Donald Trump e Javier Milei (Getty Images)
Inflazione e criminalità fuori controllo stanno spianando la strada a leader liberisti e securitari. Proprio mentre l’America torna a interessarsi al suo «giardino di casa».
L’America Latina sta vivendo una profonda ed evidente svolta politica a destra. Da La Paz a Santiago, in Sudamerica una nuova ondata conservatrice spazza via la fallimentare eredità della sinistra. La frustrazione popolare per il collasso economico e il caos criminale ha posto fine all’era dell’utopia ideologica, aprendo la porta a leader che promettono il classico binomio legge e ordine.
Questa svolta è guidata da una profonda frustrazione popolare e da un desiderio tangibile di misure più drastiche per affrontare le crisi economiche e la crescente ondata di criminalità. La cattiva gestione economica da parte dei governi di sinistra sta rafforzando i politici pro mercato in tutta la regione.
La fine del dominio socialista in Bolivia è l’emblema di questo cambiamento. Dopo quasi vent’anni di governo ininterrotto della sinistra, gli elettori hanno recentemente cacciato il partito socialista Msa. Il neoeletto presidente, Rodrigo Paz, un centrista favorevole alle imprese, è entrato in carica questo mese promettendo di attrarre investimenti stranieri e frenare la spesa, affrontando la più profonda crisi economica boliviana degli ultimi quarant’anni. La sinistra ha lasciato il Paese andino con un’inflazione in rampa di lancio (22,2% ad ottobre, mentre nel gennaio 2024 era all’1,86%), un deficit di bilancio in forte crescita e una grave carenza di dollari e carburante, problemi che Paz ha il compito enorme di risolvere, cercando un accordo con il Fondo monetario iternazionale.
In Argentina, la vittoria sorprendente del presidente Javier Milei nelle elezioni di medio termine ha cementato un mandato per riforme radicali di libero mercato. Milei ha ottenuto un sostegno inaspettato anche tra le classi popolari e gli elettori più poveri. Un argentino su tre vive in povertà, ma molti argentini hanno preferito dare fiducia alla sua terapia d’urto liberale piuttosto che rischiare di rivivere il disastro economico vissuto con i peronisti. La paura del ritorno al caos economico ha giocato un ruolo cruciale nel successo di Milei.
Il Cile è ossessionato dalla crisi della sicurezza cittadina, che ha monopolizzato la campagna elettorale. La rabbia per l’aumento della criminalità e, in particolare, per l’immigrazione illegale in gran parte proveniente dal Venezuela impoverito, ha dato un forte slancio alla destra politica. Il crescente potere delle bande criminali ha spinto gli elettori verso candidati con posizioni dure.
Il 14 dicembre il ballottaggio presidenziale cileno vedrà scontrarsi Jeannette Jara del Partito comunista e José Antonio Kast, l’ex parlamentare ultraconservatore che, secondo i sondaggi, è ampiamente previsto vincitore. La preferenza per i candidati di destra è schiacciante, considerato che circa il 70% degli elettori ha sostenuto i candidati di destra al primo turno.
Kast ha capitalizzato l’inquietudine sociale, promettendo di sigillare la frontiera settentrionale con Bolivia e Perù e di scavare fossati e costruire muri o recinzioni elettriche. Per il Cile, questo risultato è considerato «il ripudio più chiaro della sinistra in quasi un secolo».
La virata a destra del Sudamerica non poteva arrivare in un momento migliore per il presidente americano Donald Trump, la cui amministrazione ha ripreso un marcato interesse per il proprio «giardino di casa» dopo anni di disimpegno. Trump ha rimodellato il ruolo di Washington nella regione con una forza e un uso del potere militare ed economico che non si vedevano da decenni, trattando l’area come una sfera di influenza esclusiva. Anche le elezioni in Honduras confermano questa tendenza, con Trump nettamente schierato con il candidato Nasry Asfura alle elezioni presidenziali. Un analista ha definito questa politica «dottrina Donroe», un gioco di parole che richiama la dottrina Monroe del XIX secolo.
La regione è cruciale per gli obiettivi di Trump di frenare la migrazione e il flusso di droga, oltre a contrastare l’influenza della Cina. In gioco ci sono le vaste riserve minerarie e petrolifere della regione, ora più facilmente accessibili con l’ascesa al potere di leader pro mercato come Milei e Kast. Argentina, Bolivia e Cile possiedono insieme circa la metà delle risorse mondiali di litio, mentre il Cile è un produttore chiave di rame.
L’amministrazione Trump sta altresì intensificando la pressione militare nella regione, con una campagna che, secondo alcuni, è al confine tra la lotta al narcotraffico e il cambio di regime.
Il presidente Trump ha accusato la Colombia e il Venezuela di essere dei governi narcotrafficanti. Il leader venezuelano, Nicolás Maduro, è stato descritto dagli Stati Uniti come a capo del Cartel de los Soles (Cartello dei Soli), una rete diffusa di militari e funzionari di alto rango che facilitano il traffico di cocaina. Trump ha autorizzato operazioni segrete della Cia in Venezuela e ordinato il più grande dispiegamento militare nei Caraibi degli ultimi decenni, includendo attacchi letali su presunte imbarcazioni di droga.
Parallelamente, Trump ha attaccato il presidente colombiano di sinistra, Gustavo Petro, definendolo un «illegal drug leader» e minacciando di sospendere tutti gli aiuti statunitensi a Bogotá e imporre nuovi dazi, accusandolo di non fare nulla per fermare la produzione di droga.
La Cina rappresenta un elemento di complicazione strategica, essendo ormai il principale partner commerciale del Sudamerica e una fonte cruciale di investimenti e finanziamenti. L’amministrazione Trump sta cercando di contrastare l’influenza di Pechino.
In questo contesto, l’Argentina di Milei presenta una notevole contraddizione: pur essendo un fervente alleato ideologico di Trump, il Paese è economicamente legato alla Cina, che è il principale cliente argentino della soia. Gli affari con la Cina sono destinati a continuare, nonostante gli sforzi di Washington per limitare l’influenza di Pechino in settori sensibili come la sicurezza. Anche in Perù, dove uno dei diversi candidati di destra è probabile che vinca le elezioni del prossimo anno, e in Colombia, la crescente presenza cinese è una realtà.
Il Brasile di Luiz Inácio Lula da Silva rimane l’ultimo governo di sinistra di rilievo nel subcontinente. In quanto peso massimo regionale, il Brasile è un membro fondatore dei Brics (che ora includono dieci Paesi). Questo blocco è visto come una necessaria copertura contro un ordine globale sempre più frammentato e un modo per costruire un mondo meno centrato sull’Occidente. La Cina sta approfondendo costantemente la sua presenza in Brasile attraverso investimenti in energia, agricoltura e infrastrutture, inclusa una ambiziosa ferrovia transcontinentale.
La svolta a destra in America Latina, alimentata dalla stanchezza per la crisi politica, economica e sociale lasciata in eredità dalla sinistra, offre agli Stati Uniti una vasta opportunità strategica. Ma, come dimostrato nel caso brasiliano, il cammino richiede cautela, poiché il sentimento antiamericano persiste, anche tra gli elettori conservatori, e l’intreccio affaristico con la Cina è ormai strutturale.
Continua a leggereRiduci
True
2025-12-08
Mario Mantovani: «Ho pagato le mie idee con un arresto ingiusto. Un giudice si è scusato»
Mario Mantovani (Imagoeconomica)
L’eurodeputato di Fdi: «Organizzai una contestazione davanti al tribunale di Milano, subito dopo scattarono le intercettazioni».
Mario Mantovani, eurodeputato di Fratelli d’Italia, adesso lei è ufficiosamente una vittima della malagiustizia. Cos’è successo?
«Durante un dibattito, il presidente del Tribunale di Milano, Fabio Roia, mi ha chiesto scusa».
«L’ho fatto per solidarietà umana verso una persona che ha ingiustamente sofferto una vicenda dalla quale poi è stato totalmente assolto», ha spiegato.
«Sono state parole importanti».
È sorpreso?
«Sì, non lo fa mai nessuno. Se chiedessero scusa tutti i magistrati che sbagliano, avremmo un’Italia migliore».
Lo considera un risarcimento morale?
«Anche quello economico non mi sarebbe dispiaciuto. L’avrei usato per fare del bene».
La sua carriera politica scorreva magnificamente.
«Fino al 13 ottobre 2015. Erano le sei di mattina. Dieci finanzieri suonarono il campanello. Sembrava la scena di un film sui narcos. In un attimo, la mia vita crollò. Uscii di casa. Fuori c’erano già i giornalisti e le telecamere».
Ex senatore e sottosegretario alle Infrastrutture, allora era vicepresidente della Lombardia. Le contestarono corruzione, concussione e turbativa d’asta.
«Non capivo. Non riuscivo a rendermi conto. Guardavo quel mandato d’arresto sbigottito: “Ma perché si sono inventati queste accuse?” dissi. E loro: “Faccia la borsa e ci segua”. Mi ritrovai a San Vittore».
Chi erano i suoi compagni di cella?
«Uno scontava cinque omicidi, l’altro una condanna per droga. Furono gentili. C’erano i letti i castello: mi chiesero se volevo dormire sopra o sotto».
Quarantuno giorni di reclusione.
«Li passai leggendo e rileggendo le quattrocento pagine dell’ordinanza, giorno e notte. Continuavo a interrogarmi su come avessero potuto interpretare con tanta malafede tutte quelle banali telefonate».
Quante?
«Trecentomila. Mi intercettavano ormai da quattro anni. Avevano cominciato mentre ero coordinatore regionale del Popolo delle libertà e organizzavo le manifestazioni in difesa di Berlusconi, su sua richiesta».
Con il megafono in mano, denunciava «l’uso strumentale della giustizia».
«Riuscivo a portare davanti al tribunale di Milano anche mille persone. Arrivavano pullman pieni di gente per protestare».
L’inchiesta le sembrò una rappresaglia?
«Le intercettazioni scattarono pochi giorni dopo la fine di quelle manifestazioni».
Non fu una coincidenza?
«Viene da pensar male. Di sicuro, la vicinanza a Berlusconi l’ho pagata cara».
Qual era il suo assillo in carcere?
«La famiglia. Per dieci giorni non ho potuto parlare con nessuno. Cosa pensavano mia moglie, i miei figli, i miei nipoti? Non avevo pace».
I giornali la chiamavano il «faraone di Arconate».
«Ero solo un sindaco amato e rispettato».
Veniva definito ricchissimo e spregiudicato.
«Vengo da una famiglia di contadini. Mia madre mi lavava nella stalla, la parte calda della casa. E usavo l’acqua per ultimo, visto che ero il più piccolo di quattro figli. Sono stato l’unico che ha avuto la possibilità di studiare: prima alle superiori, poi all’università. Ho insegnato per 24 anni, dopo ho avviato una piccola impresa e ho cominciato a fare politica».
Berlusconi commentò il suo arresto?
«Guardavamo la piccola televisione di un compagno di cella. Spuntò al telegiornale e disse: “Mantovani è una persona perbene”».
Dopo altri 142 giorni ai domiciliari, tornò in consiglio regionale. I 5 stelle, per protesta, occuparono l’aula.
«Vennero con i fischietti e le arance in mano. Urlavano come ossessi. Gente disumana. Me li ricordo tutti: nome, cognome, indirizzo».
E i suoi compagni di partito?
«Molti ne approfittarono per prendere le distanze. Fui abbandonato da Forza Italia. Solo Berlusconi mi chiese di ricandidarmi nel 2018. Ma ero sotto processo: rifiutai. Lui insistette: “Devi tornare a Roma. Ho bisogno di avere accanto amici che portano nella carne le ferite della malagiustizia”».
Alla fine, però, non venne candidato.
«Il suo cerchio magico non mi mise in lista. Fui escluso».
Nel 2019, in primo grado, prese cinque anni e sei mesi.
«Purtroppo, non fu una sorpresa. Il giudice era lo stesso che aveva condannato Berlusconi».
Seguì il processo?
«Con una rabbia indescrivibile. Vedevo i testimoni sfilare, seguivo gli interrogatori, ascoltavo le domande. L’obiettivo era evidente. E veniva pure palesato con disinvoltura. Mi ripetevo: “Perché interpretano falsamente cose che hanno spiegazioni tanto banali?”».
Ad esempio?
«L’intercettazione che veniva reputata la prova regina. Il mio architetto parlava con un suo amico: “Il capo mi sta girando due lavori, per la prima volta nella sua vita”, raccontava. Loro si convinsero che aveva detto “villa”, invece che “vita”».
Era l’accusa principale: una ristrutturazione privata in cambio di lavori pubblici.
«Che non ebbe mai, tra l’altro. Solo nel processo d’appello, finalmente, l’ennesima relazione tecnica rese ancora più lampante l’intercettazione. Ricordo ancora il giudice che, dopo avere riascoltato la telefonata in aula, si voltò verso il procuratore generale: “Ha sentito? Ha detto vita”».
Venne assolto nel 2022. Intanto, s’era iscritto a Fratelli d’Italia.
«Spero che la mia storia sia servita a far riflettere sulla cattiva giustizia».
Sente questa riforma anche un po’ sua?
«È di Giorgia Meloni. Posso aver dato un piccolo contributo, forse».
Avete parlato della vicenda?
«Mi è sempre stata molto vicina. È una donna di grande valore, sia politico che umano».
Si è ricandidato a Bruxelles, nel 2024.
«Ho ripreso i miei 40.000 voti, quelli di una volta. Sono un sopravvissuto».
Ha chiesto un risarcimento di mezzo milione di euro per ingiusta detenzione.
«Che motivo c’era di mettermi in carcere? Non esisteva pericolo di fuga e nemmeno di inquinamento delle prove. E come potevo reiterare ipotetici reati avvenuti dieci anni prima? Hanno fatto una cosa spaventosa. È stato un assassinio politico».
La Corte d’appello, in quella causa, ha citato il refuso che lei scovò nell’ordinanza mentre era detenuto.
«Alla fine di un taglia e incolla delle accuse c’era scritto, tra parentesi: “Vedi se modificare questa parte”».
Sarebbe stato un suggerimento del gip al pm?
«Il dubbio viene. Ma hanno chiarito che non era la sede opportuna per discuterne».
Comunque le hanno negato l’indennizzo, tacciandola anche di arroganza.
«Pur di non ammettere l’ingiusta detenzione, si sono appellati a quisquilie».
E adesso?
«Andrò avanti».
La riforma prevede l’Alta corte, al posto della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, per valutare i supposti illeciti dei magistrati.
«Bisognerà anche arrivare alla responsabilità civile. O quantomeno individuare provvedimenti disciplinari che non siano sanzioni ridicole: ad esempio, la perdita di qualche mese di anzianità. Chi ha sbagliato in maniera fragorosa, va mandato in archivio a ordinare fascicoli».
Come andrà il referendum?
«Vinceremo. Per la maggioranza degli italiani, la magistratura sbaglia. E spesso non si tratta di piccoli errori, ma di sbagli devastanti. Dietro ci sono famiglie distrutte, lacrime, vergogna, fallimenti e suicidi».
Ai tempi dell’inchiesta, veniva considerato un aspirante governatore. Vorrebbe ricandidarsi per il Pirellone?
«Deciderà Giorgia. Io sono a disposizione del partito».
Non si sottrae.
«Diciamo che sarei preparato. Conosco bene la regione. Questo lo sanno tutti. Ero il vicepresidente, ma allora fui costretto alle dimissioni».
La sua carriera politica è ripresa.
«Ho perso sette anni. Quelli non me li ridarà indietro nessuno».
Ha ricominciato a organizzare l’indimenticabile festa d’estate a Villa Clerici. La Russa e Santanchè non mancano mai.
«Assieme a tantissimi altri parlamentari. Ignazio e Daniela sono amici veri».
Cos’ha detto davanti ai politici accorsi?
«Che la vita continua. Spero che la mia storia dia un po’ di speranza a chi vive drammi del genere. Non bisogna abbattersi. Oppure, peggio ancora, patteggiare. Comunque, vale la pena di continuare a combattere. La libertà non è solo un diritto, ma un vessillo da sventolare sempre».
Riassuma l’insegnamento.
«Per la quarta volta, l’anno scorso sono stato rieletto sindaco di Arconate con la mia lista civica. Si chiama Forza e Coraggio».
Continua a leggereRiduci
Torniamo sul Delitto di Garlasco e con il genetista Matteo Fabbri analizziamo la perizia Albani: sulle unghie di Chiara compare un DNA compatibile con la linea paterna di Andrea Sempio, e non con quella di Stasi. Un dato che non chiude il caso, ma che impone finalmente un confronto serio, lontano da pettegolezzi e semplificazioni.
Giorgio Starace (Ansa)
L’ex ambasciatore a Mosca: «Oggi Roma e il Vaticano sono le capitali morali d’Europa. Zelensky non cadrà perché ai Paesi Ue fa comodo. Le parole di Trump sono un’opportunità: ci vuol dare la leadership della Nato».
Stupore in Europa dopo la pubblicazione della «dottrina Trump», contenuta del documento della sicurezza nazionale americana che striglia il vecchio continente: «O si cambia, o scomparirete». Giorgio Starace, ex ambasciatore italiano a Mosca, è una rivoluzione?
«Non mi sorprenderei più di tanto. Già durante il suo primo mandato Trump ci aveva avvertito: le sue idee avrebbero preso corpo in una vera e propria “dottrina”, in un manifesto strategico. Che ha il pregio di essere oggi più chiaro che mai».
Chiaro ma terribile. Trump sta abbandonando l’Europa sul piano militare?
«Al contrario, la vedo come un’opportunità straordinaria. Gli Usa incoraggiano l’Europa ad assumere addirittura la leadership della Nato».
Appunto, le pare possibile che dal 2027 la difesa del continente sia solo in mano agli europei?
«Una sfida gigantesca, che oggi ci appare incredibile, un po’ come dare un Harley Davidson in mano a un ragazzino. Anche perché, soprattutto in Francia e Germania, oggi abbiamo a che fare con governi fragili e una classe dirigente non all’altezza. Ma una punta di speranza ce l’ho».
Speranza?
«Sì, spero che questa ultima mossa di Trump costituisca la scossa decisiva per varare quelle riforme che, colpevolmente, in Europa abbiamo sempre rimandato».
Vale a dire?
«Aggiornare il trattato di Maastricht, che ormai ha una certa età. Creare un direttorio europeo, cioè uno stretto collegamento tra i principali leader, per sfornare proposte da mettere sul tavolo dei grandi. Riformare finalmente il processo di decision making europeo».
In che modo?
«Fare in modo, insomma, che in questa Europa allargata si decida a maggioranza su tutte le questioni, perché l’alternativa è la palude. Insomma, diventare grandi, autorevoli, e avere fiducia in sé stessi. Una visione che in queste ore il premier Meloni ha saputo intuire con spregiudicato realismo».
E l’esercito europeo?
«Quella è un’utopia. Ma un coordinamento comune degli eserciti, in una Nato più europea, sarebbe certamente fattibile. In ogni caso, una partnership con gli Stati Uniti sarà comunque imprescindibile, soprattutto sul cyber e sulla tecnologia satellitare».
La Germania ha reagito malissimo al documento trumpiano: «Non ci servono consigli», ha detto Berlino rivolgendosi alla Casa Bianca.
«Questi arroccamenti non hanno molto senso. Non è con un tardivo orgoglio europeo che possiamo impostare un rapporto sano con gli Stati Uniti».
Sbaglia chi parla di un Trump che consegna gli Usa a un nuovo isolazionismo?
«Sbaglia di grosso. Unilateralismo non è sinonimo di isolazionismo. Tutte le iniziative portate avanti da Washington hanno come unico scopo quello di arginare la minaccia cinese. Dunque non è corretto dire che l’America si sta ritirando nel cortile di casa. È una proiezione globale, quella di Trump, nella consapevolezza che nel Pacifico si decide il destino del mondo».
L’Europa rischia di sparire entro 20 anni, come dice il presidente Usa?
«Quella è una dichiarazione di tipo ideologico che va oltre il tema sicurezza. Il modello Trump è poco esportabile, ma è chiaro che sul tema migratorio si stabilirà il futuro politico e sociale dell’Europa».
Anche Mario Draghi, recentemente, ha puntato il dito contro i passi falsi dell’Europa contro sé stessa.
«E ha ragione: gli auto-dazi, le costrizioni imposte alle aziende europee, sono proposte non in linea con i tempi, in questa fase geopolitica. Draghi però non ha fatto cenno al nanismo politico europeo: quando lui era a Palazzo Chigi, io ero a Mosca. Tutti i diplomatici attendevano proposte europee sull’Ucraina: non arrivarono. Né dall’Europa, né dal governo italiano».
Una paralisi?
«Non siamo stati in grado nemmeno di nominare un inviato speciale europeo in Ucraina, un gesto minimo di attenzione verso una crisi nel cuore dell’Europa».
Vladimir Putin rilancia le sue pretese sul Donbass. E si inaspriscono i bombardamenti. Siamo in alto mare con le trattative di pace?
«Gli Usa trattano separatamente con Kiev e Mosca, nella speranza di chiudere. Ma le posizioni sono ancora molto distanti, malgrado i grandi sforzi americani. Sulle questioni territoriali i russi sembrano inamovibili, rivendicano l’annessione delle zone russofone, e in sostanza vorrebbero un’Ucraina alla mercé di Mosca. L’altro tema è il congelamento dei fondi russi, che sarebbe disastroso per l’economia di Mosca. Per questo Putin alza il livello delle minacce».
Si riferisce alle frasi del presidente russo lanciate dall’India? «Nascerà un nuovo ordine mondiale».
«La visita di Putin a Modi rivela effettivamente questa preoccupazione. Le sanzioni indirette sull’India, grande importatore di greggio russo, fanno male al Cremlino».
Dunque?
«I russi si pongono sempre delle scadenze. La prossima data importante è il 9 maggio, il loro giorno della Vittoria. Putin per quella data desidera avere qualche risultato concreto da annunciare, che per adesso non ha».
Nel frattempo?
«Nel frattempo scava il solco tra Usa ed Europa, e ci intimidisce con la narrazione bellica. L’obiettivo è fiaccare la resistenza e ottenere in tempi brevi da Kiev ciò che necessita, sul campo, di tempi lunghi».
Dunque è semplicistico dire che gli Stati Uniti stanno scaricando l’Ucraina?
«È un azzardo. Certo, gli americani vorrebbero chiudere al più presto la vicenda. Ma un totale disengagement da Kiev è altamente improbabile: priverebbe Trump di un’arma di pressione nei confronti di Mosca, utile nella sfida finale con la Cina».
Tuttavia, il presidente francese Macron, da Pechino, dice che Trump potrebbe «tradire Kiev». Come legge queste uscite?
«Francia e Germania hanno un disperato bisogno di leadership. La Germania la cerca riarmandosi, Macron tenta invece di costruire un’immagine autorevole in vista del futuro negoziato».
Ci riuscirà?
«In realtà l’asse franco-tedesco, cioè l’alleanza politica che ha retto l’Europa per tanto tempo, sta visibilmente traballando. Forse subentrerà un altro asse, quello franco-britannico: un’alleanza non solo nucleare, ma strettamente politica».
E Zelensky? I suoi collaboratori sono stati colpiti da clamorose inchieste giudiziarie, e qualcuno ipotizza che sia giunto al capolinea.
«Non sparirà così in fretta. Una transizione caotica a Kiev non fa comodo a nessuno, soprattutto agli Stati europei che confinano con l’Ucraina, che oggi come ieri è un Paese cuscinetto di vitale importanza. Zelensky resterà un figura di rilievo, in questa partita».
L’Italia. Approva la posizione prudente del governo?
«Nonostante le divisioni a livello parlamentare circa il rapporto con la Russia, finora siamo riusciti a fare sintesi, con una apprezzabile continuità di indirizzo. Per il resto, siamo sotto attacco anche noi, come ha detto il ministro Crosetto. Ma non parlo solo di condizionamenti russi».
Cioè?
«L’inchiesta contro Mogherini e Sannino non mi convince. Di Sannino, mio collega, conosco la professionalità e l’onestà. Dietro l’indagine ci vedo un’iniziativa di forze europee contrarie alle politiche pro-Mediterraneo. Qualcuno vuole smontare gli impulsi europei a favore del Sud dell’Europa».
Una crociata anti-italiana? Anche all’estero, abbiamo a che fare con una magistratura sospettata di portare avanti interessi politici?
«Dico soltanto che certe “irregolarità”, a livello europeo, non arrivano solo dagli italiani. Mi rifiuto di pensarlo. Non dimentichiamo poi che tutta Europa è sotto attacco. Abbiamo assistito alle dure critiche di Trump e Putin all’edificio europeo e Elon Musk si è augurato la fine dell’Ue. Non escludo nemmeno la guerra ibrida. Colpire la burocrazia europea fa parte di un disegno più vasto per indebolire i già fragili centri decisionali di Bruxelles».
Chiudiamo con un pensiero sul Vaticano.
«Nella crisi ucraina, ci sono due uomini che dobbiamo ringraziare. Il primo è Papa Francesco».
Lei lo cita nel suo libro La Pace difficile, come una figura chiave.
«È stato il primo a gettare il sasso nello stagno dell’immobilismo europeo. Il primo a ricordare che quando c’è una guerra, si negozia non solo con l’agnello, ma anche con il lupo. Trump, in buona sostanza, ha seguito lo schema di Bergoglio».
E poi?
«E poi Papa Leone, che ha avuto il merito di appoggiare, con discrezione e pragmatismo, il piano americano sull’Ucraina. Anche questo pontefice ha compreso che è meglio portare avanti una piattaforma imperfetta, piuttosto che restare “perfettamente” fermi. Il risultato è che il piano americano ha portato in ogni caso delle utilità, tra cui quella di suscitare qualche proposta europea, per reazione, sul piano diplomatico».
Insomma, nel caos mondiale, Roma torna protagonista?
«Roma e il Vaticano, per buon senso e autorevolezza, tornano le capitali morali d’Europa, in questi tempi smarriti».
Continua a leggereRiduci







