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2019-12-18
Gli affari balcanici della famiglia Renzi
Ansa
I Balcani sono la passione dei Renzi. Almeno questo sembrerebbe emergere in alcune delle inchieste in cui i genitori dell'ex premier Matteo e alcuni loro collaboratori sono coinvolti, e dove appaiono a vario titolo quattro Paesi dell'ex Jugoslavia. Nell'inchiesta delle Dda di Catanzaro e Reggio Calabria sulle infiltrazioni 'ndranghetiste in Umbria, in cui è indagato anche Mariano Massone (arrestato con i genitori dell'ex premier nel febbraio scorso con l'accusa di bancarotta) gli inquirenti hanno intercettato un presunto mafioso, Giuseppe Benincasa, mentre discuteva con altri indagati degli affari con la famiglia di Rignano sull'Arno, tanto che nella richiesta di arresto per quasi trenta presunti picciotti gli inquirenti hanno annotato il contenuto di una conversazione del presunto malavitoso: «Il Benincasa afferma che in questo momento gli servono soldi e banche, poiché sta per intraprendere una grossa operazione commerciale in Serbia, nella quale sarebbero coinvolti il cognato (Andrea Conticini, ndr) e lo zio di Renzi».
Le parole esatte di Benincasa sono le seguenti: «Anche perché sto andando a fare una bella operazione in Serbia... dovrei partire in questi giorni... per fare una bella… eh... questa è una bella operazione. C'è di mezzo… il papà e lo zio (sorride)… Siamo stati contattati... abbiamo conosciuto... sti cristiani che... il papà di Renzi con il cognato e lo zio. Sono già 3 o 4 volte che ci incontrano…». Non è chiaro quale sia l'operazione, se non che è in Serbia. Ormai è storia nota l'amore della famiglia dell'ex premier per i pellegrinaggi a Medjugorije in Bosnia Erzegovina. Apprezzabile momento di ricerca spirituale, dirà qualcuno. Ma purtroppo anche sulla via della fede Tiziano ha avuto qualche inciampo. Per esempio, a una partenza dall'aeroporto di Pisa di qualche anno fa i pellegrini trovarono in carabinieri del Noe pronti a filmare i loro movimenti. Infatti il babbo nella combriccola ha coinvolto anche personaggi oggi sotto inchiesta, come Carlo Russo, accusato di traffico di influenze illecite nella vicenda Consip e rinviato giudizio, ma anche l'ex collaboratore Patrizio Donnini, finito sotto indagine nell'inchiesta sulla fondazione Open, con l'accusa di appropriazione indebita e autoriciclaggio per i suoi rapporti con la famiglia Toto. Inoltre, quando è stato arrestato i finanzieri gli hanno sequestrato anche una scheda telefonica della Bosnia-Erzegovina ancora intonsa. Una sim che ha insospettito gli inquirenti, soprattutto dopo che hanno scoperto che il babbo aveva utilizzato per comunicare riservatamente con Massone (il sodale con cui condivide indagini dal 2014) una scheda intestata a un cittadino nigeriano. Nell'inchiesta sul fallimento della cooperativa Marmodiv, di cui Renzi senior e Massone sarebbero stati amministratori di fatto, gli investigatori hanno approfondito anche il filone del macero, ovvero della rivendita alle cartiere dei volantini della grande distribuzione mai consegnati. In una mail del 2013, a un socio, Renzi senior spiegava: «Per la carta preferiamo non apparire riguardo al passato, per il futuro se voi non ritenete di continuare provvederemo in altra maniera». Uno dei coindagati dei Renzi, Paolo M., un distributore di volantini, ha dichiarato che quella carta veniva portata all'estero, sempre nella ex Jugoslavia: «Posso precisare che i soldi del macero erano destinati ad Eventi 6 (l'azienda dei Renzi, ndr) perché so che quando veniva Carlo Ravasio (storico collaboratore della famiglia dell'ex premier, ndr) venivano prima portati e accumulati a Rignano e poi spediti in Slovenia». Non è finita. Nel bilancio del 2015 della Eventi 6, in pieno boom di fatturato, i Renzi avevano fatto mettere a bilancio: «La società cercherà nell'esercizio 2016 di affacciarsi sul mercato internazionale, pensiamo di partire, grazie alle conoscenze in loco, dalla creazione di filiali in Montenegro, Spagna e Brasile, cercando di replicare il modello business attuale, adattandolo all'esigenze dei singoli mercati». Serbia, Bosnia Erzegovina, Montenegro, Slovenia. Tutti paesi in cui, sembra, i Renzi avrebbero qualche interesse. Ma, secondo gli investigatori calabresi, nelle mire degli indagati non c'era solo il tentativo di acquisire la gestione e il controllo delle attività economiche perugine, c'era anche un progetto per piegare la politica locale. E, coincidenza, nel fascicolo spunta una esponente del Pd: Alessandra Vezzosi, eletta in consiglio comunale a Perugia nel 2014. Uno degli indagati, tale Antonio Ribecco, indicato dagli investigatori come un uomo di fiducia della cosca di San Leonardo di Cutro, in provincia di Crotone, e come il «regista» delle dinamiche associative esportate in Umbria, ne parla a telefono, sostenendo che durante la campagna elettorale ha pagato lui un rinfresco per la candidata: «Allora [...] gli ho fatto un rinfresco e gliel'ho pagato io diciamo alla moglie di Repace».
Gli investigatori lo identificano in Luigi Repace, marito della candidata Vezzosi, poi eletta. Non per questioni politiche ma per l'acquisizione delle aziende, invece, spunta il nome di un avvocato calabrese con studio a Roma, Vincenzo Maruccio. È il professionista che ha gestito per conto di Benincasa la trattativa con il curatore fallimentare per l'acquisizione dell'azienda su cui avrebbero messo gli occhi i Renzi. Negli atti viene ricordato un precedente arresto, che risale al 2015, per una indagine di Catanzaro. E un'indagine in cui era finito nel 2012, quando da consigliere regionale del Lazio fu accusato di essersi appropriato di circa 500.000 euro dai conti del Gruppo dell'Italia dei valori. Sette anni dopo scatta la scalata aziendale di Benincasa. E in una intercettazione Maruccio afferma che, «per portarla a termine, dovranno presentare un progetto credibile per il Tribunale e pertanto dovranno far figurare un aumento di capitale di 500.000 euro». E siccome i Renzi, come svelato dalla Verità, volevano entrare nell'affare ma poi, di colpo, sono venuti meno, Benincasa si è trovato nei guai. Ed è partito con la girandola di flussi economici dai conti correnti delle aziende che controllava, uno degli aspetti centrali nell'inchiesta sulla 'ndrangheta a Perugia.
L’ombra della corruzione nei legami tra il magistrato e un fedelissimo di Matteo
A Catanzaro a impensierire il Giglio magico non c'è solo l'inchiesta sui presunti 'ndranghetisti in contatto con la famiglia dell'ex premier Matteo Renzi. Addirittura un magistrato della Procura calabrese è sospettato di essere stato corrotto da un renziano doc. Il protagonista è Ferdinando Aiello, 47 anni, un ex parlamentare che nel 2014 lasciò Sel per unirsi al Pd e a Renzi e che nel 2016 ebbe l'onore di accompagnare l'allora sottosegretario Maria Elena Boschi in Sud America, alla ricerca di voti per il referendum costituzionale. Ad agosto il suo nome è comparso in un'inchiesta che ha coinvolto il governatore della Calabria Mario Oliverio. Al centro del procedimento, una somma stanziata dalla Regione Calabria, per sponsorizzazioni al «Festival dei due mondi» di Spoleto.
A dicembre, quando è stato notificato l'avviso di chiusura indagini il nome di Aiello non compariva, lasciando ipotizzare che le accuse contro di lui fossero state archiviate. Ma i problemi per lui non sono terminati. È di questi giorni la notizia di un'altra delicata indagine, dove lo stesso Aiello, si ritrova indagato insieme con il procuratore aggiunto di Catanzaro, Vincenzo Luberto (uno dei firmatari delle richieste di arresto per gli 'ndranghetisti trapiantati in Umbria). La Procura di Salerno, competente per le indagini su giudici e pm del distretto catanzarese, ha messo sotto inchiesta il magistrato calabrese per la misteriosa sparizione di un'informativa degli investigatori, in cui fra i sospettati, veniva citato l'ex deputato renziano. Il documento investigativo è stata rinvenuta nei sistemi informatici degli uffici giudiziari, ma non nel fascicolo cartaceo custodito nelle stanze della Procura di Catanzaro.
Aiello, dopo l'arrivo in Procura dell'annotazione, non sarebbe stato iscritto nel registro degli indagati, nonostante gli elementi contenuti nell'atto redatto dai carabinieri. In tale contesto, gli inquirenti salernitani hanno scoperto che l'ex parlamentare Pd, avrebbe intrattenuto rapporti con il procuratore aggiunto, offrendogli pure soggiorni in alcune località turistiche italiane.
Nei giorni scorsi, Luberto è stato oggetto di un decreto di perquisizione, disposto dalla procura di Salerno. Nel decreto viene contestato al procuratore aggiunto di Catanzaro di aver posto in essere «condotte contrarie ai doveri d'ufficio di magistrato in servizio, ottenendo in cambio il pagamento di soggiorni alberghieri». Sembra di rileggere le accuse al pm Luca Palamara, al centro del cosiddetto scandalo Csm. Sempre per i pm salernitani, ci troveremmo di fronte a «un patto corruttivo» tra Luberto e l'ex parlamentare del Pd.
E, così, secondo la Procura, «le indagini hanno consentito di accertare che Aiello ha pagato dei soggiorni alberghieri dei quali hanno fruito Luberto e i suoi familiari». C'è, per esempio, un soggiorno all'hotel Capofaro (dal 27 al 31 luglio 2017) di Isola di Salina, per 1.140 euro. E, in inverno (dal 2 gennaio all'8 gennaio 2017), all'hotel Gardena di Castel Rotto, per un totale di 11.546 euro. Vacanza, sostiene l'accusa, in parte pagata da Aiello, in parte da Luberto. E, infine, un soggiorno all'hotel Adler di Ortisei, dal 13 gennaio al 20 gennaio 2018, prenotato con caparra da 600 euro da Aiello e saldata da Luberto con 3.394 euro.
I pm di Salerno, a sostegno dell'accusa mossa al magistrato calabrese, hanno prodotto pure le dichiarazioni di altri magistrati in servizio presso la procura di Catanzaro, nel periodo dei fatti contestati. Uno di questi ha riferito che alla festa per il cinquantesimo compleanno dell'aggiunto Luberto tra gli invitati ci sarebbe stato lo stesso Aiello.
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Nelle inchieste sui genitori e sui parenti del leader di Italia viva emerge un interessamento costante per l'ex Jugoslavia. E un presunto mafioso diceva: «Facciamo un'operazione in Serbia con il papà...».Per i pm di Salerno, l'ex parlamentare dem Ferdinando Aiello avrebbe ottenuto favori dall'aggiunto Vincenzo Luberto in cambio di vacanze.Lo speciale contiene due articoli.I Balcani sono la passione dei Renzi. Almeno questo sembrerebbe emergere in alcune delle inchieste in cui i genitori dell'ex premier Matteo e alcuni loro collaboratori sono coinvolti, e dove appaiono a vario titolo quattro Paesi dell'ex Jugoslavia. Nell'inchiesta delle Dda di Catanzaro e Reggio Calabria sulle infiltrazioni 'ndranghetiste in Umbria, in cui è indagato anche Mariano Massone (arrestato con i genitori dell'ex premier nel febbraio scorso con l'accusa di bancarotta) gli inquirenti hanno intercettato un presunto mafioso, Giuseppe Benincasa, mentre discuteva con altri indagati degli affari con la famiglia di Rignano sull'Arno, tanto che nella richiesta di arresto per quasi trenta presunti picciotti gli inquirenti hanno annotato il contenuto di una conversazione del presunto malavitoso: «Il Benincasa afferma che in questo momento gli servono soldi e banche, poiché sta per intraprendere una grossa operazione commerciale in Serbia, nella quale sarebbero coinvolti il cognato (Andrea Conticini, ndr) e lo zio di Renzi».Le parole esatte di Benincasa sono le seguenti: «Anche perché sto andando a fare una bella operazione in Serbia... dovrei partire in questi giorni... per fare una bella… eh... questa è una bella operazione. C'è di mezzo… il papà e lo zio (sorride)… Siamo stati contattati... abbiamo conosciuto... sti cristiani che... il papà di Renzi con il cognato e lo zio. Sono già 3 o 4 volte che ci incontrano…». Non è chiaro quale sia l'operazione, se non che è in Serbia. Ormai è storia nota l'amore della famiglia dell'ex premier per i pellegrinaggi a Medjugorije in Bosnia Erzegovina. Apprezzabile momento di ricerca spirituale, dirà qualcuno. Ma purtroppo anche sulla via della fede Tiziano ha avuto qualche inciampo. Per esempio, a una partenza dall'aeroporto di Pisa di qualche anno fa i pellegrini trovarono in carabinieri del Noe pronti a filmare i loro movimenti. Infatti il babbo nella combriccola ha coinvolto anche personaggi oggi sotto inchiesta, come Carlo Russo, accusato di traffico di influenze illecite nella vicenda Consip e rinviato giudizio, ma anche l'ex collaboratore Patrizio Donnini, finito sotto indagine nell'inchiesta sulla fondazione Open, con l'accusa di appropriazione indebita e autoriciclaggio per i suoi rapporti con la famiglia Toto. Inoltre, quando è stato arrestato i finanzieri gli hanno sequestrato anche una scheda telefonica della Bosnia-Erzegovina ancora intonsa. Una sim che ha insospettito gli inquirenti, soprattutto dopo che hanno scoperto che il babbo aveva utilizzato per comunicare riservatamente con Massone (il sodale con cui condivide indagini dal 2014) una scheda intestata a un cittadino nigeriano. Nell'inchiesta sul fallimento della cooperativa Marmodiv, di cui Renzi senior e Massone sarebbero stati amministratori di fatto, gli investigatori hanno approfondito anche il filone del macero, ovvero della rivendita alle cartiere dei volantini della grande distribuzione mai consegnati. In una mail del 2013, a un socio, Renzi senior spiegava: «Per la carta preferiamo non apparire riguardo al passato, per il futuro se voi non ritenete di continuare provvederemo in altra maniera». Uno dei coindagati dei Renzi, Paolo M., un distributore di volantini, ha dichiarato che quella carta veniva portata all'estero, sempre nella ex Jugoslavia: «Posso precisare che i soldi del macero erano destinati ad Eventi 6 (l'azienda dei Renzi, ndr) perché so che quando veniva Carlo Ravasio (storico collaboratore della famiglia dell'ex premier, ndr) venivano prima portati e accumulati a Rignano e poi spediti in Slovenia». Non è finita. Nel bilancio del 2015 della Eventi 6, in pieno boom di fatturato, i Renzi avevano fatto mettere a bilancio: «La società cercherà nell'esercizio 2016 di affacciarsi sul mercato internazionale, pensiamo di partire, grazie alle conoscenze in loco, dalla creazione di filiali in Montenegro, Spagna e Brasile, cercando di replicare il modello business attuale, adattandolo all'esigenze dei singoli mercati». Serbia, Bosnia Erzegovina, Montenegro, Slovenia. Tutti paesi in cui, sembra, i Renzi avrebbero qualche interesse. Ma, secondo gli investigatori calabresi, nelle mire degli indagati non c'era solo il tentativo di acquisire la gestione e il controllo delle attività economiche perugine, c'era anche un progetto per piegare la politica locale. E, coincidenza, nel fascicolo spunta una esponente del Pd: Alessandra Vezzosi, eletta in consiglio comunale a Perugia nel 2014. Uno degli indagati, tale Antonio Ribecco, indicato dagli investigatori come un uomo di fiducia della cosca di San Leonardo di Cutro, in provincia di Crotone, e come il «regista» delle dinamiche associative esportate in Umbria, ne parla a telefono, sostenendo che durante la campagna elettorale ha pagato lui un rinfresco per la candidata: «Allora [...] gli ho fatto un rinfresco e gliel'ho pagato io diciamo alla moglie di Repace». Gli investigatori lo identificano in Luigi Repace, marito della candidata Vezzosi, poi eletta. Non per questioni politiche ma per l'acquisizione delle aziende, invece, spunta il nome di un avvocato calabrese con studio a Roma, Vincenzo Maruccio. È il professionista che ha gestito per conto di Benincasa la trattativa con il curatore fallimentare per l'acquisizione dell'azienda su cui avrebbero messo gli occhi i Renzi. Negli atti viene ricordato un precedente arresto, che risale al 2015, per una indagine di Catanzaro. E un'indagine in cui era finito nel 2012, quando da consigliere regionale del Lazio fu accusato di essersi appropriato di circa 500.000 euro dai conti del Gruppo dell'Italia dei valori. Sette anni dopo scatta la scalata aziendale di Benincasa. E in una intercettazione Maruccio afferma che, «per portarla a termine, dovranno presentare un progetto credibile per il Tribunale e pertanto dovranno far figurare un aumento di capitale di 500.000 euro». E siccome i Renzi, come svelato dalla Verità, volevano entrare nell'affare ma poi, di colpo, sono venuti meno, Benincasa si è trovato nei guai. Ed è partito con la girandola di flussi economici dai conti correnti delle aziende che controllava, uno degli aspetti centrali nell'inchiesta sulla 'ndrangheta a Perugia. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sim-bosniache-e-business-in-slovenia-il-senso-dei-renzi-per-i-paesi-balcanici-2641637343.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lombra-della-corruzione-nei-legami-tra-il-magistrato-e-un-fedelissimo-di-matteo" data-post-id="2641637343" data-published-at="1765817802" data-use-pagination="False"> L’ombra della corruzione nei legami tra il magistrato e un fedelissimo di Matteo A Catanzaro a impensierire il Giglio magico non c'è solo l'inchiesta sui presunti 'ndranghetisti in contatto con la famiglia dell'ex premier Matteo Renzi. Addirittura un magistrato della Procura calabrese è sospettato di essere stato corrotto da un renziano doc. Il protagonista è Ferdinando Aiello, 47 anni, un ex parlamentare che nel 2014 lasciò Sel per unirsi al Pd e a Renzi e che nel 2016 ebbe l'onore di accompagnare l'allora sottosegretario Maria Elena Boschi in Sud America, alla ricerca di voti per il referendum costituzionale. Ad agosto il suo nome è comparso in un'inchiesta che ha coinvolto il governatore della Calabria Mario Oliverio. Al centro del procedimento, una somma stanziata dalla Regione Calabria, per sponsorizzazioni al «Festival dei due mondi» di Spoleto. A dicembre, quando è stato notificato l'avviso di chiusura indagini il nome di Aiello non compariva, lasciando ipotizzare che le accuse contro di lui fossero state archiviate. Ma i problemi per lui non sono terminati. È di questi giorni la notizia di un'altra delicata indagine, dove lo stesso Aiello, si ritrova indagato insieme con il procuratore aggiunto di Catanzaro, Vincenzo Luberto (uno dei firmatari delle richieste di arresto per gli 'ndranghetisti trapiantati in Umbria). La Procura di Salerno, competente per le indagini su giudici e pm del distretto catanzarese, ha messo sotto inchiesta il magistrato calabrese per la misteriosa sparizione di un'informativa degli investigatori, in cui fra i sospettati, veniva citato l'ex deputato renziano. Il documento investigativo è stata rinvenuta nei sistemi informatici degli uffici giudiziari, ma non nel fascicolo cartaceo custodito nelle stanze della Procura di Catanzaro. Aiello, dopo l'arrivo in Procura dell'annotazione, non sarebbe stato iscritto nel registro degli indagati, nonostante gli elementi contenuti nell'atto redatto dai carabinieri. In tale contesto, gli inquirenti salernitani hanno scoperto che l'ex parlamentare Pd, avrebbe intrattenuto rapporti con il procuratore aggiunto, offrendogli pure soggiorni in alcune località turistiche italiane. Nei giorni scorsi, Luberto è stato oggetto di un decreto di perquisizione, disposto dalla procura di Salerno. Nel decreto viene contestato al procuratore aggiunto di Catanzaro di aver posto in essere «condotte contrarie ai doveri d'ufficio di magistrato in servizio, ottenendo in cambio il pagamento di soggiorni alberghieri». Sembra di rileggere le accuse al pm Luca Palamara, al centro del cosiddetto scandalo Csm. Sempre per i pm salernitani, ci troveremmo di fronte a «un patto corruttivo» tra Luberto e l'ex parlamentare del Pd. E, così, secondo la Procura, «le indagini hanno consentito di accertare che Aiello ha pagato dei soggiorni alberghieri dei quali hanno fruito Luberto e i suoi familiari». C'è, per esempio, un soggiorno all'hotel Capofaro (dal 27 al 31 luglio 2017) di Isola di Salina, per 1.140 euro. E, in inverno (dal 2 gennaio all'8 gennaio 2017), all'hotel Gardena di Castel Rotto, per un totale di 11.546 euro. Vacanza, sostiene l'accusa, in parte pagata da Aiello, in parte da Luberto. E, infine, un soggiorno all'hotel Adler di Ortisei, dal 13 gennaio al 20 gennaio 2018, prenotato con caparra da 600 euro da Aiello e saldata da Luberto con 3.394 euro. I pm di Salerno, a sostegno dell'accusa mossa al magistrato calabrese, hanno prodotto pure le dichiarazioni di altri magistrati in servizio presso la procura di Catanzaro, nel periodo dei fatti contestati. Uno di questi ha riferito che alla festa per il cinquantesimo compleanno dell'aggiunto Luberto tra gli invitati ci sarebbe stato lo stesso Aiello.
i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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Getty Images
Nel 2025 la pirateria torna a imporsi come una minaccia fluida, che si adatta ad ogni situazione, capace di sfruttare ogni varco lasciato aperto nel fragile equilibrio della sicurezza marittima globale. Due aree, più di altre, raccontano questa nuova stagione di attacchi: il Golfo di Guinea e l’Oceano Indiano. Non si tratta più di fenomeni isolati come mostrano i report di Praesidium, società che si occupa di intelligence marittima, né di improvvise fiammate criminali. È un ecosistema in movimento, che segue logiche precise, approfitta delle lacune statali, cavalca il maltempo o il suo contrario, e ridisegna continuamente la mappa del rischio.
Nel Golfo di Guinea, l’andamento dell’anno ha mostrato un susseguirsi di incursioni che sembrano quasi seguire una traiettoria invisibile. All’inizio la pressione è stata particolarmente intensa nel settore orientale, tra Gabon, Guinea Equatoriale e São Tomé e Príncipe. L’attacco del 31 gennaio al peschereccio Amerger VII ha inaugurato la stagione. Tre membri dell’equipaggio sono finiti nelle mani dei pirati a poche miglia da Owendo, un episodio che ha posto subito il tema dell’audacia dei gruppi criminali e della loro capacità di muoversi vicino alle acque territoriali. Interessante notare che la stessa imbarcazione era già stata attaccata nella stessa area nel 2020.
Pochi giorni dopo, l’abbordaggio della Jsp Vento, nella Zona economica esclusiva (Zee) della Repubblica della Guinea Equatoriale, ha mostrato un altro tratto distintivo della pirateria del 2025: attacchi rapidi e condotti contro navi senza scorta, dove gli equipaggi sono spesso lasciati a loro stessi visti i lunghi tempi di reazione delle autorità locali. In questo caso i pirati hanno abbandonato la nave dopo essere stati avvistati dall’equipaggio. A marzo l’escalation si è fatta più chiara. L’incursione alla petroliera Bitu River, al largo di São Tomé, è durata ore e ha incluso la violazione della cittadella, con i pirati che sono riusciti a prendere in ostaggio diversi membri dell’equipaggio e a fuggire. Il trasferimento degli ostaggi in Nigeria e il loro rilascio settimane dopo suggeriscono canali consolidati, territori di appoggio e una filiera criminale ben riconoscibile.
La traiettoria della minaccia è poi scivolata verso ovest, raggiungendo il Ghana, dove a fine marzo il peschereccio Meng Xin 1 è stato assaltato e tre marittimi sono stati rapiti e trasportati nel Delta del Niger, cuore storico delle milizie locali. In quest’area, simili episodi ai danni di pescherecci sono stati in passato ricondotti a dispute locali o ad azioni di ritorsione. Tuttavia, il fatto che gli assalitori comunicassero in pidgin english nigeriano richiama il modus operandi tipico dei sequestri a scopo di riscatto riconducibili alla pirateria nigeriana, lasciando aperta l’ipotesi di un’evoluzione dell’evento in tale contesto.
Il vero punto di svolta è arrivato il 21 aprile, quando la Sea Panther è stata abbordata a oltre 130 miglia da Brass. L’episodio ha segnato il ritorno ufficiale della pirateria all’interno della Zee nigeriana, un territorio che non registrava attacchi confermati dal 2021. Per gli analisti si è trattato della prova definitiva che la pressione militare degli anni precedenti si è attenuata, lasciando di nuovo spazio a cellule in grado di spingersi in acque profonde. Poche settimane dopo, a fine maggio, l’assalto alla Orange Frost nella zona di sviluppo congiunto tra Nigeria e São Tomé ha completato il quadro, mostrando come i gruppi criminali siano capaci di colpire anche aree formalmente pattugliate da due Stati.
L’estate ha portato una calma apparente, dissoltasi con l’arrivo di nuovi episodi a partire da agosto, quando il tentativo di sequestro della Endo Ponente è stato sventato dalla pronta ritirata nella cittadella da parte dell’equipaggio, che è rimasto all’interno fino all’intervento delle forze navali avvenuto comunque ore dopo l’attacco. Un altro tentato attacco è stato registrato nella regione occidentale del Golfo in ottobre contro la Alfred Temile 10 al largo del Benin. A novembre la minaccia è tornata a concentrarsi a est, dove la Ual Africa è stata presa di mira al confine tra la Zee di São Tomé e Principe e quella della Guinea Equatoriale: l’equipaggio ha resistito chiudendosi in un’area blindata all’interno della nave - un locale protetto, sigillato e dotato di comunicazioni indipendenti - progettata per consentire all’equipaggio di mettersi al sicuro durante un attacco. Non riuscendo a fare breccia nelle difese, i pirati hanno devastato ponte e alloggi prima di ritirarsi.
Se il Golfo di Guinea racconta una pirateria che cambia posizione ma non perde incisività, l’Oceano Indiano nel 2025 ha dato vita a uno scenario ancora più inquietante. La regione somala è tornata teatro di sequestri e attacchi con una frequenza che ricorda i periodi più bui della pirateria del decennio precedente. La stagione è iniziata a febbraio con una serie di dirottamenti per mezzo di dhow yemeniti, piccole imbarcazioni utilizzate dai pirati come piattaforme mobili per proiettarsi molto a largo. Il sequestro dell’Al Najma N.481 ha rivelato un modus operandi ormai consueto: catturare un peschereccio, impossessarsi delle piccole imbarcazioni, rifornirsi a bordo e ripartire verso obiettivi più remunerativi. Anche gli altri casi registrati tra il 15 febbraio e il 16 marzo mostrano lo stesso schema, con dhow impiegati come basi avanzate e poi abbandonati dopo l’intervento delle forze navali internazionali o a seguito del pagamento di riscatti.
Il periodo dei monsoni, tra maggio e settembre, ha rallentato l’attività, ma non l’ha soppressa. Appena il mare è tornato praticabile, gli avvistamenti sospetti sono ripresi con un’intensità che ha sorpreso perfino le missioni navali. Tra ottobre e novembre si è assistito a un ritorno deciso dei gruppi somali in acque profonde, con tentativi di abbordaggio a centinaia di miglia dalla costa, un dettaglio che ricorda i livelli operativi raggiunti nel 2011-2012. Il primo attacco avvenuto nel 2025 contro una nave commerciale è stato registrato il 3 novembre alla petroliera Stolt Sagaland, a oltre 332 miglia nautiche da Mogadiscio: quattro uomini armati hanno aperto il fuoco prima di ritirarsi, segno di una rinnovata audacia. Pochi giorni dopo, la Hellas Aphrodite è stata addirittura abbordata a più di 700 miglia nautiche dalla Somalia, un dato che conferma l’utilizzo di «navi madre» capaci di sostenere missioni lunghe e complesse. Proprio in questo contesto si inserisce il misterioso dhow iraniano Issamamohamadi, sequestrato a fine ottobre e ritrovato abbandonato l’11 novembre: secondo gli investigatori è molto probabile che sia stato utilizzato come base per gli attacchi alla Stolt Sagaland e alla Hellas Aphrodite.
Il mese di novembre ha proposto un crescendo di avvicinamenti sospetti, scafi non identificati che si accostano a mercantili per poi allontanarsi all’improvviso, petroliere che segnalano la presenza di droni in aree dove solo pochi anni fa sarebbe stato impensabile. Le due regioni – Golfo di Guinea e Oceano Indiano – raccontano, seppure con dinamiche diverse, una stessa verità: la pirateria non è affatto un fenomeno residuale. È una minaccia che continua a mutare, sfrutta gli spazi lasciati liberi dalla sicurezza internazionale e approfitta delle fragilità degli Stati costieri. Nel 2025, il mare torna a parlare il linguaggio inquieto delle rotte clandestine, dei sequestri silenziosi e dei gruppi armati che conoscono perfettamente le pieghe della geografia nautica e delle debolezze politiche di intere regioni. Una minaccia che non chiede di essere osservata: semplicemente, ritorna.
«La lotta agli Huthi ha sottratto risorse. Contro i sequestri i mezzi sono limitati»
Stefano Ràkos, è manager del dipartimento di intelligence e responsabile del progetto M.a.r.e. di Praesidium.
In che modo la pirateria nel Golfo di Guinea nel 2025 dimostra una crescente capacità organizzativa rispetto agli anni precedenti?
«La crescente capacità organizzativa emerge soprattutto dall’elevata adattabilità dei pirati al contesto di sicurezza. I gruppi dimostrano di monitorare costantemente l’evoluzione delle misure di protezione, inclusa l’estensione progressiva delle aree coperte da scorte armate o navi militari, e di raccogliere informazioni attraverso canali aperti e circuiti informali. Le aree di attacco vengono quindi selezionate in modo sempre più mirato, privilegiando i settori dove le scorte armate non sono consentite per motivi legali o di scarsa presenza di asset militari. Gli assalti risultano basati su informazioni preventive sui movimenti delle navi e non più su opportunità casuali, indicando un livello di pianificazione e coordinamento superiore rispetto al passato».
Quali fattori hanno consentito ai gruppi criminali dell’Oceano Indiano di tornare a operare a distanze così elevate dalla costa somala, arrivando a colpire navi a oltre 700 miglia?
«A partire dalla fine del 2023, il ritorno delle attività pirata a distanze superiori alle 700 miglia dalla costa somala è stato favorito dallo spostamento dell’attenzione navale internazionale verso il Mar Rosso e il Golfo di Aden a seguito della crisi legata agli Huthi, con una conseguente riduzione della pressione di controllo nell’Oceano Indiano. La fine del monsone ha ripristinato condizioni meteomarine favorevoli alle operazioni offshore. Sul piano operativo, si è registrata una persistente limitata capacità di interdizione effettiva da parte degli assetti navali internazionali. Nel caso del dirottamento della Ruen nel dicembre 2023, così come in un più recente episodio con dinamiche analoghe, le forze presenti si sono limitate ad attività di monitoraggio a distanza, senza procedere a un’azione diretta di interruzione prima del rientro delle unità verso le coste somale. Questo approccio ha di fatto confermato ai gruppi criminali l’esistenza di ampi margini di manovra operativa, rafforzando la percezione di un basso livello di rischio nelle fasi successive al sequestro».
Che ruolo ha giocato la cooperazione regionale degli Stati dell’Africa occidentale nella gestione dei sequestri e nella risposta agli attacchi, e quali limiti emergono da questi interventi?
«Nella pratica, la cooperazione regionale tra gli Stati dell’Africa occidentale ha inciso in modo molto limitato sulla gestione dei sequestri e sulla risposta agli attacchi. I principali quadri di riferimento, tra cui Ecowas e l’Architettura di Yaoundé con i relativi centri di coordinamento regionali, hanno prodotto soprattutto meccanismi formali di cooperazione e scambio informativo. Tuttavia, tali strutture non si sono tradotte in una capacità operativa realmente integrata. Le risposte restano nazionali, frammentate e spesso tardive, con forti disomogeneità tra le marine locali».
In che misura l’utilizzo di dhow come «navi madre» rappresenta un salto qualitativo nelle operazioni dei pirati somali, e quali rischi introduce per le rotte commerciali globali?
«L’impiego dei dhow come navi madre non rappresenta una tattica nuova, ma una strategia già utilizzata dai pirati somali in passato e oggi tornata pienamente operativa. Questo schema consente di superare i limiti degli skiff, che per autonomia di carburante e condizioni del mare non possono spingersi troppo lontano dalla costa. L’uso di un’imbarcazione più grande permette invece di operare a grande distanza, trasportando uomini, carburante e mezzi d’assalto in aree di mare molto più estese. Una volta avvicinato il bersaglio, vengono poi impiegati gli skiff, più rapidi e adatti alla fase di abbordaggio. Ne deriva un ampliamento diretto dell’area di rischio e una maggiore esposizione delle rotte commerciali globali, anche in settori che in passato erano considerati marginali rispetto alla minaccia pirata. Negli anni d’oro della pirateria somala il loro raggio operativo raggiungeva addirittura le Maldive».
Quali segnali osservabili indicano che nel 2025 la pirateria non è un fenomeno residuale ma un ecosistema in evoluzione che sfrutta lacune statali e vuoti di sicurezza internazionale?
«Nel contesto dell’Oceano Indiano, l’assenza di un controllo statale effettivo su ampie porzioni del territorio somalo continua a costituire un fattore strutturale di instabilità, che facilita la riorganizzazione delle reti criminali. Le missioni navali internazionali, tra cui le componenti europee e le task force multinazionali, non esercitano più il livello di deterrenza raggiunto negli anni precedenti. La Marina indiana mantiene una presenza attiva nella regione, ma gli interventi risultano spesso legati alla presenza di cittadini indiani a bordo delle unità coinvolte. Nel Golfo di Guinea, il quadro appare ancora più critico. I gruppi criminali nigeriani operano con crescente frequenza al di fuori della zona economica esclusiva della Nigeria, spesso in aree dove l’impiego di scorte armate non è consentito. I tempi di risposta delle marine locali risultano generalmente elevati e frammentati, in assenza di un dispositivo internazionale strutturato analogo a quello attivo in Oceano Indiano».
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(Ansa/Arma dei Carabinieri)
Si tratta in particolare di truffatori che ricorrevano al trucco del «finto carabiniere» per sottrarre denaro soprattutto a persone anziane. Tra gli indagati, uno era già detenuto per altra causa; sei sono stati portati in carcere, nove agli arresti domiciliari e cinque sottoposti all’obbligo di dimora.
Il provvedimento nasce da un’indagine convenzionalmente denominata «Altro Mondo», condotta dal Nucleo investigativo di Milano e avviata a partire dal 2023, come risposta alla recrudescenza di furti, rapine e truffe commessi prevalentemente in danno di soggetti vulnerabili, mediante la tecnica del «finto carabiniere».
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