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2020-08-18
Solo l'anti-Trumpismo tiene uniti i dem. Sembrano l'Unione di Prodi
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Michelle Obama (Ansa)
«Abbiamo bisogno di Joe Biden come nostro prossimo presidente. ... Se Donald Trump viene rieletto, tutti i progressi che abbiamo fatto saranno a rischio», ha dichiarato Sanders. «Amici miei», ha proseguito, «lo dico a voi, e a tutti coloro che hanno sostenuto altri candidati in queste primarie e a coloro che potrebbero aver votato per Donald Trump nelle ultime elezioni. È in gioco il futuro della nostra democrazia. Il futuro della nostra economia è in gioco. È in gioco il futuro del nostro pianeta». Il senatore ha inoltre tacciato il presidente di «autoritarismo». A Kasich - che fu candidato alla nomination dell'elefantino contro Trump nel 2016 - è andato invece il compito di attrarre i repubblicani anti-Trump. «Sono un repubblicano da tutta la vita, ma questo attaccamento occupa il secondo posto rispetto alla mia responsabilità nei confronti del mio Paese», ha dichiarato Kasich. «Ecco perché ho scelto di partecipare a questa convention. In tempi normali, qualcosa del genere probabilmente non accadrebbe mai, ma questi non sono tempi normali». L'ex governatore ha quindi dato il proprio endorsement a Biden. Particolarmente dura si è poi rivelata Michelle Obama. «Lasciatemi essere il più onesta e chiara possibile. Donald Trump è il presidente sbagliato per il nostro Paese», ha affermato l'ex first lady.
Il comitato elettorale di Trump, neanche a dirlo, non ha perso tempo, bollando la prima serata della convention come una «pubblicità prodotta da Hollywood» e dipingendo Biden come totalmente in balìa della «sinistra socialista radicale». In particolare, a finire nel mirino sono state le proposte politiche dell'ex vicepresidente, in materia di fisco e immigrazione.
Quello che la prima serata della convention democratica ha messo in luce sono alcuni problemi fondamentali e non certo nuovi. In primo luogo, l'asinello stenta ancora a trovare un fattore coesivo che non sia l'anti-trumpismo. Come abbiamo visto, i principali oratori della serata si sono concentrati in durissime critiche nei confronti del presidente in carica: critiche che non sono tuttavia state granché accompagnate dal tipo di prospettiva o di proposta che il Partito Democratico ha intenzione di offrire agli Stati Uniti in vista delle prossime elezioni. Al di là di generiche dichiarazioni di principio, l'asinello fatica ancora a trovare una sua strada e una sua identità. E non è affatto chiaro se - alla fine - l'anti-trumpismo basterà da solo a consentire a Biden di conquistare la Casa Bianca.
In secondo luogo, questa prima serata non ha granché affrontato il vero nodo del partito: le divisioni interne tra centro e sinistra. In particolare, su questo fronte, l'attenzione era concentrata sul discorso di Sanders che tuttavia - alla prova dei fatti - si è rivelato abbastanza deludente. Il senatore del Vermont non ha tenuto il punto sulla questione della riforma sanitaria: pur sottolineando le differenze in materia tra sé e Biden, Sanders ha di fatto alla fine ceduto, affermando che l'ex vicepresidente «ha un piano che amplierà notevolmente l'assistenza sanitaria». È altamente probabile che questa sorta di resa non andrà giù a svariate parti dell'elettorato sandersiano. Un elettorato, ricordiamolo, che non ha mai seguìto in massa gli endorsement del proprio leader, tutte le volte che quest'ultimo ha deciso di fare un passo indietro: si pensi al 2016, quando - nonostante il suo endorsement a Hillary Clinton - diversi elettori del senatore socialista votarono alla fine per Trump in Pennsylvania, Michigan e Ohio. D'altronde, che si registrino tensioni nel Partito Democratico è testimoniato anche dal litigio, consumatosi a poche ore dall'inizio della convention, tra lo stesso Kasich e la deputata democratica di sinistra, Alxeandria Ocasio-Cortez sulla questione dell'aborto.
Veniamo infine proprio alla partecipazione di Kasich. Come detto, il suo intervento era finalizzato a conquistare il voto dei repubblicani anti-Trump. Il punto è che una simile mossa potrebbe rivelarsi un boomerang per Biden. Non solo, come abbiamo visto, perché sta rinfocolando i malumori della sinistra. Ma anche perché generalmente i repubblicani anti-Trump sono figure che appartengono agli alti circoli di Washington e non godono di grande seguito popolare. Un elemento che potrebbe quindi costare ai democratici di nuovo l'accusa di essere troppo vicini all'establishment. Pensiamo soltanto all'endorsement che Biden ricevette a giugno dall'ex segretario di Stato di George W. Bush, Colin Powell: un endorsement che - visto il personaggio controverso - deve essere stato non poco imbarazzante per l'ex vicepresidente. Certo: al netto di tutti i problemi e le divisioni intestine, ieri sera il Partito democratico ha ostentato unità. Lo fece anche nel 2016 tuttavia: e abbiamo visto come è andata a finire.
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Ha preso il via ieri sera la convention del Partito democratico, che porterà all'investitura formale di Joe Biden come candidato alla Casa Bianca per le presidenziali del prossimo novembre. L'evento, che si concluderà giovedì, ha visto succedersi - nel corso della prima sera - vari oratori, tra cui il senatore del Vermont, Bernie Sanders, l'ex first lady, Michelle Obama, e l'ex governatore repubblicano dell'Ohio, John Kasich.«Abbiamo bisogno di Joe Biden come nostro prossimo presidente. ... Se Donald Trump viene rieletto, tutti i progressi che abbiamo fatto saranno a rischio», ha dichiarato Sanders. «Amici miei», ha proseguito, «lo dico a voi, e a tutti coloro che hanno sostenuto altri candidati in queste primarie e a coloro che potrebbero aver votato per Donald Trump nelle ultime elezioni. È in gioco il futuro della nostra democrazia. Il futuro della nostra economia è in gioco. È in gioco il futuro del nostro pianeta». Il senatore ha inoltre tacciato il presidente di «autoritarismo». A Kasich - che fu candidato alla nomination dell'elefantino contro Trump nel 2016 - è andato invece il compito di attrarre i repubblicani anti-Trump. «Sono un repubblicano da tutta la vita, ma questo attaccamento occupa il secondo posto rispetto alla mia responsabilità nei confronti del mio Paese», ha dichiarato Kasich. «Ecco perché ho scelto di partecipare a questa convention. In tempi normali, qualcosa del genere probabilmente non accadrebbe mai, ma questi non sono tempi normali». L'ex governatore ha quindi dato il proprio endorsement a Biden. Particolarmente dura si è poi rivelata Michelle Obama. «Lasciatemi essere il più onesta e chiara possibile. Donald Trump è il presidente sbagliato per il nostro Paese», ha affermato l'ex first lady.Il comitato elettorale di Trump, neanche a dirlo, non ha perso tempo, bollando la prima serata della convention come una «pubblicità prodotta da Hollywood» e dipingendo Biden come totalmente in balìa della «sinistra socialista radicale». In particolare, a finire nel mirino sono state le proposte politiche dell'ex vicepresidente, in materia di fisco e immigrazione. Quello che la prima serata della convention democratica ha messo in luce sono alcuni problemi fondamentali e non certo nuovi. In primo luogo, l'asinello stenta ancora a trovare un fattore coesivo che non sia l'anti-trumpismo. Come abbiamo visto, i principali oratori della serata si sono concentrati in durissime critiche nei confronti del presidente in carica: critiche che non sono tuttavia state granché accompagnate dal tipo di prospettiva o di proposta che il Partito Democratico ha intenzione di offrire agli Stati Uniti in vista delle prossime elezioni. Al di là di generiche dichiarazioni di principio, l'asinello fatica ancora a trovare una sua strada e una sua identità. E non è affatto chiaro se - alla fine - l'anti-trumpismo basterà da solo a consentire a Biden di conquistare la Casa Bianca.In secondo luogo, questa prima serata non ha granché affrontato il vero nodo del partito: le divisioni interne tra centro e sinistra. In particolare, su questo fronte, l'attenzione era concentrata sul discorso di Sanders che tuttavia - alla prova dei fatti - si è rivelato abbastanza deludente. Il senatore del Vermont non ha tenuto il punto sulla questione della riforma sanitaria: pur sottolineando le differenze in materia tra sé e Biden, Sanders ha di fatto alla fine ceduto, affermando che l'ex vicepresidente «ha un piano che amplierà notevolmente l'assistenza sanitaria». È altamente probabile che questa sorta di resa non andrà giù a svariate parti dell'elettorato sandersiano. Un elettorato, ricordiamolo, che non ha mai seguìto in massa gli endorsement del proprio leader, tutte le volte che quest'ultimo ha deciso di fare un passo indietro: si pensi al 2016, quando - nonostante il suo endorsement a Hillary Clinton - diversi elettori del senatore socialista votarono alla fine per Trump in Pennsylvania, Michigan e Ohio. D'altronde, che si registrino tensioni nel Partito Democratico è testimoniato anche dal litigio, consumatosi a poche ore dall'inizio della convention, tra lo stesso Kasich e la deputata democratica di sinistra, Alxeandria Ocasio-Cortez sulla questione dell'aborto.Veniamo infine proprio alla partecipazione di Kasich. Come detto, il suo intervento era finalizzato a conquistare il voto dei repubblicani anti-Trump. Il punto è che una simile mossa potrebbe rivelarsi un boomerang per Biden. Non solo, come abbiamo visto, perché sta rinfocolando i malumori della sinistra. Ma anche perché generalmente i repubblicani anti-Trump sono figure che appartengono agli alti circoli di Washington e non godono di grande seguito popolare. Un elemento che potrebbe quindi costare ai democratici di nuovo l'accusa di essere troppo vicini all'establishment. Pensiamo soltanto all'endorsement che Biden ricevette a giugno dall'ex segretario di Stato di George W. Bush, Colin Powell: un endorsement che - visto il personaggio controverso - deve essere stato non poco imbarazzante per l'ex vicepresidente. Certo: al netto di tutti i problemi e le divisioni intestine, ieri sera il Partito democratico ha ostentato unità. Lo fece anche nel 2016 tuttavia: e abbiamo visto come è andata a finire.
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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