
I dem scendono in piazza contro la tv pubblica (ancora piena di dirigenti nominati da loro), definendola «cassa di risonanza del governo». Nel frattempo a Milano votano una mozione che impedisce di proiettare un film russo sulla guerra in Ucraina.Libertà di espressione, ma non per tutti. Ieri, in una sola giornata, la sinistra italiana è riuscita a protestare contro «Tele-Meloni» e la Rai «svilita a cassa di risonanza di questo governo», come ha sostenuto Elly Schlein, ma anche a vietare che il comune di Milano possa ospitare qualsivoglia iniziativa che osi mettere in dubbio la vulgata Nato sulla guerra in Ucraina. Su temi come vaccini, green pass, eutanasia, cambiamenti climatici, islamizzazione e immigrazione clandestina il Pd ha idee granitiche e chi osa metterle in dubbio è accusato, a turno, di negazionismo, terrapiattismo, antiscientificità, oscurantismo, razzismo, populismo e sovranismo. Così non stupisce che il consiglio comunale di Milano abbia approvato una mozione di Giulia Pastorella (Azione) per impedire che nelle sale del Comune si possano ospitare iniziative pubbliche di «chiara ispirazione e propaganda russa». La mozione è stata approvata lunedì sera con 20 voti favorevoli, tre astenuti e un contrario, mentre il centrodestra al momento del voto ha abbandonato l’aula. Il timore specifico è la proiezione di un film russo intitolato Il testimone, che è già stata organizzata a Milano per il 13 febbraio al Circolo di Unità Proletaria di viale Monza. La pellicola di produzione russa ovviamente racconta i crimini di guerra compiuti dalle forze ucraine e pare sorvoli ampiamente sui misfatti dei soldati di Mosca. Ma non è questo il punto, perché in una democrazia ogni spettatore è libero di farsi l’opinione che crede e considerare un film, un libro o un intervento pubblico corretto, condivisibile, parziale, mistificatorio e persino idiota o ridicolo. Specie se questa democrazia si crede (giustamente) superiore alla Russia di Vladimir Putin. Il film in questione sta girando l’Italia con alterne fortune e a Milano si vuole evitare che venga proiettato in uno spazio comunale. L’accusa è quella di essere uno strumento della famosa guerra ibrida, la cui definizione è talmente ampia da estendersi a una serie di campi che in teoria sarebbero ancora tutelati dall’articolo 21 della Costituzione sulla libertà di opinione. Surreale la precisazione di Pastorella: «Resta fermo che, negli spazi privati, ognuno fa quel che vuole». Sì, in effetti, dopo ci sarebbe solo la consegna dei telecomandi al Comune guidato da Beppe Sala. In ogni caso, scopo della mozione del centrosinistra è evitare che «il Comune sia associato a iniziative di propaganda e disinformazione russa». Tra le voci dissonanti vanno registrate quelle di Fratelli d’Italia e dei Verdi. Per Marco Bestetti (Fdi), «impedire ex ante che qualcuno esprima idee diverse dalle nostre non è un principio sano. Il mondo occidentale contesta alla Russia proprio questo, e noi non possiamo contrapporre gli stessi metodi». Il verde Carlo Monguzzi, polemizzando indirettamente con chi è stato comunista, ha ricordato di ritenere Putin un criminale fin da quando era un colonnello del Kgb e di esser sceso in piazza al fianco della comunità ucraina, ma ha fatto notare che con questa mozione «si finisce per limitare la possibilità che chiunque esprima il proprio pensiero». Mentre l’ambientalista Enrico Fedrighini (Gruppo Misto) chiede con quali criteri gli uffici valuteranno se un evento è propagandistico e ha ricordato che «negli spazi pubblici, su temi sensibili, si fa contraddittorio. Il ruolo del Comune di Milano non è, come nel Ventennio, fare commissioni per decidere chi dice la verità». Il riferimento al Ventennio non è casuale, perché per giustificare la mozione anti Russia, il centrosinistra ha ricordato che vige già un identico divieto per eventi di chiara propaganda del fascismo e del terrorismo. E mentre a Milano la sinistra metteva il bavaglio sulla guerra, a Torino andava in scena uno sciopero spontaneo degli operai Stellantis di Mirafiori, che temono un ridimensionamento degli stabilimenti italiani, minacciato nei giorni scorsi dall’ad Carlos Tavares qualora il governo non aumentasse gli incentivi auto per l’elettrico. Tre giorni fa, il segretario del Pd, partito che fu silente ai tempi della vendita di Fca ai francesi di Peugeot, ha fatto brevemente sentire la sua voce. «Il governo non può tacere di fronte alle minacce dell’amministratore delegato di Stellantis e lo convochi subito», ha detto Elly Schlein. Che però ieri era già passata ad altri temi, meno radicali e più chic, come la presunta mancanza di pluralismo in Rai. Nel tardo pomeriggio, sotto la sede Rai di Viale Mazzini a Roma, Schlein ha guidato circa 200 persone e un pugno di deputati del suo partito in un sit-in. Lo slogan era «Fuori i partiti dalla Rai!», ma il problema è che a uscire dalla tv di Stato dovrebbero essere anche decine di giornalisti, vicedirettori, direttori e funzionari che sono espressione proprio del Pd e si sono stratificati a piani alti nei lunghi anni di lottizzazione partitica. Tanto è vero che i manifestanti sono stati contestati da Marco Rizzo, il «sovranista rosso», al grido di «Se oggi è Tele-Meloni, ieri era Rete-Dem». Per il segretario del Pd, bisogna «battersi per il servizio pubblico e la libertà di stampa. Basta con un servizio pubblico svilito a cassa di risonanza di questo governo». Il problema, pare, sia proprio «questo governo».
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