2024-09-16
Su Sky Crime il caso di Gipsy e Dee Dee Blanchard
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Gypsy Blanchard è tra le protagoniste della serie tv Ho ucciso mia madre (Sky Crime)
La serie tv è basata sulla cronaca di un matricidio avvenuto nel 2015 negli Usa. Il movente: una figlia oppressa per anni da una madre affetta da un gravissimo disturbo psichiatrico. Da lunedì 16 settembre.Quella diagnosticata alla madre di Gypsy Rose Blanchard non è la sindrome di Münchhausen, così come i manuali di medicina psichiatrica la descrivono, ma una sua variante: per procura, dicono, ad indicare come chi ne sia affetto proietti su soggetti sottoposti alle proprie cure l’esistenza di mille e più malattie, trasformando questi poveri individui in malati immaginari. Dee Dee Blanchard avrebbe sofferto di questo disturbo, sarebbe stata una matta. Nessuna cattiveria, dunque, nelle sue azioni. Nessuna volontà di far del male alla propria bambina. La sua vicenda, così peculiare da aver suscitato negli anni l’attenzione di cinema e televisione, sarebbe stata la conseguenza tragica di quella follia subdola. Ma non c’è condizionale, nella storia, che possa essere epurato.Cos’abbia mosso Dee Dee Blanchard, se i disturbi di una mente malata o il cinismo, non è stato stabilito con certezza matematica. E mai lo sarà. Perché la donna, la cui storia è raccontata insieme a quella della figlia nel documentario Ho ucciso mia madre (su Sky Crime dalle 22.55 di lunedì 16 settembre), è morta nel 2015. Dee Dee Blanchard è stata uccisa dal fidanzato della figlia, su richiesta esplicita di questa. Ventitreenne, all’epoca, decisa a sbarazzarsi di quella madre opprimente, che per tutta la vita le aveva dato da bere una realtà mistificata e corrotta. Gypsy Rose Blanchard, poi condannata a dieci anni di carcere, è stata ricoverata la prima volta a pochi mesi. Sua madre, sentendola gemere sommessamente nel sonno, si era convinta avesse problemi respiratori. E, di lì, è stato l’inferno. Un inferno fatto di richieste e medicinali, di cure, perché quella bambina doveva essere malata. Qualche medico, nel corso del tempo, ha pure avallato le follie di Dee Dee, credendo avesse ragione, diagnosticando a Gypsy i mali che la madre diceva avere. Gypsy non mangiava, era alimentata con un sondino gastrico. Non camminava, perché sua mamma le diceva non essere capace. Stava su una sedia a rotelle, dipendente in tutto dalle cure e dal sostegno della donna che l’aveva messa al mondo. La stessa donna che, su quelle malattie presunte, s’era trovata a costruire un piccolo castello di sovvenzioni statali e aiuti. Dee Dee Blanchard, attraverso l’invalidità della figlia, percepiva pensioni, sovvenzioni. Viveva della carità degli altri, della loro compassione ed empatia. Lasciava che le associazioni di volontari esaudissero i desideri della sua bambina, portandola a Disneyworld, regalandole viaggi e pupazzi. Gypsy viveva nell’ignoranza. Ma un computer, un social e la possibilità di scrivere ad estranei ha sovvertito quello che fino ad allora era stato l’ordine. Su un sito di incontri cristiani, la ragazza ha conosciuto Nicholas Godejohn, coetaneo affetti da disturbi borderline della personalità. Si sono incontrati una sola volta, al cinema, e lì hanno suggellato un patto fra innamorati. Nicholas avrebbe ucciso Dee Dee. Poi, i due sarebbero scappati insieme. Peccato, però, la fuga sia durata poco. Gypsy si è autodenunciata su Facebook, è stata arrestata e condannata. Dei dieci anni, ne ha scontati sette. Sul finire del 2023, è stata rilasciata per buona condotta, e da alcuni – media compresi – celebrata come una sorta di eroina.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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