjoberg ha negato di aver avuto rapporti sessuali con il futuro presidente repubblicano. Oltre ad Andrea di York, a uscirne peggio sono invece vari esponenti del Partito democratico. Dagli incartamenti emerge infatti che la Giuffre ha raccontato di aver avuto rapporti sessuali con l’ex governatore dem del New Mexico, Bill Richardson, e con i miliardari Glenn Dubin e Thomas Pritzker: il primo è un finanziatore dell’Asinello, mentre il secondo è il cugino dell’attuale governatore dem dell’Illinois, J. B. Pritzker. Richardson fu anche segretario all’Energia nell’amministrazione Clinton dal 1998 al 2001.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/spunta-mail-vittima-epstein-2666882553.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-stampa-dem-sta-scaricando-biden" data-post-id="2666882553" data-published-at="1704491970" data-use-pagination="False"> La stampa dem sta scaricando Biden L’Economist sta scaricando Joe Biden? Sembrerebbe proprio di sì. Dopo avergli dato l’endorsement nel 2020 e dopo aver recentemente definito Donald Trump «il più grande pericolo per il mondo nel 2024», il settimanale britannico si è all’improvviso accorto delle difficoltà che ha davanti l’attuale inquilino della Casa Bianca. Pochi giorni fa, infatti, ha pubblicato un’analisi intitolata significativamente: «Le chances di Joe Biden non sembrano buone. I democratici non hanno un piano B». In particolare, l’articolo mette in evidenza l’impopolarità in cui versa il presidente americano, sottolineando anche la sua indisponibilità ad abbandonare la corsa elettorale per la riconferma. Un elemento decisivo, ragiona il settimanale, potrebbe essere rappresentato dal fatto che una crescente quota di elettori ispanici e afroamericani sta progressivamente abbandonando il Partito democratico. La testata prende, sì, in considerazione l’ipotesi di un ritiro di Biden. Il punto è che, nel caso, la finestra temporale per condurre una campagna elettorale alternativa si sta ormai chiudendo. Senza poi trascurare che, qualora dicesse addio alla corsa, non è detto che la nomination presidenziale dem sarebbe automaticamente riconosciuta a Kamala Harris. Non dimentichiamo, infatti, che il vicepresidente americano è attualmente piuttosto impopolare. E che, dietro le quinte, stanno scaldando i motori vari potenziali concorrenti, a partire dal governatore della California, Gavin Newsom. Insomma, sembra proprio che il settimanale della famiglia Elkann non sia più così entusiasta della ricandidatura di Biden, anche se - va detto - le problematiche sottolineate nel suo recente articolo sono note da mesi. D’altronde, non è il primo segnale di malumore emerso verso l’attuale presidente americano da parte dell’establishment mediatico progressista. Era lo scorso settembre, quando il giornalista David Ignatius scrisse sul Washington Post che Biden non avrebbe dovuto ricandidarsi. Inoltre, critiche al presidente in carica sono ultimamente arrivate anche dagli ex consiglieri di Barack Obama, Larry Summers e David Axelrod. Tutto questo, mentre alcune settimane fa The Hill parlava di «tensioni persistenti» tra il team di Obama e quello di Biden. Non è del resto un mistero che, dopo averlo aiutato a vincere le primarie del 2020, lo stesso Obama mostri oggi freddezza nei confronti del suo ex vice. A giugno, i due ebbero un pranzo alla Casa Bianca, in cui l’ex presidente - pur formalmente ribadendo il proprio sostegno all’attuale - si concentrò molto sulle difficoltà insite nell’affrontare e battere elettoralmente Trump. Una posizione che qualcuno interpretò come un tentativo di convincere Biden a fare un passo indietro. Sarà un caso, ma gli Elkann non sono affatto distanti dal network dell’ex presidente democratico. Nel marzo 2014, John Elkann si vide con Obama a Villa Taverna, parlando di un incontro positivo. Sempre Elkann, nel maggio 2017, fu tra gli invitati alla cena milanese in onore dello stesso Obama organizzata dall’Ispi. Insomma, non è forse del tutto escludibile che nel riposizionamento dell’Economist su Biden possa aver in qualche modo influito il network obamiano, che resta assai influente in seno al Partito democratico statunitense. A febbraio scorso, il Los Angeles Times riportò che Axelrod aveva avuto parole di elogio per Newsom. Il che pone un interrogativo: non è che Obama sta cercando di puntare su di lui per le prossime presidenziali?
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Getty Images
Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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