Kirill Budanov (Ansa)
Allerta degli 007 americani sull’attacco alla Nato. Budanov: «Avverrà nel 2027».
La delegazione ucraina e quella russa potrebbero sedersi presto allo stesso tavolo dei negoziati in Florida. Ad aver presentato questa possibilità al leader di Kiev, Volodymyr Zelensky, sono stati direttamente gli Stati Uniti.
Sicuramente nei potenziali colloqui è prevista la partecipazione americana, ma potrebbero aggiungersi anche gli europei, visto che si trovano sul suolo americano. Il presidente ucraino, nell’annunciare questa opportunità, ha dichiarato che Washington «ha proposto il seguente formato: Ucraina, America, Russia e, dato che ci sono rappresentanti dell’Europa, probabilmente anche l’Europa». E in tal caso a prendere parte sarebbero i consiglieri per la sicurezza nazionale. Pare però che la decisione finale spetti a Zelensky: sarà l’Ucraina a stabilire la configurazione della riunione in base all’esito dell’incontro di venerdì tra i negoziatori americani, la delegazione ucraina e quella europea. E per questo il presidente ucraino, che si mostra già scettico, ha comunicato che ne parlerà con Rustem Umerov. D’altronde, Zelensky ha spiegato che deve ancora essere aggiornato sui risultati raggiunti a Miami: «Il nostro team si metterà in contatto con me: mi comunicheranno l’esito del primo blocco di dialogo e poi capiremo cosa fare». Poco dopo ha riferito che la proposta americana potrebbe essere accettata qualora faciliti lo scambio di prigionieri e sia il preludio di un incontro «tra i leader». Ha poi avvertito che Washington deve chiarire «se c’è una via diplomatica», altrimenti, in caso contrario «ci sarà una pressione totale» su Mosca.
Ma prima dell’eventuale trilaterale o quadrilaterale, ieri l’inviato americano, Steve Witkoff, il genero di Donald Trump, Jared Kushner, e il segretario di Stato americano, Marco Rubio, la cui presenza però, quando siamo andati in stampa, non era ancora confermata, si sono incontrati a Miami con la delegazione russa guidata da Kirill Dmitriev. L’inviato del presidente russo, Vladimir Putin, prima dei colloqui, ha condiviso su X un video girato durante la precedente missione in Florida, scrivendo: «In viaggio per Miami. Mentre i guerrafondai continuano a fare gli straordinari per indebolire il piano di pace degli Stati Uniti per l’Ucraina, mi sono ricordato di questo video della mia precedente visita. La luce che irrompe attraverso le nuvole temporalesche». Più tardi, mentre era in viaggio verso la Florida, ha aggiunto che la Russia è «pronta a collaborare con gli Stati Uniti nell’Artico».
Ma oltre agli interessi già noti in quell’area, Mosca avrebbe altri obiettivi. In una versione che stride con la visione della Casa Bianca, sei fonti vicine all’intelligence americana hanno infatti rivelato a Reuters che la Russia mira a conquistare tutta l’Ucraina e i Paesi dell’ex Unione sovietica. Il membro democratico della Commissione intelligence della Camera, Mike Quigley, interpellato dall’agenzia britannica, ha dichiarato: «Le informazioni di intelligence hanno sempre indicato che Putin vuole di più. Gli europei ne sono convinti. I polacchi ne sono assolutamente convinti. I baltici pensano di essere i primi». Che tra i target russi ci siano gli Stati baltici ne è certo anche il capo del servizio segreto militare ucraino, Kirill Budanov. In un’intervista rilasciata a LB.ua. ha annunciato che «il piano originale» di Mosca prevedeva «di iniziare le operazioni» di conquista «nel 2030», ma «ora i piani sono stati modificati e rivisti per anticipare la tempistica al 2027».
Guardando invece al presente, l’apertura dello zar russo a un cessate il fuoco in Ucraina qualora si tenessero le elezioni non è stata apprezzata dal leader di Kiev. Zelensky ha detto che «non spetta a Putin decidere quando e in quale forma si terranno le elezioni in Ucraina». Tuttavia, ha già comunicato che il ministero degli Esteri è al lavoro per organizzare il voto all’estero. Immediata è stata la risposta del Cremlino, con il suo portavoce Dmitry Peskov che ha bollato Zelensky come «confuso» e «contradditorio» dato che ha già chiesto il sostegno americano proprio per garantire che le eventuali elezioni si svolgano in sicurezza.
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Ansa
Violenti tafferugli durante il corteo degli antagonisti in seguito alla chiusura del centro sociale. Un gruppo di incappucciati lancia bottiglie sulle forze dell’ordine, che impiegano gli idranti. Nove poliziotti feriti.
Nel centro di Torino, trasformato dalla protesta per lo sgombero del centro sociale Askatasuna in una zona attraversabile solo a colpi di slogan e bandiere rosse, quando sono comparsi i volti coperti dai passamontagna e le prime file sono arrivate a contatto con la polizia, è scoppiata la guerriglia. Cassonetti in fiamme, lancio di sassi e di fuochi d’artificio contro i reparti mobili. La risposta dello Stato: cariche, idranti e lacrimogeni. Quasi un’ora di battaglia in corso Regina Margherita, all’angolo con via Vanchiglia. Città paralizzata, piazza Vittorio e ponti blindati, agenti colpiti mentre tenevano la linea: in nove, colpiti con oggetti contundenti, sono rimasti feriti. Pochi istanti prima, dal corteo pro Askatasuna, annunciato, atteso e temuto, quello che avanzava come un lungo serpentone di famiglie, studenti e volti noti del centro sociale, proprio come era stato previsto, è emersa la falange di facinorosi.
Il terreno era stato preparato a colpi di retorica. Gli slogan degli attivisti: «Il governo Meloni cerca di piegare questa città, medaglia d’oro per la resistenza». Torino «è partigiana e si è sempre schierata». E ancora: «In piazza ci sono giovani, famiglie e persone che si riconoscono in un progetto collettivo». Parole. Poi arrivano i fatti. Quando il corteo imbocca corso Regina Margherita, qualcosa cambia. All’angolo con via Vanchiglia il corteo, con un passaggio secco, muta pelle. Spuntano i caschi, le sciarpe salgono sul volto. Il manuale della piazza antagonista, quello che dimostra che gli scontri non sono un incidente di percorso ma il percorso, viene applicato alla lettera. Nel corteo c’è anche la pasionaria No Tav Nicoletta Dosio. Rivendica una storia che parte dal 1999 e assicura che quella «resistenza» continuerà. Richiama la presenza dei «nuovi vecchi partigiani», citando Prosperina «Lisetta» Vallet, la cui gigantografia in bianco e nero posta sul furgone di apertura del corteo era stata rimossa dallo stabile di Askatasuna, «perché anche le immagini fanno paura ai fascismi». Gli organizzatori rivendicano al microfono 10.000 presenze (circa 3.000 sono quelle stimate dalla questura). Dagli altoparlanti parte un messaggio di solidarietà del fumettista Zerocalcare: «Non immagino Torino senza Askatasuna e spero che questo non accadrà mai». Ma ci sono anche volti istituzionali. Il segretario della Cgil Piemonte, Giorgio Airaudo, tra i garanti del patto saltato con il Comune sull’edificio di corso Regina Margherita 47, quello occupato da Askatasuna, dice di pensare «che il Comune deve riprendere quella strada, che è una strada di dialogo». Parla di «mediazione sociale». Pochi minuti dopo è il caos. Seguito dalle lacrime di coccodrillo. «Desideriamo condannare con fermezza gli episodi di violenza che si sono verificati durante il corteo di oggi, esprimendo solidarietà e vicinanza alle forze dell’ordine coinvolte nei disordini, chiamate ad operare in un contesto molto complesso e delicato, ai commercianti e a tutte le cittadine e i cittadini che hanno vissuto disagi, peraltro a pochi giorni dal Natale», dice il sindaco di Torino Stefano Lo Russo (nella cui giunta c’è un assessore di Alleanza dei Verdi e Sinistra, Jacopo Rosatelli, che ha preso parte al corteo). Ormai viene bollato come un «infame» dai manifestanti ai quali nei mesi scorsi aveva strizzato l’occhio. Dopo gli scontri, quando è tornata la calma, un gruppetto di attivisti ha proiettato sui palazzo di piazza Vittorio Veneto le scritte «Sbirri di m.... Aska libero». Poi: «Meloni dimissioni». E infine: «Sindaco Lo Russo servo infame». A riportare la questione sul binario è il segretario del sindacato di polizia Coisp Domenico Pianese: «A Torino siamo di fronte alla pretesa di imporre l’illegalità come metodo politico e di dichiarare guerra allo Stato». Mentre la sinistra, quella che aveva tollerato il patto con gli attivisti del centro sociale, e i sindacati restano in silenzio. Dai vertici del centrodestra, invece, la condanna è dura. Matteo Salvini: «Da una parte donne e uomini in divisa, che difendono la legalità, dall’altra i soliti violenti, figli di papà frustrati e falliti, che hanno mandato sette (poi diventati nove, ndr) agenti all’ospedale. Lo sgombero di Askatasuna è solo l’inizio, ruspe sui centri sociali covi di delinquenti». Galeazzo Bignami, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, punta il dito: «La sinistra dovrebbe vergognarsi. Ha dimostrato ancora una volta di non avere senso delle istituzioni, sfilando al corteo con chi oltraggia ogni giorno lo Stato e i suoi rappresentanti». Per Antonio Tajani «è la dimostrazione» che il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi (che in serata ha telefonato al capo della polizia Vittorio Pisani per informarsi sulle condizioni degli agenti feriti a Torino) «ha fatto bene». Poi ha aggiunto: «Se il centro sociale diventa il luogo dove si organizzano gli attacchi alle forze dell’ordine è giusto che il governo abbia preso una decisione ferma, non c’è libertà senza legalità». Perfino il leader di Azione Carlo Calenda usa toni pesanti: «Askatasuna è un gruppo violento e intollerante che è stato per troppo tempo tollerato. Vanno sciolti e perseguiti se compiono reati».
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Theodoris Kyriakou (Getty Images)
Antenna Group, in trattativa per rilevare i giornali di Elkann (Gedi), annuncia che investirà a lungo nel nostro Paese: «È uno dei pochi Stati che offre stabilità politica e prospettive di crescita». Ma l’universo di sinistra vuole farla scappare.
Succede anche questo, nel grande teatro dell’informazione italiana: arrivano i greci e spiegano con serietà, pacatezza e persino una certa eleganza perché investire in Italia è una buona idea. Comprano (o trattano per comprare) Repubblica, cioè il cuore simbolico dell’impero Gedi di John Elkann, e dicono che lo fanno perché l’Italia è un Paese stabile, con prospettive di crescita e un giornalismo di qualità. Una frase che, messa così, suona quasi come una provocazione.
Sì, perché mentre Antenna Group, colosso greco dei media, guarda a Roma e Milano come a una scommessa di lungo periodo, qui da noi una parte dell’universo progressista sembra impegnata in una missione opposta: spiegare ai greci che stanno sbagliando, che non hanno capito niente, che questo Paese non è all’altezza. Altro che accoglienza degli investitori stranieri: qui si alza il ponte levatoio. Eppure i greci - che di crisi se ne intendon - dicono cose semplici. Dicono che l’Italia è uno dei pochi Stati europei che oggi offre stabilità politica. Un sistema che regge, che governa, che decide. In un’Europa attraversata da elezioni anticipate, governi balneari e maggioranze liquide, Roma appare improvvisamente come un porto sicuro. Ironia della storia: ci scopriamo stabili quando smettiamo di raccontarci instabili.
Antenna non parla di una scorribanda finanziaria, ma di una scelta industriale di lungo periodo. Parola grossa, quasi sospetta, in un Paese abituato ai fondi mordi-e-fuggi. Qui, invece, il messaggio è chiaro: investire in Italia perché il mercato è aperto, favorevole, accogliente per chi vuole costruire. E perché l’informazione italiana resta una delle poche in Europa con una tradizione riconosciuta di giornalismo indipendente. Detto dai greci, non da qualche patriota fuori tempo massimo.
Non solo. Antenna parla di affinità storica e culturale, di un legame che va oltre la pura logica commerciale. Insomma, non arrivano per colonizzare, ma come l’editore che vuole far crescere ciò che trova. Garantiscono - nero su bianco, nelle dichiarazioni - indipendenza, rispetto delle sensibilità culturali, continuità della collocazione del giornale. Repubblica resterà Repubblica. Non diventerà né un bollettino governativo né una dependance di Atene.
E allora dov’è il problema? Il problema è tutto politico e simbolico. Per una parte della sinistra italiana l’idea che un gruppo straniero dica che l’Italia funziona è quasi un affronto. Come se il racconto del Paese malato fosse diventato una rendita di posizione. Se qualcuno arriva e dice che l’Italia cresce, attrae capitali, ha giornalisti competenti e un mercato dinamico, scatta l’allarme: così ci rovinano la narrazione.
C’è poi il riflesso pavloviano sull’«editore straniero», come se l’italianità dell’informazione fosse stata finora custodita da mani immacolate. Dimenticando che Repubblica è già passata da De Benedetti a Elkann senza che il mondo finisse, e che la vera indipendenza non dipende dal passaporto dell’azionista ma dalle regole, dai contratti, dalla solidità industriale.
I greci, intanto, guardano avanti. Parlano di media capaci di espandersi a livello globale, di un pubblico che non si riconosce più in un’offerta sempre più polarizzata e urlata, di uno spazio crescente per notizie credibili, affidabili, di qualità. È una diagnosi che coincide, curiosamente, con quella fatta da anni dagli stessi editorialisti che oggi storcono il naso.
E qui sta il paradosso finale, degno di una commedia attica: la sinistra che difende l’indipendenza dell’informazione cercando di sabotare un investimento che la garantisce, e i greci che difendono il giornalismo italiano spiegando che è uno dei suoi punti di forza. Capovolgimento perfetto.
Antenna Group parla addirittura di un campione europeo dei media, di un progetto continentale che parta dall’Italia. In un momento in cui l’Europa discute di sovranità informativa e di pluralismo, c’è chi prova a costruire e chi preferisce gridare al complotto.
Forse, alla fine, la notizia non è che i greci comprano Repubblica. La vera notizia è che c’è ancora qualcuno che guarda all’Italia senza complessi, senza autodenigrazione, senza la tentazione masochista di raccontarsi sempre peggio di come è. E questo, per una parte del dibattito pubblico, è imperdonabile.
I greci investono perché l’Italia è in salute.
Il problema è che non tutti vogliono ammetterlo.
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Nei laboratori Dolomia. Nel riquadro, Massimo Slaverio
Il presidente del comitato esecutivo di Unifarco, la spa che realizza i prodotti Dolomia: «Estraiamo il meglio delle sostanze vegetali impattando il meno possibile sull’ambiente. Prediligiamo la filiera a km zero. L’ingrediente segreto è l’acqua che sgorga dalla roccia».
Dolomia nasce da una storia che profuma di natura, ricerca e passione. Tutto ha origine tra le montagne bellunesi dove un farmacista, affascinato dalle proprietà delle piante officinali delle Dolomiti, inizia a studiarne i benefici per la pelle. Da quell’intuizione prende forma un progetto che oggi vive all’interno di Unifarco spa, realtà italiana d’eccellenza nella dermocosmesi. Dolomia è l’incontro tra la forza silenziosa delle montagne e il rigore scientifico, tra ingredienti di origine naturale e competenza farmaceutica. Ripercorriamo il suo percorso con Massimo Slaviero, presidente del comitato esecutivo del gruppo Unifarco, supportato da Gianni Baratto, direttore scientifico.
Ci racconta la storia di Dolomia?
«Dolomia entra in farmacia nel 2001 con il make up e con l’obiettivo di permettere alle persone di valorizzarsi con le luci e i colori eleganti delle Dolomiti attraverso prodotti estremamente sicuri per tutte le pelli e gratificanti nella durata e nell’applicazione. Lo studio delle virtù delle piante dolomitiche, la ricerca di metodi estrattivi sostenibili e lo studio continuo della fisiologia della pelle hanno fatto nascere il laboratorio estratti in connessione con il laboratorio cosmetico. Questo ci ha permesso di funzionalizzare il make up e di sviluppare una linea di fitocosmesi che porta la quintessenza della natura sulla pelle».
Come è nato il brand?
«Tutto è partito dall’ammirazione dei colori delle albe e dei tramonti, della natura nelle varie stagioni, delle giornate con le nebbie fitte e i varchi di sole, dalle passeggiate in montagna in cui osservavo i boschi di faggi, abeti, larici ed i prati fioriti. Ho sentito che dovevo mettere a disposizione delle persone la natura esaltata dalla totipotenza delle piante e il benessere che infonde».
Perché avete scelto il nome Dolomia?
«È un tributo a una donna che doveva incarnare la bellezza delle Dolomiti, l’ho pensata come una figlia che doveva crescere e incarnare il concetto di bellezza maestosa e vicina».
C’è un legame con il territorio?
«La nostra azienda è nata e cresciuta alle pendici del Parco nazionale delle Dolomiti bellunesi, un luogo che ci ha ispirati, fonte di materie prime naturali potentissime perché custodisce una biodiversità e un patrimonio naturale unici».
Cosa distingue Dolomia dagli altri marchi sul mercato?
«Dolomia è l’unico brand italiano formulato con le risorse naturali delle Dolomiti potenziate dalla ricerca scientifica. La sua ricerca si specializza sull’impatto dell’esposoma sulla pelle e crede nella decontaminazione cutanea come fondamento di ogni routine cosmetica, realizzando cosmetici attivi contro tutte le dimensioni dell’inquinamento moderno: naturale emotivo, comportamentale».
Qual è la filosofia che guida lo sviluppo dei vostri prodotti?
«In particolare abbiamo sviluppato un metodo esclusivo, natural balance, associazione di potenti fitocompessi per attivare a livello della cellula cutanea fasi di detossinazione da scorie e tossine e fasi di riossigenazione. Altra grande peculiarità di Dolomia è la ricerca avanzata del nostro laboratorio cosmetico di formulazioni multisensoriali che, attraverso lo stimolo di neuro recettori cutanei, favorisce il benessere psico fisico e amplifica il beneficio dei principi attivi».
Come avviene è la scelta degli ingredienti e dei processi produttivi?
«I nostri ingredienti principali, oltre ai minerali, sono le piante dolomitiche estratte con metodi innovativi e bio-tecnologici che permettono di estrarre il meglio delle sostanze vegetali impattando il meno possibile sull’ambiente. Prediligiamo la coltivazione a km zero, dove non è possibile la coltura meristematica oppure le filiere di up cycling. Il nostro laboratorio estratti segue tutta la filiera produttiva: collabora con i coltivatori locali per le piante che devono nascere a una certa altitudine per sviluppare potenti sostanze di difesa, con istituiti di ricerca per innovare continuamente i metodi di estrazione e con il nostro spin off dell’Università di Padova».
Quali sono i principali elementi naturali che utilizzate e perché?
«I nostri ingredienti sono le piante dolomitiche. Vegetali estremamente ricchi di sostanze vitali per due ragioni: primo, sono nate in un ambiente climaticamente ostile che le ha rese tenaci in termini di antiossidanti; secondo, perché sono alimentate da un’acqua speciale, quella che sgorga nella roccia dolomia è vitalizzata perché, nel suo percorso, si arricchisce di oligoelementi e minerali di cui la roccia stessa è formata».
I benefici di alcuni ingredienti chiave?
«La radice di tarassaco, presente in ogni formulazione Dolomia, è il più potente attivo vegetale capace di filtrare gi agenti inquinanti. La scutellaria alpina, specie d’alta quota, nei suoi petali custodisce flavonoidi, molecole idratanti e rivitalizzanti, è un potente antistress per la pelle. C’è la nostra rosa prima, i cui germogli sono ricchissimi di sali minerali, polisaccaridi, lipidi che nutrono a fondo la pelle. La corteccia di abete rosso è ricca di lignani, composti fortissimi nel limitare i danni dai radicali liberi».
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