2022-07-10
Si stupiscono del crollo delle nascite quelli che demonizzano la famiglia
Repubblica ha recentemente scoperto, con toni allarmistici, che in Italia non si fanno figli. Ma è lo stesso giornale che fa un’apologia dell’ultimo Premio Strega, Mario Desiati. Che dice: «Elevo la parola queer al cubo».È un urlo nel silenzio: non nascono più bambini. E in questo caso il silenzio è vuoto, angosciante, testimone di una società individualista che considera il vagito come un rumore. È la fotografia di una sconfitta occidentale, di sicuro italiana, che l’Istat traduce in numeri senza appello nell’ultimo rapporto: in tutto il 2021 sono nati 399.000 bimbi, per la prima volta nella storia sotto la soglia psicologica dei 400.000, con una diminuzione dell’1,3% rispetto all’anno prima, già di per sé deficitario. Se il paragone viene fatto sul 2008, il crollo è assoluto: -31%. Ma la tendenza sull’anno in corso è ancora più preoccupante: nel primo trimestre il saldo negativo è di -13,4%, definito dall’istituto di statistica «fra i deficit più ampi mai registrati e lascia pochi dubbi sul ruolo svolto dalla pandemia».Quindi Covid e, ancora di più, paura. La paura sanitaria e sociale, la cappa di negatività istituzionale alimentata da politiche irrazionali, talvolta isteriche, amplificate da narrazioni cupe, millenariste, improntate alla distruzione, al dirigismo ottuso e mai alla speranza. Difficile che in un simile contesto, dentro un buio politico che mostra orizzonti di crisi senza fine, una famiglia decida di investire sul domani anche nel campo degli affetti, il più fragile, il più istintivo. Non c’è stupore nel leggere questi dati ma solo la conferma di un approccio fortemente sbagliato; l’allarmismo virologico e la bufala «non ti vaccini, ti ammali, muori» non sono mai risorse. Così l’Italia perde cittadini e quote di futuro, passa da 60 milioni di abitanti a 58,9, nonostante l’iniezione massiccia di migranti che, per buona parte, rimangono parcheggiati ai margini della società, utili solo alle campagne elettorali del Pd. «La crisi è sintomo della posticipazione di piani di genitorialità che si è protratta in modo più marcato nei primi sette mesi, per poi rallentare verso la fine dell’anno». Ma non si tratta solo di un rinvio a tempi migliori, il problema è dentro la società: le culle non sono più di moda. E neppure le difficoltà economiche bastano a giustificare la tendenza negativa. Non tutto si misura con le categorie dell’economia e del mercato; le statistiche ci dicono che storicamente proprio nei periodi più grami (e nei luoghi più disagiati) la natalità era una risorsa, una spinta positiva per dare un senso al futuro, per guardare avanti con un obiettivo concreto: far crescere i figli per consegnare loro il testimone. Anche in Cina, dove fino a qualche anno fa era in vigore una legge terribile che consentiva di procreare solo un figlio, hanno capito che la denatalità è il primo passo verso l’aridità. Oggi è paradossale e perfino ipocrita stupirsi se il 33,1% degli italiani vive da solo (per la prima volta hanno sorpassato le coppie con un figlio, ferme al 31,2%) quando i messaggi politici, mediatici, culturali vanno in direzione sistematicamente opposta rispetto alla famiglia e alla sua centralità. In un’Italia arcobaleno, in cui i «diritti universali» riguardano sempre e solo le comunità gay e le minoranze genderfluid; dove le spinte verso l’utero in affitto arrivano da istituzioni come la Corte di cassazione e la Corte costituzionale ancor prima che dal Parlamento; dove si esalta la genitorialità plastificata dei cosiddetti «diversi»; dove l’aborto a qualsiasi condizione diventa un pilastro di civiltà; dove il progressismo anti-famiglia domina la scena con campagne giornalistiche feroci, è addirittura normale che le giovani coppie provino un certo smarrimento e si fermino nella comfort zone del narcisismo e dell’attendismo. Che fai, demonizzi la famiglia naturale e poi ti lamenti perché non fa più figli?Siamo passati dalle modelle orgogliosamente incinte sulle copertine di Vogue negli anni Novanta ai modelli con la pancia finta, alle patetiche drag queen mitizzate al carnevale del gay pride. Ed è curioso notare che proprio su La Repubblica, protagonista attiva delle campagne transgender (con rappresentanza redazionale alle sfilate arcobaleno), l’allarme per la denatalità sia spalmato su quattro pagine. Il giornale, che sempre è un osservatorio privilegiato dei costumi italiani, si è stropicciato gli occhi e ha scritto: «L’Italia è il paese dei single. E nel 2045 le coppie senza figli supereranno quelle con bambini». Il tono è di sorpresa, l’approccio mostra allarme per il crollo delle nascite. Ma è lo stesso quotidiano a cavalcare un giorno sì e l’altro pure ogni battaglia Lgbtq, ad additare i difensori della famiglia come fanatici ortodossi, ad amplificare ogni capriccio della sinistra Village People.Infatti, basta arrivare all’inserto culturale per scoprire che, in fondo, la famiglia ristretta e la monoporzione di felicità sono un obiettivo editoriale. Mario Desiati, vincitore del Premio Strega più conformista degli ultimi anni, annuncia con entusiasmo a tutta pagina: «Spatriati è un’elevazione al cubo della parola queer». Rivelazione illuminante e decisiva. I bambini non nascono per non dover imparare a leggere.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)