2019-01-14
«Sono vittima, non carnefice ma per 25 anni ho vissuto come se fossi io il latitante»
Il figlio del gioielliere ucciso, rimasto paralizzato nell'agguato, racconta la sua odissea. L'ex terrorista Maurice Bignami: «Per noi comunisti la guerra civile era una cosa accettabile».Ero in guerra ma non lo sapevo: questo è il libro di Alberto Torregiani. Nella copertina c'è scritto che questo libro dovrebbe tenerlo Cesare Battisti sul suo comodino e sarebbe la condanna peggiore, forse peggiore addirittura dell'estradizione. Cosa racconta?Torregiani: «Racconto la mia vita attorno a questo atto criminoso, quello che è successo dopo, i miei anni in ospedale; diciamo la mia latitanza».La sua latitanza. Cioè lei da persona vittima del terrorismo, fu costretto alla latitanza.Torregiani: «Sì».Per quanti anni?Torregiani: «Venticinque. Volevo trovare una pace interiore che mi permettesse di ricominciare a vivere in modo più corretto e più onesto».Cioè il suo cognome era imbarazzante, era pericoloso?Torregiani: «Pesante. Pesante anche dopo anni vivendo a Milano».Come ha realizzato, come ha capito questa guerra mai dichiarata ma da lei subita, di fatto?Torregiani: «Inizialmente non ho pensato fosse una guerra; pensavo fosse un atto tragico, un atto terroristico ovviamente rivolto a mio padre. Ma non l'ho mai preso come fosse una guerra da altri. Io a quei tempi pensavo a giocare a pallone, agli studi, a divertirmi con i miei amici. Non c'era per me un mondo politico o un mondo criminale intorno a noi. Con la riflessione, dopo anni e anni e dopo l'evento del 2004, ho analizzato ancora meglio questa cosa e ho scoperto».Maurice Bignami, quando entra invece in una organizzazione terrorista? Quando comincia e perché?Bignami: «Io comincio presto, devo dire, comincio fin dall'inizio. Quindi a metà degli anni Settanta. Il perché, il perché, detto così in poche parole...».Quanti anni aveva a metà degli anni Settanta?Bignami: «Ero già grande, quindi pienamente responsabile. Sono nato nel 1951 quindi avevo più 20 anni. Sono passato attraverso tutte le esperienze dell'estremismo politico, da Potere operaio, a Rosso, all'Autonomia e poi, infine, in Prima linea».Lei veniva da una famiglia comunista?Bignami: «Sì, certo; mio padre è stato uno dei fondatori del Partito comunista, generale durante la Resistenza, poi è stato il primo rifugiato politico italiano in Cecoslovacchia, quindi inseguito per un cosiddetto crimine partigiano. Quindi, fin da bambino, ho vissuto in un clima dove, in un certo qual modo, la guerra civile era, se non un fatto normale, comunque un fatto assolutamente accettato».Lei si sentiva una sorta di partigiano?Bignami: «Mi sentivo l'ultimo di una specie di toboga, l'ultima generazione di una serie di militanti che avevano combattuto e che stavano combattendo per la cosiddetta rivoluzione e il potere del proletariato. Ripensarci oggi è delirante, devo dire; però allora era esattamente il clima nel quale io vivevo».Quando cominciò a capire che questa rivoluzione non sarebbe arrivata?Bignami: «Io devo ringraziare di essere finito in carcere: ha fatto sì che io avessi il modo, il tempo, l'opportunità di ripensare, di ragionare con calma con i miei ex compagni e di arrivare alla decisione di chiudere con la lotta armata, cosa che facemmo nella primavera del 1983. Da lì, è cominciato un graduale ritorno alla democrazia».Oggi lei lavora alla Caritas, se non sbaglio.Bignami: «Sì».Come mai a un certo punto i gruppi terroristici non colpiscono soltanto servitori dello Stato ma addirittura se la prendono con i commercianti? Oltre al caso di Pierluigi Torregiani, ce ne fu un altro proprio fatto da Prima linea nel 1977, quando nel Varesotto si diede l'assalto a un'armeria, il titolare reagì sparando, uccise un terrorista e, dopo qualche giorno, ci fu la violenta reazione del gruppo armato.Bignami: «Certo. Il discorso è esattamente preparare un clima di guerra civile».Ma una guerra civile dichiarata solo da una parte.Bignami: «Certo. In un certo senso il signor Torregiani fu colpito da una fatwa. E non solo lui, ma anche altri: giornalisti furono colpiti in maniera specifica».Una fatwa. Ma non c'era, a un certo punto; non si creò un vuoto attorno alla vostra famiglia dopo quell'episodio in pizzeria, dopo l'episodio in cui suo padre si difese sparando a uno dei rapinatori? Torregiani: «Sì. Venne creato purtroppo anche dai media, dai giornali che disegnarono mio padre come un giustiziere, come uno sceriffo ma non come una persona che ha usato legittima difesa».Lei in un passaggio del libro racconta un po' che a un certo punto, la solidarietà viene meno.Torregiani: «La gente facilmente si dimentica dei fatti eclatanti. Le vittime, non solo io, ma sicuramente molte altre vittime appartenenti agli stessi drammi, piano piano si devono rimboccare le maniche e ricominciare daccapo, senza l'aiuto di cui avrebbero bisogno: il sostegno sia dello Stato che dei cittadini».Tutte le volte si ripropone la questione di una sorta di amnistia o, quanto meno, di una soluzione politica che riguardi i protagonisti degli anni del terrorismo e tutte le volte le vittime del terrorismo ricordano che quelle ferite sono ancora aperte. Lei che ne pensa, Bignami?Bignami: «Una soluzione politica c'è stata in realtà. Siamo, di fatto, tutti fuori dal carcere. Tolti pochissimi casi, sono fuori. Quindi noi non siamo vittime in alcun modo, siamo stati straordinariamente fortunati».Ma secondo lei ci sono cose da scoprire, come ogni tanto qualche brigatista vuol far credere, o, in realtà, è un tentativo di scusarsi, di pensare che dietro c'era un Grande fratello che governava questo movimento del terrore?Bignami: «No, purtroppo non c'era nessun Grande fratello. Le cose fatte, furono fatte da noi, le abbiamo pensate, eseguite, portate avanti».Qualcuno di questi terroristi sta addirittura alla Camera. Forse lei, Maurice Bignami, fu negli anni passati protagonista di un appello per la chiusura della lotta armata insieme con Sergio D'Elia, che oggi è parlamentare della Rosa nel pugno e fu condannato per l'attentato alle Murate in cui morì un agente di polizia. Le sembra giustizia questa?Torregiani: «No, sinceramente no».È giusto che si torni alla vita normale, alla democrazia, dopo aver commesso reati di sangue?Bignami: «È necessario tornare alla democrazia. Dopodiché è un problema di buon senso, credo di opportunità non approfittare di certi spazi».Quindi lei, mi pare di capire, non si sarebbe candidato.Bignami: «Io non ho più i diritti politici né passivi né attivi. C'è un dovere, io credo, di testimonianza che non va imposta: voi mi avete chiamato, io sono venuto. Ma ecco: la dinamica deve essere questa».Lei non fa il conferenziere di professione, campando sul terrorismo, insomma.Bignami: «Ecco, no».Perché c'è anche chi campa invece con i libri sul terrorismo: giusto, Alberto Torregiani?Torregiani: «Sì, c'è questo signor Cesare Battisti che scrive libri, vive sotto la Torre Eiffel, come io ho detto, sgattaiolato sotto la Torre Eiffel e vive alla luce del sole. O, perlomeno, fino a due anni viveva alla luce del sole, con il decreto Mitterrand».Tutte le volte lui sostiene di essere stato processato con un processo in contumacia, lasciando credere che il processo in contumacia non sia un processo regolare.Torregiani: «Che sia un processo iniquo».Era latitante, quindi è stato processato con le garanzie di uno Stato di diritto. Le voglio fare un'ultima domanda Maurice Bignami: lei anni fa disse che chiedere perdono ai parenti delle persone uccise significava mischiare lo storico e il personale, che sono due cose che devono stare separate e che non vanno mischiate. Lei, quindi, non ha chiesto scusa ai parenti delle sue vittime?Bignami: «Io chiesto anche scusa, ho parlato con alcuni di loro su richiesta loro. È un terreno delicato, dove uno rischia di fare del male, ulteriormente del male. Però io sono sempre stato e sono disponibile ancora oggi a confrontarmi e, come dire, ad affrontare la situazione».Un'ultima domanda, Alberto Torregiani: se incontrasse Cesare Battisti, cosa direbbe?Torregiani: «Be', gli direi quello che ho sempre sostenuto: di prendersi le proprie responsabilità. Penso che dopo dieci minuti di colloquio, forse, si farebbe l'esame di coscienza da solo».Lei, forse, è troppo fiducioso.