2022-01-28
«Solo se produci senza cronometro puoi definirti ambasciatore del bello»
Stefano Ricci (Stefanoricci.com)
Il patron del marchio che compie 50 anni: «Noi facciamo tutto in Italia, persino i bottoni, ma chi confeziona i nostri abiti non ha tempi contingentati. La base del fatturato ce la fanno 500 clienti che sono oltre il lusso».Dalla Grande bellezza italiana, che coltiva da tempo, alla grandiosità e magnificenza dell’Egitto. Luxor. Un ritorno, per Stefano Ricci, che nel 2003 era andato alla ricerca del significato vero della parola «lusso», termine sempre troppo abusato, partendo dall’antica Tebe, passando dal tempio di Luxor alla Valle dei Re, dalla casa di Howard Carter e, risalendo il Nilo, fino al Cairo e visitando i suoi musei. Ma è anche una prima volta quale è un compleanno. 50 anni di storia sono tanta roba da raccontare e si inizia con un sogno che diventerà realtà il 30 e il 31 marzo prossimi: sfilare «al cospetto di quelle meraviglie architettoniche ed artistiche», dice convinto Stefano Ricci, patron del marchio fondato nel 1972 a Firenze, 70 negozi di proprietà nelle capitali di tutto il mondo.Un anniversario speciale che dice quanto essere unici sia fondamentale. «La globalizzazione non funziona, si deve avere una identità».Lei ce l’ha da sempre una chiara e netta identità, come si prosegue con costanza su questa strada?«Se hai trasmesso dei valori, se sei sempre stato chiaro nel percorso da intraprendere, non è difficile. Il concetto di proprietà famigliare di un solo individuo non ti permette di avere una continuità se non hai dei figli che ti seguono in un certo modo».Vero, ma c’è chi, pur avendo figli, punta su figure esterne alla famiglia per condurre l’azienda.«Ma non hanno l’imprinting del titolare che ha messo in piedi il tutto. Ho avuto la fortuna di avere due figli, Niccolò e Filippo che - uno in un senso e uno in un altro - sono molto più adeguati di me al ruolo che la mia azienda ricopre in questo momento sul mercato. E loro sanno che l’aspetto qualitativo è fondamentale. Se alle mie maestranze di pellettieri imponessi tempi e metodi, quindi ogni fase di lavorazione sottoposta a cronometro, come fanno tutti, non raggiungerei la qualità di cui ho bisogno. Sono scelte che ti costano, però vedo che il mercato comincia ad apprezzarle sempre di più». Il mercato del lusso al quale lei si rivolge cosa chiede?«Non mi rivolgo al mercato del lusso come tale, mi rivolgo a 500 individui che fanno la base del mio fatturato, persone che spendono per loro stesse senza guardare ai prezzi ma solo all’altissima qualità. Si fanno il guardaroba due volte l’anno e ognuno di loro ha a disposizione due persone del mio staff che preparano gli outfit e loro scelgono dalla camicia al pantalone, dalla scarpa alla giacca, calzini e cravatta. Gente che è in un emisfero che non ha nulla a che vedere con il lusso, è oltre».Di dove sono?«Russia, Cina, Stati Uniti, Turchia e Ucraina. Rispetto a 20 anni fa hanno buon gusto».Come si arriva a servire certi personaggi?«Ambasciando bene. Non arrivano di punto in bianco, ti devi conquistare la loro fiducia, molto rispetto, il più piccolo problema non deve essere un problema. Se un cliente perde cinque chili da quando ha fatto l’ordine, i capi si rifanno, non si restringono. Costa. Però paga alla distanza. Non mi piace parlare di super ricchi, sono uomini che hanno avuto un successo particolarmente importante, gente che oggi è molto raffinata». Li ha educati lei all’eleganza?«Forse un po’, senza dubbio ho dato un contributo nell’abbigliamento maschile. Oggi ho una batteria di sarti da qui a laggiù. Non li avevo ancora quando iniziava il mondo russo, 40 anni fa, quello che ha salvato il made in Italy negli anni 2000. Il cliente russo, nell’eccellenza, lo fidelizzi con il servizio ancor prima del prodotto. Vuole attenzioni. Facciamo anche la prima prova in attesa di consegnare l’abito. Che costa una tombola ma a loro non interessa spendere di più. Il cliente americano invece vuole che gli azzecchi le misure, che gli stia bene subito e via». Come si suddivide il suo fatturato tra Italia e estero?«95% estero, il resto Italia. Da sempre mi chiedo, come mai gli italiani vogliono sembrare degli inglesi e gli inglesi degli italiani? Ora si percepiscono i primi segni di un italiano che, soprattutto nel tempo libero, inizia a sviluppare una certa cultura nel vestire. Però, fino a qualche tempo fa, il tessuto doveva essere inglese, pesante, anche perché i sarti inglesi i tessuti super leggeri, i 180 grammi, non li sanno lavorare. Nel cashmere abbiamo dimostrato che il sistema produttivo di maglieria è ben superiore, appena un italiano s’è avventurato a fare dei capi in cashmere non c’è stata più storia».Tutta la sua produzione avviene in Italia a dimostrazione che il vero made in Italy è un fiore all’occhiello per il Paese. Eppure la politica non ha mai avuto riguardi per questo settore.«Perché la grande industria tessile ha dettato le regole negli ultimi 50 anni. Le date, i tempi, la qualità, i prezzi, le consegne. In pratica, gli industriali han detto noi facciamo da soli perché siamo i più bravi».È una questione di arroganza?«Partiamo dalle manifestazioni come le fashion week, il Pitti. È giusto, a esempio, che il Pitti avesse oltre 1.000 espositori perché le fiere sono un business, però ci vuole qualcosa in più. Ci vorrebbe un’isola al centro del Pitti, come feci con il Classico Italia nel 1986, dove poter accedere solo con le credenziali, quindi solo quelle aziende che fanno tutto in Italia, dimostrandolo. Sarebbe un modo per valorizzare chi davvero ha la volontà di proteggere il lavoro di questo territorio. Significa definire un futuro per le nostre tradizioni, assicurare un lavoro e pagare le tasse qui».Perché questo non avviene?«Manca la modestia di ascoltare. Al Classico Italia si doveva essere presentati da almeno due espositori di quei 18 che eravamo per poter accedere. E non poteva esserci esclusione dei grandi gruppi. Oggi il problema è trovare dei nomi che producano davvero tutto in Italia. Qui faccio perfino i bottoni».Tanti francesi vengono a produrre in Italia a testimonianza di come si lavora da noi.«Si tocca un tasto tremendo. Tanti nomi italiani danno ai laboratori artigianali il tempo di produzione al minuto considerando anche il tempo che le maestranze impiegano per andare in bagno e lasciando solo il margine per poter sopravvivere. Nel momento di crisi i grossi brand stranieri si fanno avanti per comperare mentre gli italiani, vendendo, stanno perdendo una tradizione di pellettieri, un patrimonio ineguagliabile, il luogo dove c’è la più bella attività artigianale della pelletteria e una mano d’opera già addestrata. Anche politicamente, quando sento qualcuno che si lamenta del voto, rispondo che abbiamo quello che ci meritiamo».Pandemia, chiusure, come ha affrontato il terribile momento?«Nessuno avrebbe mai immaginato ciò che è successo e che ha fermato lo sviluppo dei Paesi. Stavo in campagna ma pensavo alle nostre 600 famiglie, alle 4 del mattino non riuscivo a dormire. E pagando in anticipo anche la differenza della cassa integrazione convinto che sarebbe durato poco tempo. Nel 2021 abbiamo fatto il 50% in più rispetto al 2020, ci manca un 18% per tornare al 2019, penso di superare quest’anno il 2019 di almeno un 10-15%. I momenti di tensione ti portano a riflettere e a eliminare tanti costi che non servono a niente. Quando il cannone tira non ti soffermi». Draghi ha dato all’Italia un’altra immagine nel mondo, ora siamo stimati.«I partiti si sono resi conto che in un momento come questo non servono più e l’opposizione non la possono fare. Il paese è governato dai partiti di minoranza da trent'anni. Dipendesse da me, Draghi lo farei presidente con pieni poteri e potrebbe indicare un presidente del Consiglio con chi fosse in sintonia. Squadra vincente non si cambia. Mi creda, da 60 anni l’Italia non godeva di un tale prestigio. Me lo confermano amici importanti che vivono all’estero».Pensa che il presidente della Repubblica dovrebbe essere eletto dagli italiani?«Sono per una Repubblica presidenziale alla francese dove il presidente decide con i suoi uomini in che direzione deve andare il Paese e senza compromessi. Noi invece siamo strutturati per perdere tempo e dar voce spesso a politici di mestiere senza un grande spessore. Il nostro sistema politico è fatto di alleanze temporanee, di franchi tiratori, di promesse non mantenute. Prenda la mia Firenze… è ancora più drammatica. A Bologna fanno l’aeroporto almeno, qui niente. È questione di uomini dello stesso partito».Lei ha fatto tante cose per la sua città, ora anche uno straordinario profumo che porta il suo nome. Partecipa alla vita fiorentina? «Non più, nonostante i tanti inviti. Sto bene con i miei cani da caccia, con amici internazionali. Non sto con figure di modesta statura che oggi siedono magari in alcuni posti strategici».
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)