
«Siamo contenti quando i cattolici si impegnano in politica». Dipende da quali. Il presidente della Cei Matteo Zuppi sorride estasiato, l’applausometro lo conforta, il pensiero unico schierato in prima fila all’inaugurazione della Settimana sociale di Trieste è un dolce muro avvolgente e invalicabile. Lui è contento perché - esattamente come aveva previsto un piccolo giornale - la kermesse giuliana ha tradito la sua missione ed è diventata un’apoteosi del cattolicesimo progressista, che dopo lo scioglimento della Margherita è felicemente confluito nel Pd. E oggi ne rappresenta l’anima curiale, facendo finta di non sapere che la stagione gruppettara dem a trazione Elly Schlein poggia su dogmi irrinunciabili come l’aborto, l’eutanasia e l’utero in affitto che per la Chiesa rappresentano «la cultura dello scarto contro la cultura della vita» (copyright papa Francesco).
Santa orticaria, per favore si guardi altrove. Così il cardinal Zuppi preferisce non cogliere l’allarme che arriva dalle parrocchie, da quei fedeli sempre più lontani dai loro pastori naturali, smarriti e perplessi perché additati come opportunisti, conservatori, non convinti dell’intrinseca bellezza della «gestazione per altri» o della «dolce morte» in Svizzera (temi dai quali il cinquantenario festival biennale si tiene opportunamente alla larga). Quindi lontani e malvisti (i fedeli) da chi, mettendo la testa sotto la sabbia, ritiene di indurre i cattolici a nuotare dentro il placido fiume del conformismo.
Liberaldemocratici, tradizionalisti devoti, tutta gente non rappresentata nella quattro giorni triestina, finanziata dalla Regione (500.000 euro più location pubbliche) ma di fatto trasformata in una Festa de l’Unità con profumo d’incenso invece che di olio fritto dai Red Brothers Francesco Russo (numero uno del Pd in Venezia Giulia) e dalla sorella Rosy che si occupa della comunicazione senza problemi di conflitto d’interesse.
«Guardiamo con preoccupazione al pericolo dei populismi che possono privarci della democrazia o indebolirla», sottolinea Zuppi spingendo sull’acceleratore di temi cari al Nazareno con l’afflato di un Pierluigi Bersani mentre smacchia i giaguari. Migranti, lavoro, natura e «amore politico» perché «dal 1907 a oggi il cattolicesimo italiano non è rimasto a guardare, non si è chiuso in sacrestia».
Certo che no. A differenza di oggi, in altre stagioni ben più decisive di questa, né la Chiesa, né i suoi rappresentanti laici hanno girato i chiavistelli e fatto scattare i catenacci dei portali, e non hanno usato l’appartenenza politica come green pass per includere ed escludere.
Poi, parlando alla parrocchietta cattodem, Zuppi ha scandito la frase da lasciare alla storia: «I cattolici in Italia desiderano essere protagonisti nel costruire una democrazia inclusiva, dove nessuno venga lasciato indietro». Per esempio quelli che non votano a sinistra.
Lo sguardo addomesticato è fisso su un figlio solo. Lo conferma il capo dello Stato, Sergio Mattarella, che ha portato a Trieste la sua democristianità demitiana, ammonendo la maggioranza nel Paese della dittatura delle minoranze, lasciando intendere la bocciatura del premierato, di fatto contaminando con la politique politicienne il dibattito sul cattolicesimo sociale.
Vale la pena ricordare cosa intendeva il beato Giuseppe Toniolo per Settimane sociali da lui fondate: «Sono riunioni di studio per far conoscere ai cattolici il vero messaggio sociale cristiano». Aggiungeva il cardinale Pietro Maffi (1907): «I cattolici sono chiamati a procurare a noi e ai nostri fratelli il pane del corpo, il pane della giustizia, il pane della carità, il pane della verità, il pane della virtù e il pane infinito delle anime». Non parlava del pane imburrato dall’ideologia.
Dentro la grande ansa fluviale del politicamente corretto non poteva che alzare la vela Mauro Magatti, sociologo di valore, docente all’Università Cattolica di Milano, da sempre integrato nel gotha intellettuale progressista, con un piede in San Pietro e l’altro al Nazareno.
In un editoriale sul Corriere della Sera spiega che «sarebbe fuori luogo guardare a Trieste sul piano strettamente partitico». Ma dopo aver usato lo Stradivari per incensare Emmanuel Macron («un presidente illuminato e colto, vittima del risentimento popolare»), si impegna per un paio di cartelle a dimostrare che a sinistra sta la verità perché «occorre prendere atto che la crisi strutturale del modello della globalizzazione sta facendo vincere le destre. E che gli sconfinamenti verso posizioni estreme, xenofobe e razziste, sono sempre più diffusi e legittimati».
Messaggio ricevuto. I cattolici non avranno un partito di riferimento, ma l’establishment politico, accademico e curiale sì. Eccome se ce l’ha.
È addirittura un’area che va da Carlo Calenda a Luca Casarini. Di conseguenza i fedeli entrino e scelgano dove posizionarsi, sapendo che questo è l’unico parcheggio multipiano legittimato dalla compagnia del Bene Comune. Se vanno altrove riceveranno lo stigma.
L’input è così cristallino che se n’è accorto perfino il Manifesto. Il quotidiano comunista ha pubblicato in prima pagina la messa cantata di Mattarella e di Zuppi a Trieste con il titolo «Avviso ai governanti», trasformando un presidente cattodem in purezza e un cardinalone con pantofola purpurea nelle nuove icone della revolucion operaista. Potenza della pastorale rossa. E di una Settimana sociale che invece di parlare ai cattolici li prende in ostaggio.






