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2021-02-21
Si cambia linea senza dire chi ha sbagliato
Roberto Speranza (Ansa)
Ma se il sistema funzionava così bene e portava ottimi risultati, come mai adesso si vuole cambiare tutto? Forse si dovrebbe cominciare da qui a spiegare agli italiani per quale motivo il meccanismo dei colori - celebratissimo fino all'altro ieri - adesso rischia di venire smontato o comunque radicalmente modificato. Mario Draghi è convinto che i cittadini vogliano «velocità e trasparenza». Ecco, un primo passo in direzione della chiarezza sarebbe bene accetto: le istituzioni ci spieghino su quali basi intendono impostare il nuovo corso, e lo facciano rapidamente.
Ancora un paio di giorni fa, scienziati molto ascoltati come Fabrizio Pregliasco e Giuseppe Ippolito (quest'ultimo, per inciso, membro del Comitato tecnico scientifico) ribadivano sui giornali che «il sistema delle zone colorate funziona». Eppure ieri i presidenti di Regione si sono riuniti per discutere una nuova linea: la possibilità di restrizioni non più locali ma nazionali. Zona arancione per tutta Italia, in buona sostanza. Delle due l'una: o i colori funzionano, e allora vanno mantenuti, o non funzionano e la strategia va rivista. Tra i governatori e pure tra gli esperti sembra prevalere la seconda linea, ma il motivo - a dirla tutta - non è facilmente comprensibile.
Chissà, forse i presidenti di Regione chiedono al governo centrale di assumersi la responsabilità delle nuove restrizioni perché temono la competizione cromatica, pensando che il loro operato verrà giudicato dai cittadini in base al colore che saranno in grado di garantire. Se così fosse, si tratterebbe di una brutta manovra politica attuata sulla nostra pelle. O forse i presidenti sono semplicemente esasperati dal continuo mutamento e preferiscono norme draconiane ma chiare. E questo sarebbe già più comprensibile.
Certo è che, finora, le chiusure sono state disposte su base magica, più che scientifica. Ogni volta ci è stato ribadito con vigore: «I provvedimenti decisi dai dpcm hanno ottimi effetti, dovete rispettarli!». Poi, però, gli stessi provvedimenti venivano improvvisamente modificati senza fornire spiegazioni. È successo a Natale e Capodanno, rischia di succedere di nuovo. Che le decisioni vengano prese in modo spannometrico lo dimostrano chiaramente le affermazioni di Roberto Speranza risalenti a un paio di giorni fa. Il ministro della Salute si è rivolto alle Regioni invitandole ad «accettare la zona arancione» anche se i dati le collocavano in zona gialla. Il sistema semaforico è stato elaborato proprio al fine di evitare la discrezionalità: saranno i numeri a stabilire chi scende e chi sale, ci fu promesso. Ma allora perché, se i numeri stabiliscono un colore, il ministro preme perché se ne scelga un altro? Qualcosa non torna. Ritorniamo quindi al punto di partenza: poiché tutto va bene, tutto cambia. Il problema è che, prima di modificare il metodo di imposizione delle restrizioni, bisognerebbe compiere almeno due passaggi: uno politico, l'altro scientifico.
Sul piano politico, bisogna che qualcuno ammetta di aver sbagliato. Il ministro della Salute, i componenti del Cts, i consulenti come Walter Ricciardi devono prendere la parola e dire: sì, fino a oggi abbiamo utilizzato strumenti malfunzionanti, non abbiamo gestito bene la situazione e abbiamo messo l'intera nazione nei pasticci. Questa sì che sarebbe trasparenza.
Poi c'è l'ambito scientifico. Per decretare che un approccio è sbagliato, almeno in teoria, bisognerebbe basarsi su dati e analisi. Solo che, allo stato attuale, mancano gli uni e le altre. Fu il presidente Sergio Mattarella, di fronte ai parenti delle vittime di Covid a Bergamo, a chiedere di «riflettere, seriamente, con rigorosa precisione, su ciò che non ha funzionato, sulle carenze di sistema, sugli errori da evitare di ripetere». Ci risulta che il suo appello sia caduto nel vuoto. Nessuna analisi seria della gestione della pandemia è stata fatta, nemmeno riguardo la prima ondata. Inoltre, ancora oggi il ministero della Salute e l'Istituto superiore di sanità - come ha svelato La Verità - non sono in grado di fornire dati precisi sui decessi. In sintesi, non sanno dire dove avvengano le morti per coronavirus.
Ci domandiamo: se non si è riflettuto a dovere sulle carenze di un metodo e sulle sue conseguenze e se mancano ancora indicatori fondamentali, come si può pensare di elaborare una nuova strategia di gestione dell'emergenza che funzioni? Non si può fare, è evidente. Si può, al massimo, proseguire a tentoni, facendosi guidare dalle suggestioni, dalle paure e dalle opinioni dei singoli consulenti. I quali, giova ricordarlo, sono sempre gli stessi dall'inizio dell'epidemia, gli stessi che hanno fornito versioni discordanti, che hanno polemizzato fra loro, che hanno commesso omissioni ed errori gravi.
«Velocità e trasparenza», dice Mario Draghi. Ottimo: significa che servono risultati, e subito. L'ultimo dpcm contiano è in scadenza il 5 marzo, il 25 febbraio scadrà il divieto di spostamento fra Regioni: siamo al primo vero banco di prova per il nuovo governo. Non possiamo più accettare che si cambia colore «perché sì», o che si modificano i parametri «perché bisogna farlo». L'Italia ha diritto a un po' di rispetto, se l'è guadagnato. Pasticciare con i colori è un bel gioco per bambini: adesso è il momento di diventare adulti.
«Tutti arancioni? No, tutti gialli». I governatori si dividono sui colori
Non passa la proposta di colorare di arancione tutta l'Italia: la Conferenza delle Regioni, riunita ieri, non approva l'idea del presidente dell'Emilia Romagna, Stefano Bonaccini: «Abbiamo trovato l'accordo», spiega alla Verità il presidente del Molise, Donato Toma, «su una serie di proposte da presentare al governo. Chiediamo di semplificare il sistema dei colori, passando da tre fasce a due; di avere un punto il martedì o il mercoledì, per non arrivare all'ultimo minuto con l'assegnazione delle fasce, dando tempo agli imprenditori di regolarsi: di rivisitare i 21 parametri, di accelerare con i ristori e», aggiunge Toma, «con la campagna vaccinale».
La linea l'ha dettata di buon mattino il leader del centrodestra di governo, Matteo Salvini: «Zona arancione», scrive su Facebook il segretario della Lega, «in tutta Italia? Basta con gli annunci, gli allarmi e le paure preventive che hanno caratterizzato gli ultimi mesi, se ci sono zone più a rischio si intervenga in modo rapido e circoscritto, si acceleri sul piano vaccinale ma non si getti nel panico l'intero Paese. Il diritto alla salute viene prima di tutto», aggiunge Salvini, «e rispettiamo le indicazioni della comunità scientifica, non le anticipazioni a mezzo stampa di lockdown ingiustificati e generalizzati». Il leader di quella che è la forza politica più importante della maggioranza che sostiene il governo Draghi annusa il pericolo dell'affacciarsi di una linea ultrarigorista, quella portata avanti innanzitutto dal presidente dell'Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, che chiede che il meccanismo dei colori (giallo, arancione e rosso) per assegnare a ciascuna Regione le restrizioni adeguate per il livello di pericolosità della pandemia, e alza un muro.
La Conferenza delle Regioni, convocata per ieri pomeriggio, ha come punto all'ordine del giorno «la valutazione dell'attuale sistema di regole per la gestione e il contenimento della pandemia in vista dell'adozione del prossimo dpcm», oltre alla riduzione delle dosi di vaccino fornite da Astrazeneca. Il 25 febbraio scade il divieto di spostamento tra le Regioni, il 5 marzo decade l'ultimo dpcm dell'era Conte, e occorre stabilire le nuove regole, oppure mantenere in vita, magari con qualche accorgimento, quelle che hanno accompagnato fino ad ora la nostra vita al tempo del Covid.
I presidenti delle Regioni si riuniscono in videoconferenza alle 17, la discussione è lunga e, come spiega uno dei partecipanti alla Verità, molto caotica. L'obiettivo è raggiungere l'intesa su una proposta da presentare al governo, ma le differenze tra i vari governatori sono profonde. L'idea di colorare di arancione tutta l'Italia non va giù alla maggioranza dei presidenti. La posizione di Bonaccini, presidente della Conferenza delle Regioni, è netta: «Va fatta», dice Bonaccini, «una valutazione senza ricette precostituite: il sistema a fasce che ha pagato per tanto tempo oggi mostra qualche limite. Bisogna provare a capire anche, e questo ce lo devono dire gli esperti, quale può essere l'incidenza di queste varianti nelle prossime settimane. Rischiamo questa altalena tra chiusure e riaperture che rischia di sfibrare un po' tutti i cittadini e gli operatori economici». Guarda caso, il sistema a fasce «mostra qualche limite» proprio ora che al governo è arrivato Mario Draghi, sostenuto da una maggioranza a prevalenza centrodestra. Proprio domani, tra l'altro, si terrà il Cdm che potrà, o meno, accogliere le indicazioni delle amministrazioni regionali e che vede all'ordine del giorno: «Disposizioni urgenti in materia di contenimento dell'emmergenza Covid-19, esame delle leggi regionali, ai sensi dell'articolo 127 della Costituzione».
«Nei prossimi giorni», annuncia Bonaccini, «incontreremo i neoministri Gelmini e Speranza. Serve una stretta, per non tornare a chiudere e restringere una volta che se ne è usciti». La linea della uniformità delle restrizioni sull'intero territorio nazionale è quella portata avanti, da sempre, anche dal principe dei «rigoristi», il presidente della Campania, Vincenzo De Luca. Con sfumature diverse, lo stesso presidente della Lombardia, Attilio Fontana, chiede di «rivedere il sistema a colori,che ci tiene in apprensione fino al venerdì. Dobbiamo dare modo alle famiglie», afferma Fontana, «alle imprese e alle attività commerciali di avere la capacità di organizzarsi, di avere un più ampio respiro per poter organizzare le proprie attività». Ai colleghi presidenti, il governatore della Liguria, Giovanni Toti, propone una zona gialla nazionale: «Pomeriggio di riunione», scrive Toti su Facebook a riunione in corso, «per elaborare le nostre proposte al governo Draghi in vista del rinnovo delle norme Covid. Ho proposto di istituire una zona gialla nazionale, che preveda maggiori aperture, come ad esempio sport, palestre e piscine, spettacolo, consentire ai ristoranti di scegliere se aprire a pranzo o a cena, per dare a tutti l'opportunità di lavorare: di regolamentare i passaggi di colore non solo su base regionale», aggiunge Toti, «ma soprattutto provinciale e comunale in modo da isolare le situazioni di rischio e le varianti dove è necessario; di anticipare la comunicazione del cambio di zona che non può arrivare a ridosso del passaggio stesso, in modo da consentire ai cittadini di programmare la propria vita». La riunione si prolunga, trovare una linea comune tra i presidenti delle Regioni italiane è difficile. La divisione tra governatori è l'effetto di una precisa strategia del governo Conte, che introdusse il sistema «a colori» per dividere il fronte dei governatori, che se fosse stato compatto avrebbe smascherato e combattuto con maggiore vigore ed efficacia le politiche dilatorie, confusionarie, inefficaci del precedente esecutivo. Alla fine, l'intesa: ora toccherà al governo decidere se e come recepire queste proposte.
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Prima di archiviare il semaforo dei divieti, che ha angosciato gli italiani, qualcuno dovrebbe ammettere i propri errori. A cominciare da Roberto Speranza, che giorni fa voleva l'Italia in arancio anche se i dati indicavano lievi pericoli. Altrimenti torniamo al punto di partenza.Le Regioni non trovano l'accordo sulle serrate omogenee di Stefano Bonaccini, già bocciate da Matteo Salvini. Giovanni Toti prova a rilanciare: «Apriamo ovunque». Il compromesso finale è la richiesta di ridurre le zone a due e semplificare.Lo speciale contiene due articoli.Ma se il sistema funzionava così bene e portava ottimi risultati, come mai adesso si vuole cambiare tutto? Forse si dovrebbe cominciare da qui a spiegare agli italiani per quale motivo il meccanismo dei colori - celebratissimo fino all'altro ieri - adesso rischia di venire smontato o comunque radicalmente modificato. Mario Draghi è convinto che i cittadini vogliano «velocità e trasparenza». Ecco, un primo passo in direzione della chiarezza sarebbe bene accetto: le istituzioni ci spieghino su quali basi intendono impostare il nuovo corso, e lo facciano rapidamente. Ancora un paio di giorni fa, scienziati molto ascoltati come Fabrizio Pregliasco e Giuseppe Ippolito (quest'ultimo, per inciso, membro del Comitato tecnico scientifico) ribadivano sui giornali che «il sistema delle zone colorate funziona». Eppure ieri i presidenti di Regione si sono riuniti per discutere una nuova linea: la possibilità di restrizioni non più locali ma nazionali. Zona arancione per tutta Italia, in buona sostanza. Delle due l'una: o i colori funzionano, e allora vanno mantenuti, o non funzionano e la strategia va rivista. Tra i governatori e pure tra gli esperti sembra prevalere la seconda linea, ma il motivo - a dirla tutta - non è facilmente comprensibile. Chissà, forse i presidenti di Regione chiedono al governo centrale di assumersi la responsabilità delle nuove restrizioni perché temono la competizione cromatica, pensando che il loro operato verrà giudicato dai cittadini in base al colore che saranno in grado di garantire. Se così fosse, si tratterebbe di una brutta manovra politica attuata sulla nostra pelle. O forse i presidenti sono semplicemente esasperati dal continuo mutamento e preferiscono norme draconiane ma chiare. E questo sarebbe già più comprensibile. Certo è che, finora, le chiusure sono state disposte su base magica, più che scientifica. Ogni volta ci è stato ribadito con vigore: «I provvedimenti decisi dai dpcm hanno ottimi effetti, dovete rispettarli!». Poi, però, gli stessi provvedimenti venivano improvvisamente modificati senza fornire spiegazioni. È successo a Natale e Capodanno, rischia di succedere di nuovo. Che le decisioni vengano prese in modo spannometrico lo dimostrano chiaramente le affermazioni di Roberto Speranza risalenti a un paio di giorni fa. Il ministro della Salute si è rivolto alle Regioni invitandole ad «accettare la zona arancione» anche se i dati le collocavano in zona gialla. Il sistema semaforico è stato elaborato proprio al fine di evitare la discrezionalità: saranno i numeri a stabilire chi scende e chi sale, ci fu promesso. Ma allora perché, se i numeri stabiliscono un colore, il ministro preme perché se ne scelga un altro? Qualcosa non torna. Ritorniamo quindi al punto di partenza: poiché tutto va bene, tutto cambia. Il problema è che, prima di modificare il metodo di imposizione delle restrizioni, bisognerebbe compiere almeno due passaggi: uno politico, l'altro scientifico. Sul piano politico, bisogna che qualcuno ammetta di aver sbagliato. Il ministro della Salute, i componenti del Cts, i consulenti come Walter Ricciardi devono prendere la parola e dire: sì, fino a oggi abbiamo utilizzato strumenti malfunzionanti, non abbiamo gestito bene la situazione e abbiamo messo l'intera nazione nei pasticci. Questa sì che sarebbe trasparenza. Poi c'è l'ambito scientifico. Per decretare che un approccio è sbagliato, almeno in teoria, bisognerebbe basarsi su dati e analisi. Solo che, allo stato attuale, mancano gli uni e le altre. Fu il presidente Sergio Mattarella, di fronte ai parenti delle vittime di Covid a Bergamo, a chiedere di «riflettere, seriamente, con rigorosa precisione, su ciò che non ha funzionato, sulle carenze di sistema, sugli errori da evitare di ripetere». Ci risulta che il suo appello sia caduto nel vuoto. Nessuna analisi seria della gestione della pandemia è stata fatta, nemmeno riguardo la prima ondata. Inoltre, ancora oggi il ministero della Salute e l'Istituto superiore di sanità - come ha svelato La Verità - non sono in grado di fornire dati precisi sui decessi. In sintesi, non sanno dire dove avvengano le morti per coronavirus. Ci domandiamo: se non si è riflettuto a dovere sulle carenze di un metodo e sulle sue conseguenze e se mancano ancora indicatori fondamentali, come si può pensare di elaborare una nuova strategia di gestione dell'emergenza che funzioni? Non si può fare, è evidente. Si può, al massimo, proseguire a tentoni, facendosi guidare dalle suggestioni, dalle paure e dalle opinioni dei singoli consulenti. I quali, giova ricordarlo, sono sempre gli stessi dall'inizio dell'epidemia, gli stessi che hanno fornito versioni discordanti, che hanno polemizzato fra loro, che hanno commesso omissioni ed errori gravi. «Velocità e trasparenza», dice Mario Draghi. Ottimo: significa che servono risultati, e subito. L'ultimo dpcm contiano è in scadenza il 5 marzo, il 25 febbraio scadrà il divieto di spostamento fra Regioni: siamo al primo vero banco di prova per il nuovo governo. Non possiamo più accettare che si cambia colore «perché sì», o che si modificano i parametri «perché bisogna farlo». L'Italia ha diritto a un po' di rispetto, se l'è guadagnato. Pasticciare con i colori è un bel gioco per bambini: adesso è il momento di diventare adulti. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/si-cambia-linea-senza-dire-chi-ha-sbagliato-2650647154.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="tutti-arancioni-no-tutti-gialli-i-governatori-si-dividono-sui-colori" data-post-id="2650647154" data-published-at="1613865377" data-use-pagination="False"> «Tutti arancioni? No, tutti gialli». I governatori si dividono sui colori Non passa la proposta di colorare di arancione tutta l'Italia: la Conferenza delle Regioni, riunita ieri, non approva l'idea del presidente dell'Emilia Romagna, Stefano Bonaccini: «Abbiamo trovato l'accordo», spiega alla Verità il presidente del Molise, Donato Toma, «su una serie di proposte da presentare al governo. Chiediamo di semplificare il sistema dei colori, passando da tre fasce a due; di avere un punto il martedì o il mercoledì, per non arrivare all'ultimo minuto con l'assegnazione delle fasce, dando tempo agli imprenditori di regolarsi: di rivisitare i 21 parametri, di accelerare con i ristori e», aggiunge Toma, «con la campagna vaccinale». La linea l'ha dettata di buon mattino il leader del centrodestra di governo, Matteo Salvini: «Zona arancione», scrive su Facebook il segretario della Lega, «in tutta Italia? Basta con gli annunci, gli allarmi e le paure preventive che hanno caratterizzato gli ultimi mesi, se ci sono zone più a rischio si intervenga in modo rapido e circoscritto, si acceleri sul piano vaccinale ma non si getti nel panico l'intero Paese. Il diritto alla salute viene prima di tutto», aggiunge Salvini, «e rispettiamo le indicazioni della comunità scientifica, non le anticipazioni a mezzo stampa di lockdown ingiustificati e generalizzati». Il leader di quella che è la forza politica più importante della maggioranza che sostiene il governo Draghi annusa il pericolo dell'affacciarsi di una linea ultrarigorista, quella portata avanti innanzitutto dal presidente dell'Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, che chiede che il meccanismo dei colori (giallo, arancione e rosso) per assegnare a ciascuna Regione le restrizioni adeguate per il livello di pericolosità della pandemia, e alza un muro. La Conferenza delle Regioni, convocata per ieri pomeriggio, ha come punto all'ordine del giorno «la valutazione dell'attuale sistema di regole per la gestione e il contenimento della pandemia in vista dell'adozione del prossimo dpcm», oltre alla riduzione delle dosi di vaccino fornite da Astrazeneca. Il 25 febbraio scade il divieto di spostamento tra le Regioni, il 5 marzo decade l'ultimo dpcm dell'era Conte, e occorre stabilire le nuove regole, oppure mantenere in vita, magari con qualche accorgimento, quelle che hanno accompagnato fino ad ora la nostra vita al tempo del Covid. I presidenti delle Regioni si riuniscono in videoconferenza alle 17, la discussione è lunga e, come spiega uno dei partecipanti alla Verità, molto caotica. L'obiettivo è raggiungere l'intesa su una proposta da presentare al governo, ma le differenze tra i vari governatori sono profonde. L'idea di colorare di arancione tutta l'Italia non va giù alla maggioranza dei presidenti. La posizione di Bonaccini, presidente della Conferenza delle Regioni, è netta: «Va fatta», dice Bonaccini, «una valutazione senza ricette precostituite: il sistema a fasce che ha pagato per tanto tempo oggi mostra qualche limite. Bisogna provare a capire anche, e questo ce lo devono dire gli esperti, quale può essere l'incidenza di queste varianti nelle prossime settimane. Rischiamo questa altalena tra chiusure e riaperture che rischia di sfibrare un po' tutti i cittadini e gli operatori economici». Guarda caso, il sistema a fasce «mostra qualche limite» proprio ora che al governo è arrivato Mario Draghi, sostenuto da una maggioranza a prevalenza centrodestra. Proprio domani, tra l'altro, si terrà il Cdm che potrà, o meno, accogliere le indicazioni delle amministrazioni regionali e che vede all'ordine del giorno: «Disposizioni urgenti in materia di contenimento dell'emmergenza Covid-19, esame delle leggi regionali, ai sensi dell'articolo 127 della Costituzione». «Nei prossimi giorni», annuncia Bonaccini, «incontreremo i neoministri Gelmini e Speranza. Serve una stretta, per non tornare a chiudere e restringere una volta che se ne è usciti». La linea della uniformità delle restrizioni sull'intero territorio nazionale è quella portata avanti, da sempre, anche dal principe dei «rigoristi», il presidente della Campania, Vincenzo De Luca. Con sfumature diverse, lo stesso presidente della Lombardia, Attilio Fontana, chiede di «rivedere il sistema a colori,che ci tiene in apprensione fino al venerdì. Dobbiamo dare modo alle famiglie», afferma Fontana, «alle imprese e alle attività commerciali di avere la capacità di organizzarsi, di avere un più ampio respiro per poter organizzare le proprie attività». Ai colleghi presidenti, il governatore della Liguria, Giovanni Toti, propone una zona gialla nazionale: «Pomeriggio di riunione», scrive Toti su Facebook a riunione in corso, «per elaborare le nostre proposte al governo Draghi in vista del rinnovo delle norme Covid. Ho proposto di istituire una zona gialla nazionale, che preveda maggiori aperture, come ad esempio sport, palestre e piscine, spettacolo, consentire ai ristoranti di scegliere se aprire a pranzo o a cena, per dare a tutti l'opportunità di lavorare: di regolamentare i passaggi di colore non solo su base regionale», aggiunge Toti, «ma soprattutto provinciale e comunale in modo da isolare le situazioni di rischio e le varianti dove è necessario; di anticipare la comunicazione del cambio di zona che non può arrivare a ridosso del passaggio stesso, in modo da consentire ai cittadini di programmare la propria vita». La riunione si prolunga, trovare una linea comune tra i presidenti delle Regioni italiane è difficile. La divisione tra governatori è l'effetto di una precisa strategia del governo Conte, che introdusse il sistema «a colori» per dividere il fronte dei governatori, che se fosse stato compatto avrebbe smascherato e combattuto con maggiore vigore ed efficacia le politiche dilatorie, confusionarie, inefficaci del precedente esecutivo. Alla fine, l'intesa: ora toccherà al governo decidere se e come recepire queste proposte.
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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