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2018-04-02
Caracas ne è la conferma: il socialismo è il male
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ANSA
La prima fase è un grande classico, ormai da una sessantina d'anni. Parliamoci chiaro. Dal Rapporto Krusciov del 1956 sui crimini dello stalinismo, passando per la repressione prima della rivolta di Budapest sempre nel 1956 e poi della Primavera di Praga 12 anni più tardi, per i comunisti d'Occidente è stato via via più difficile proporre pari pari l'adozione del modello sovietico. Meglio cercare una via alternativa, una variante meno scoperta: e allora - stagione per stagione, moda per moda, continente per continente - ecco l'infatuazione per la rivoluzione cubana, la guerriglia in Sud America, il Vietnam, il panarabismo, fino alle sperimentazioni più recenti, dall'ideologia no global fino alla grande fascinazione venezuelana per Hugo Chávez e Nicolás Maduro. Come si vede, un minestrone, un grande caos, un'enorme confusione, un canestro di contraddizioni. Ma - come tenacissimo filo conduttore - un elemento irrinunciabile: l'idea che l'Occidente sia il male, che il mondo sia retto da una grande congiura amerikana-capitalista-massonica-bancaria-sionista, e che occorra disperatamente cercare un'alternativa.
Se prendiamo il caso del Venezuela e il ciclo che abbiamo descritto, la prima fase (adorazione e propaganda) ha protagonisti illustrissimi. Jeremy Corbyn, il leader laburista britannico, un tipetto che vorrebbe nazionalizzare tutto in patria, mentre all'estero occhieggia a Hamas-Hezbollah-Teheran, ha spiegato più volte che il Venezuela dovrebbe essere un'ispirazione per tutti noi per combattere contro l'austerità e il neoliberismo in Europa (un dettaglio: qualche articolo troppo spinto pro Chavez è poi sparito dal sito di Corbyn). Ancora: Noam Chomsky, icona culturale e ideologica della sinistra mondiale, parlando (nel 2009) del Venezuela, si emozionava a descrivere quanto fosse «eccitante vedere come un mondo migliore viene creato». E qui a casa nostra? Elementare, Watson: basta guardare in direzione 5 stelle. Ancora un anno fa, due perle: un viaggetto di una delegazione grillina a Caracas per una cerimonia commemorativa di Chavez, e la surreale proposta di Luigi Di Maio di affidare nientemeno che al tandem Venezuela-Cuba la mediazione tra le tribù della Libia (non è uno scherzo, avete letto bene).
Naturalmente, a poco a poco, con un prezzo di fame, oppressione, miseria, interamente pagato da popolazioni sventurate, la verità comincia a farsi strada. E iniziano a filtrare i dati del disastro. Scatta allora la seconda fase, che a sua volta richiede alcuni step. Dapprima: negare, negare, negare. Poi cercare di spostare la colpa su altri: in genere sulle sanzioni americane, vere responsabili della crisi, ci si spiega. Non guasta, in questa fase, anche un po' di fango da lanciare contro gli oppositori del regime: descritti come manovrati da Washington, usati in funzione antirivoluzionaria, ventriloqui del capitalismo internazionale, e via delirando. Infine, l'ultimo step è la diffusione di dati alternativi, per confondere le acque. Anche qui, tornano utili i nostri 5 stelle, e una surreale mozione parlamentare del gennaio 2017 nella quale spiegavano che «da quasi 19 anni il Venezuela attraversa una profonda fase di trasformazione, che ha permesso al Paese di raggiungere importanti obiettivi», e poi un fuoco di fila di successi: «il Venezuela è tra i 29 Paesi nel mondo che hanno raggiunto gli obiettivi di sviluppo del Millennio e la meta del vertice sull'alimentazione. Tra il 1998 e il 2013, in Venezuela la fame si è ridotta del 21,10 per cento, e oggi essa si assesta a meno del 5 per cento». Insomma, una specie di paradiso in terra, se non fosse per i soliti perfidi attori stranieri, per «l'indebita ingerenza negli affari interni del Paese», e ovviamente per gli Usa con le loro «inique sanzioni che colpiscono il Paese».
Quando infine tutto è ormai perduto, scatta allora la terza e ultima fase. I nostri intellettuali di sinistra - con la stessa sicumera di sempre, con un'arietta di superiorità non scalfita nemmeno da lutti, sangue, disastri, fame - ci spiegano che quello non era «vero socialismo». Che l'idea era buona, ma è stata realizzata male. La parola chiave è «implementazione». L'implementazione non è stata corretta, ci dicono.
E invece no, cari compagni. Quello (vale per il Venezuela, ma vale quasi sempre per fulgidi esempi prima propagandati e poi frettolosamente rinnegati) era proprio autentico socialismo. Per Chavez e Maduro i punti fermi erano: proprietà statale dei mezzi di produzione e delle risorse; nazionalizzazioni ed espropri; più tasse e più spesa; e grande retorica del governo «per i tanti, non per i pochi» (come recitava lo slogan di Corbyn, poi ripreso dai Liberi e uguali di Pietro Grasso e Laura Boldrini) e della lotta contro la povertà. Socialismo puro, cristallino, da manuale.
Risultato? L'ennesima prova di una regola che non conosce eccezioni: nessuno fa più male ai poveri del socialismo. Ancora negli anni Settanta, il Venezuela era un Paese dove in tanti - dal resto del Sud America - desideravano recarsi per sfuggire alla miseria. Oggi, dopo la cura Chavez-Maduro, l'inflazione è all'800%, la povertà è passata dal 48% all'82%, il salario minimo è diminuito di tre quarti, i blackout sono all'ordine del giorno, cibo e medicine scarseggiano, la malnutrizione è una realtà, e nuovi record di mortalità infantile vengono regolarmente stabiliti e battuti.
Dinanzi a questa catastrofe politica, culturale e morale, è l'ora di ricompitare sette elementari verità, e di farlo con orgoglio occidentale, pro mercato, pro libertà. Consapevoli come siamo che il nostro sistema - pur pieno di difetti - basato su capitalismo e democrazia politica sia il miglior metodo di convivenza costruito dall'ingegno umano, e l'unico che cerchi - direi programmaticamente - di coniugare la soddisfazione individuale con la crescita comune.
E allora diciamole queste cose che mandano in crisi di nervi collettivisti e marxisti vecchi e nuovi, di andata e di ritorno. Primo: il socialismo non ha funzionato e non funziona. Secondo: oltre a non funzionare, è basato sulla coercizione di stato. Terzo: questa coercizione di Stato non riguarda solo le libertà economiche, ma la libertà in quanto tale. Quarto: è incredibile la capacità comunista di sacrificare sull'altare dell'ideologia, della propaganda, di un modello, la vita concreta di milioni di donne e uomini, sulle cui vite devastate viene cinicamente caricato il costo di non sciupare una bella narrazione. Quinto: è doloroso che, tranne rare e meritorie eccezioni, servano eccidi o stragi eclatanti affinché storie come quelle del Venezuela si guadagnino alcuni centimetri o qualche decina di secondi di spazio sui giornali, nelle radio, nelle televisioni. Sesto: ma con che faccia ci si prepara alle celebrazioni italiane del 25 aprile (mancano tre settimane, tanto vale portarci avanti con il lavoro) senza desiderare un 25 aprile anche per i venezuelani, per i cubani, per gli oppressi di tutto il mondo? E infine, settimo (e ultimo): ma perché questi innamorati del modello venezuelano e dei suoi successi non sono ancora andati a goderseli in quel paradiso chiamato Caracas?
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C'è un ciclo in tre fasi, preciso e regolare più di un orologio svizzero, che descrive il comportamento della sinistra occidentale rispetto alle applicazioni del socialismo in giro per il mondo. Prima fase, l'adorazione: campagne politiche e di stampa per propagandare il nuovo modello. Seconda fase, quando si cominciano a intravvedere i segni del fallimento: strategia del diniego e diffusione di dati alternativi. Terza fase, quando il disastro è irrimediabilmente conclamato: spiegare che quello in realtà non era «vero socialismo». La prima fase è un grande classico, ormai da una sessantina d'anni. Parliamoci chiaro. Dal Rapporto Krusciov del 1956 sui crimini dello stalinismo, passando per la repressione prima della rivolta di Budapest sempre nel 1956 e poi della Primavera di Praga 12 anni più tardi, per i comunisti d'Occidente è stato via via più difficile proporre pari pari l'adozione del modello sovietico. Meglio cercare una via alternativa, una variante meno scoperta: e allora - stagione per stagione, moda per moda, continente per continente - ecco l'infatuazione per la rivoluzione cubana, la guerriglia in Sud America, il Vietnam, il panarabismo, fino alle sperimentazioni più recenti, dall'ideologia no global fino alla grande fascinazione venezuelana per Hugo Chávez e Nicolás Maduro. Come si vede, un minestrone, un grande caos, un'enorme confusione, un canestro di contraddizioni. Ma - come tenacissimo filo conduttore - un elemento irrinunciabile: l'idea che l'Occidente sia il male, che il mondo sia retto da una grande congiura amerikana-capitalista-massonica-bancaria-sionista, e che occorra disperatamente cercare un'alternativa.Se prendiamo il caso del Venezuela e il ciclo che abbiamo descritto, la prima fase (adorazione e propaganda) ha protagonisti illustrissimi. Jeremy Corbyn, il leader laburista britannico, un tipetto che vorrebbe nazionalizzare tutto in patria, mentre all'estero occhieggia a Hamas-Hezbollah-Teheran, ha spiegato più volte che il Venezuela dovrebbe essere un'ispirazione per tutti noi per combattere contro l'austerità e il neoliberismo in Europa (un dettaglio: qualche articolo troppo spinto pro Chavez è poi sparito dal sito di Corbyn). Ancora: Noam Chomsky, icona culturale e ideologica della sinistra mondiale, parlando (nel 2009) del Venezuela, si emozionava a descrivere quanto fosse «eccitante vedere come un mondo migliore viene creato». E qui a casa nostra? Elementare, Watson: basta guardare in direzione 5 stelle. Ancora un anno fa, due perle: un viaggetto di una delegazione grillina a Caracas per una cerimonia commemorativa di Chavez, e la surreale proposta di Luigi Di Maio di affidare nientemeno che al tandem Venezuela-Cuba la mediazione tra le tribù della Libia (non è uno scherzo, avete letto bene).Naturalmente, a poco a poco, con un prezzo di fame, oppressione, miseria, interamente pagato da popolazioni sventurate, la verità comincia a farsi strada. E iniziano a filtrare i dati del disastro. Scatta allora la seconda fase, che a sua volta richiede alcuni step. Dapprima: negare, negare, negare. Poi cercare di spostare la colpa su altri: in genere sulle sanzioni americane, vere responsabili della crisi, ci si spiega. Non guasta, in questa fase, anche un po' di fango da lanciare contro gli oppositori del regime: descritti come manovrati da Washington, usati in funzione antirivoluzionaria, ventriloqui del capitalismo internazionale, e via delirando. Infine, l'ultimo step è la diffusione di dati alternativi, per confondere le acque. Anche qui, tornano utili i nostri 5 stelle, e una surreale mozione parlamentare del gennaio 2017 nella quale spiegavano che «da quasi 19 anni il Venezuela attraversa una profonda fase di trasformazione, che ha permesso al Paese di raggiungere importanti obiettivi», e poi un fuoco di fila di successi: «il Venezuela è tra i 29 Paesi nel mondo che hanno raggiunto gli obiettivi di sviluppo del Millennio e la meta del vertice sull'alimentazione. Tra il 1998 e il 2013, in Venezuela la fame si è ridotta del 21,10 per cento, e oggi essa si assesta a meno del 5 per cento». Insomma, una specie di paradiso in terra, se non fosse per i soliti perfidi attori stranieri, per «l'indebita ingerenza negli affari interni del Paese», e ovviamente per gli Usa con le loro «inique sanzioni che colpiscono il Paese».Quando infine tutto è ormai perduto, scatta allora la terza e ultima fase. I nostri intellettuali di sinistra - con la stessa sicumera di sempre, con un'arietta di superiorità non scalfita nemmeno da lutti, sangue, disastri, fame - ci spiegano che quello non era «vero socialismo». Che l'idea era buona, ma è stata realizzata male. La parola chiave è «implementazione». L'implementazione non è stata corretta, ci dicono. E invece no, cari compagni. Quello (vale per il Venezuela, ma vale quasi sempre per fulgidi esempi prima propagandati e poi frettolosamente rinnegati) era proprio autentico socialismo. Per Chavez e Maduro i punti fermi erano: proprietà statale dei mezzi di produzione e delle risorse; nazionalizzazioni ed espropri; più tasse e più spesa; e grande retorica del governo «per i tanti, non per i pochi» (come recitava lo slogan di Corbyn, poi ripreso dai Liberi e uguali di Pietro Grasso e Laura Boldrini) e della lotta contro la povertà. Socialismo puro, cristallino, da manuale.Risultato? L'ennesima prova di una regola che non conosce eccezioni: nessuno fa più male ai poveri del socialismo. Ancora negli anni Settanta, il Venezuela era un Paese dove in tanti - dal resto del Sud America - desideravano recarsi per sfuggire alla miseria. Oggi, dopo la cura Chavez-Maduro, l'inflazione è all'800%, la povertà è passata dal 48% all'82%, il salario minimo è diminuito di tre quarti, i blackout sono all'ordine del giorno, cibo e medicine scarseggiano, la malnutrizione è una realtà, e nuovi record di mortalità infantile vengono regolarmente stabiliti e battuti. Dinanzi a questa catastrofe politica, culturale e morale, è l'ora di ricompitare sette elementari verità, e di farlo con orgoglio occidentale, pro mercato, pro libertà. Consapevoli come siamo che il nostro sistema - pur pieno di difetti - basato su capitalismo e democrazia politica sia il miglior metodo di convivenza costruito dall'ingegno umano, e l'unico che cerchi - direi programmaticamente - di coniugare la soddisfazione individuale con la crescita comune.E allora diciamole queste cose che mandano in crisi di nervi collettivisti e marxisti vecchi e nuovi, di andata e di ritorno. Primo: il socialismo non ha funzionato e non funziona. Secondo: oltre a non funzionare, è basato sulla coercizione di stato. Terzo: questa coercizione di Stato non riguarda solo le libertà economiche, ma la libertà in quanto tale. Quarto: è incredibile la capacità comunista di sacrificare sull'altare dell'ideologia, della propaganda, di un modello, la vita concreta di milioni di donne e uomini, sulle cui vite devastate viene cinicamente caricato il costo di non sciupare una bella narrazione. Quinto: è doloroso che, tranne rare e meritorie eccezioni, servano eccidi o stragi eclatanti affinché storie come quelle del Venezuela si guadagnino alcuni centimetri o qualche decina di secondi di spazio sui giornali, nelle radio, nelle televisioni. Sesto: ma con che faccia ci si prepara alle celebrazioni italiane del 25 aprile (mancano tre settimane, tanto vale portarci avanti con il lavoro) senza desiderare un 25 aprile anche per i venezuelani, per i cubani, per gli oppressi di tutto il mondo? E infine, settimo (e ultimo): ma perché questi innamorati del modello venezuelano e dei suoi successi non sono ancora andati a goderseli in quel paradiso chiamato Caracas?
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
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I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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