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2022-04-16
Nelle serie tv spopola la passione per i truffatori
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The Dropout (Hulu)
«Catfish», «pesce gatto»: una parola e, sotteso, il mondo. Nev e Max, senza alcun cognome noto a render conto delle loro generalità, li hanno definiti così, i truffatori di Internet, piccoli omini e donne senza scrupoli, decisi – per ragioni di ego o denaro – a manipolare i single della rete. Ad abbindolarli, a far credere loro all’esistenza di un amore grande, capace di superare gli Oceani e vincere lo stigma che segna i rapporti virtuali, impalpabili. I Catfish, un lemma sul dizionario di Oxford ad accertarne l’esistenza, promettevano l’universo. A parole, però. Perché la realtà di questi piccoli truffatori, professionisti dei sentimenti finti, si reggeva su una fitta tela di appuntamenti saltati, tragedie improvvise, videocamere rotte e luoghi remoti, con un segnale tanto labile da non permettere alcuna conversazione Skype. Erano parole e poi scuse, a definire il modus operandi dei Catfish, e Nev e Max, come poliziotti, ne ricostruivano il modus operandi in un programma, Catfish, che è stato il primo a raccontare il fenomeno delle frodi, amorose ma pur sempre frodi. Il docureality di Mtv è entrato in produzione nel 2012. Negli anni, pian piano, ha perso il proprio fascino: stesse storie, stessi epiloghi, stesse, perverse personalità. Poi, nel ripetersi di schermi e cuori spezzati, un merito: aver fatto luce su un segmento di mondo che, ad oggi, sembra essere la nuova El Dorado della serialità televisiva.
Truffatori piccoli e grandi, egomaniaci vestiti da imprenditori. La televisione ha cominciato a raccontare ogni genere di imbroglio, con produzioni via via più patinate. Inventing Anna, con il suo seguito di bei vestiti e case magnifiche, con Manhattan costretta in ginocchio e blasoni dell’arte presi per i fondelli. Il Truffatore di Tinder, la storia matta di un signor nessuno. WeCrashed, l’azzardo societario di due bugiardi e, su Disney+, The Dropout, ultimo titolo di una lista ormai chilometrica.
La miniserie, online da mercoledì 20 aprile, è la storia – drammaticamente vera – di Elizabeth Holmes, venduta, nei primi anni Duemila, come artefice di una rivoluzione in ambito medico-sanitario. La Holmes, che, diciannovenne, ha fondato la start-up Theranos, avrebbe dovuto sviluppare tecnologie miracolose, capaci con metodi poco invasivi di stilare dati molto precisi sullo stato di salute del tal paziente. Una promessa che, in poco tempo, le è valsa miliardi di dollari. Elizabeth Holmes, interpretata in The Dropout da Amanda Seyfried, ha portato la sua Theranos ad una quotazione di dieci miliardi di dollari. Ma la rapida conquista della vetta non ha fatto altro che renderne più tragica e fatale la caduta. La ragazza, promessa di un mondo che è si è rivelato aleatorio, è stata accusata di frode e, portata davanti al Tribunale della California, giudicata colpevole di quattro capi d’accusa. La sentenza è arrivata a gennaio e, in tempo record, è servita perché Netflix vi costruisse sopra la propria serie. Una serie che, come le tante simili che l’hanno preceduta, sembra destinata a conquistare il grande pubblico. Perché i truffatori piacciono. Piace constatare come l’uomo senza qualità possa scoprirsi abile trasformista e, forte solo della propria, furbesca cialtroneria, ingannare i sedicenti esperti. Dà un brivido di piacere, poi, vederli fallire questi esperti, i grandi della Silicon Valley, delle borse e delle industrie.
C’è un che di libidinoso nel prendere atto della loro fallibilità, e star fermi a guardare come gente comune sia riuscita a fargliela sotto il naso. È, in un certo senso, la rivincita degli ultimi, un retro pensiero consolatorio che, nell’era di Instagram e del condividere compulsivo, pare rivendicare la bontà dell’immagine. Pare dire che la società dell’apparenza sa bastare a se stessa. A tratti, prevalere sulla società concreta, il mondo reale contro il mondo virtuale: una battaglia epica, nella quale chiunque può provare ad essere quel che vuole. E chissà che, come su Instagram, questa mera manifestazione della volontà basti a creare carriere milionarie e seguiti monstre.
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The Dropout e il fenomeno delle frodi: su Disney+ esce il 20 aprile l'ennesima serie tv a tema truffa. È il caso (vero) di una start-up che ha frodato i propri investitori. È la quarta dopo Inventing Anna, Il truffatore di Tinder e WeCrashed.«Catfish», «pesce gatto»: una parola e, sotteso, il mondo. Nev e Max, senza alcun cognome noto a render conto delle loro generalità, li hanno definiti così, i truffatori di Internet, piccoli omini e donne senza scrupoli, decisi – per ragioni di ego o denaro – a manipolare i single della rete. Ad abbindolarli, a far credere loro all’esistenza di un amore grande, capace di superare gli Oceani e vincere lo stigma che segna i rapporti virtuali, impalpabili. I Catfish, un lemma sul dizionario di Oxford ad accertarne l’esistenza, promettevano l’universo. A parole, però. Perché la realtà di questi piccoli truffatori, professionisti dei sentimenti finti, si reggeva su una fitta tela di appuntamenti saltati, tragedie improvvise, videocamere rotte e luoghi remoti, con un segnale tanto labile da non permettere alcuna conversazione Skype. Erano parole e poi scuse, a definire il modus operandi dei Catfish, e Nev e Max, come poliziotti, ne ricostruivano il modus operandi in un programma, Catfish, che è stato il primo a raccontare il fenomeno delle frodi, amorose ma pur sempre frodi. Il docureality di Mtv è entrato in produzione nel 2012. Negli anni, pian piano, ha perso il proprio fascino: stesse storie, stessi epiloghi, stesse, perverse personalità. Poi, nel ripetersi di schermi e cuori spezzati, un merito: aver fatto luce su un segmento di mondo che, ad oggi, sembra essere la nuova El Dorado della serialità televisiva. Truffatori piccoli e grandi, egomaniaci vestiti da imprenditori. La televisione ha cominciato a raccontare ogni genere di imbroglio, con produzioni via via più patinate. Inventing Anna, con il suo seguito di bei vestiti e case magnifiche, con Manhattan costretta in ginocchio e blasoni dell’arte presi per i fondelli. Il Truffatore di Tinder, la storia matta di un signor nessuno. WeCrashed, l’azzardo societario di due bugiardi e, su Disney+, The Dropout, ultimo titolo di una lista ormai chilometrica. La miniserie, online da mercoledì 20 aprile, è la storia – drammaticamente vera – di Elizabeth Holmes, venduta, nei primi anni Duemila, come artefice di una rivoluzione in ambito medico-sanitario. La Holmes, che, diciannovenne, ha fondato la start-up Theranos, avrebbe dovuto sviluppare tecnologie miracolose, capaci con metodi poco invasivi di stilare dati molto precisi sullo stato di salute del tal paziente. Una promessa che, in poco tempo, le è valsa miliardi di dollari. Elizabeth Holmes, interpretata in The Dropout da Amanda Seyfried, ha portato la sua Theranos ad una quotazione di dieci miliardi di dollari. Ma la rapida conquista della vetta non ha fatto altro che renderne più tragica e fatale la caduta. La ragazza, promessa di un mondo che è si è rivelato aleatorio, è stata accusata di frode e, portata davanti al Tribunale della California, giudicata colpevole di quattro capi d’accusa. La sentenza è arrivata a gennaio e, in tempo record, è servita perché Netflix vi costruisse sopra la propria serie. Una serie che, come le tante simili che l’hanno preceduta, sembra destinata a conquistare il grande pubblico. Perché i truffatori piacciono. Piace constatare come l’uomo senza qualità possa scoprirsi abile trasformista e, forte solo della propria, furbesca cialtroneria, ingannare i sedicenti esperti. Dà un brivido di piacere, poi, vederli fallire questi esperti, i grandi della Silicon Valley, delle borse e delle industrie.C’è un che di libidinoso nel prendere atto della loro fallibilità, e star fermi a guardare come gente comune sia riuscita a fargliela sotto il naso. È, in un certo senso, la rivincita degli ultimi, un retro pensiero consolatorio che, nell’era di Instagram e del condividere compulsivo, pare rivendicare la bontà dell’immagine. Pare dire che la società dell’apparenza sa bastare a se stessa. A tratti, prevalere sulla società concreta, il mondo reale contro il mondo virtuale: una battaglia epica, nella quale chiunque può provare ad essere quel che vuole. E chissà che, come su Instagram, questa mera manifestazione della volontà basti a creare carriere milionarie e seguiti monstre.
Il viceministro degli Esteri israeliano Sharren Haskel (MFA/Mordehai Gordon)
Viceministro, la pace sembra essere ancora molto lontana in Medioriente.
«La situazione è particolarmente complessa e stiamo lavorando in patria e all’estero per garantire la sicurezza dei cittadini israeliani e di tutti gli ebrei. A Gaza, Hamas non vuole consegnare le armi, bloccando l’inizio della Fase 2, ma la nostra pazienza ha un limite. Nella Striscia serve sicurezza e democrazia, due cose che Hamas combatte da sempre. Io personalmente non ho nessuna fiducia negli attuali leader palestinesi: molti di loro fanno dichiarazioni in arabo contro Israele e poi in inglese si fingono democratici. Glorificano i terroristi e fomentano la violenza. E così fanno solo il male dei palestinesi».
Il presidente statunitense, Donald Trump, vuole inserire anche l’Italia nel cosiddetto Consiglio di pace per Gaza.
«Siamo assolutamente favorevoli a coinvolgere l’Italia. Abbiamo grande fiducia sia nei militari che nei politici italiani. Il governo di Roma si sta adoperando per raggiungere la pace e io personalmente conosco il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e ne apprezzo la grande capacità diplomatica. Siamo però molto delusi da alcune nazioni europee come la Spagna e l’Irlanda, che hanno deciso di riconoscere la Palestina. Questo riconoscimento non è niente, non esiste e non ha senso che esista. Si tratta di un gravissimo errore politico, non fanno altro che riconoscere Hamas e i suoi crimini. Dopo aver rapito, stuprato e ucciso civili innocenti, i terroristi ne escono rafforzati perché vengono premiati da questi Paesi».
Anche il confine settentrionale resta problematico.
«Non ci fidiamo assolutamente del nuovo regime in Siria. Abu Muhamnad Al Jolani, lo chiamo ancora così perché resta un pericoloso jihadista che ha buttato la tunica e indossato la cravatta, sta uccidendo le minoranze, dagli alawiti ai cristiani, ma soprattutto i drusi che Israele ha deciso di difendere. I drusi israeliani sono parte integrante della nostra società, servono nell’Idf come soldati e sono cittadini a tutti gli effetti. I loro fratelli siriani vengono massacrati solo perché sono una minoranza e noi non lo permetteremo. Hezbollah rimane un pericolo per Israele anche se la sua forza è diminuita, ma grazie ai crimini che commettono con il traffico di droga e armi dal Sud America presto torneranno a essere un pericolo. Stiamo facendo pressioni sul governo libanese perché acceleri il disarmo di Hezbollah, che ancora non è stato fatto nonostante sia ufficialmente iniziato ad agosto. Il presidente del Libano, Joseph Aoun, ha promesso che l’esercito nazionale avrà il monopolio della forza, ma deve ancora dimostrarlo».
L’attentato contro la comunità ebraica a Bondi Beach, in Australia, ha portato l’attenzione ai massimi livelli e l’ambasciatore d’Israele a Roma, Jonathan Peled, ha dichiarato che gli ebrei non si sentono sicuri neanche in Italia.
«Con il governo di Roma c’è una stretta e proficua collaborazione e sappiamo che cerca di garantire sempre la sicurezza degli ebrei in Italia. Ma le parole del nostro ambasciatore derivano dalle manifestazioni che ci sono state nel vostro Paese, dove abbiamo visto molti episodi di antisemitismo, che vanno condannati con maggiore determinazione. Il sostegno alla causa della Palestina è soltanto una scusa per attaccarci e per questo motivo serve particolare attenzione per gli ebrei in tutto il mondo. Israele combatte molti nemici, ma il più pericoloso rimane il pregiudizio nei nostri confronti, che nella storia ha causato tante tragedie».
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Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 17 dicembre con Flaminia Camilletti
Ansa
«La polizia aveva l’incarico di essere presente durante il festival», ha spiegato Minns a Sky News Australia. «Da quanto mi risulta, c’erano due agenti nel parco all’inizio della sparatoria. Altri erano nelle vicinanze e un’auto è arrivata poco dopo». Parole che hanno alimentato ulteriormente le polemiche: come si può ritenere adeguata una simile presenza in un contesto di allerta elevata e con un pubblico così numeroso?
Con il passare delle ore, intanto, emergono nuovi elementi sul profilo degli attentatori, Sajid Akram, 50 anni, e suo figlio Naveed, 24. I due hanno aperto il fuoco durante la celebrazione di Hanukkah, colpendo indiscriminatamente i presenti prima di essere neutralizzati: Sajid è morto durante l’azione, mentre Naveed è rimasto gravemente ferito, è sopravvissuto e ieri si è svegliato dal coma. Lontani dall’immagine stereotipata del terrorista clandestino, i due conducevano una vita apparentemente ordinaria. Sajid Akram gestiva un piccolo esercizio di frutta e verdura, mentre Naveed lavorava come operaio fino a pochi mesi fa e, già nel 2019, era finito sotto osservazione delle forze dell’ordine per frequentazioni con ambienti radicalizzati legati a una moschea estremista di Sydney, gravitanti attorno alla figura di Isaak El Matari, jihadista australiano noto agli apparati di sicurezza. Una svolta delle indagini è arrivata ieri quando fonti dell’antiterrorismo hanno riferito all’Abc che Naveed Akram è un seguace di Wisam Haddad, predicatore salafita ferocemente antisemita di Sydney apertamente schierato su posizioni pro Isis, del quale vi abbiamo parlato ieri. Haddad, attraverso i suoi legali, ha immediatamente respinto ogni accusa di coinvolgimento diretto nell’attacco.
Sul fronte internazionale, Nuova Delhi ha fatto sapere che Sajid Akram era nato a Hyderabad ed era arrivato in Australia nel 1998 con un visto per motivi di studio. Pur avendo fatto ritorno in India solo poche volte, aveva mantenuto la cittadinanza indiana. Naveed, invece, nato a Sydney nel 2001, è cittadino australiano. Secondo le autorità indiane, Sajid non avrebbe più intrattenuto rapporti con il Paese d’origine. Un altro tassello chiave riguarda il recente viaggio dei due uomini nelle Filippine. Le autorità australiane hanno confermato che padre e figlio hanno trascorso l’intero mese di novembre a Mindanao, indicando come meta finale la città di Davao. Sono rientrati il 28 novembre via Manila, prima di fare ritorno a Sydney. Mindanao è da decenni teatro di insurrezioni armate e ospita gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda e, in misura minore, allo Stato Islamico. «Le ragioni del viaggio e le attività svolte restano oggetto di indagine», ha precisato il commissario di polizia del New South Wales, Mal Lanyon.
La mattina dell’attacco, i due avrebbero detto ai familiari di voler andare a pescare. In realtà si sono diretti in un appartamento preso in affitto, dove avevano accumulato armi acquistate legalmente e ordigni artigianali, poi disinnescati dagli artificieri.
Il premier australiano, Antony Albanese, ha attribuito il movente all’ideologia dello Stato Islamico, citando il ritrovamento di bandiere dell’Isis. Eppure, a differenza di altri attentati, l’organizzazione jihadista non ha rivendicato l’azione. Contrariamente a quanto si tende a credere lo Stato islamico non è una sigla simbolica aperta a chiunque decida di agire in suo nome. È - e continua a essere, nonostante la perdita del controllo territoriale in Siria e Iraq - un’organizzazione strutturata, dotata di una rigida catena di comando, di regole operative precise e di una dottrina definita sulla legittimità delle azioni armate. Proprio per questo motivo l’Isis non rivendica mai attentati compiuti da singoli individui non inseriti in una rete riconosciuta.
Sempre ieri è stato diffuso un video registrato da una dashcam, trasmesso da 7News, che mostra una violenta colluttazione tra Sajid Akram e un uomo in maglietta viola nei pressi di un ponte pedonale, poco prima dell’inizio della sparatoria. L’uomo e la donna presenti nella scena sono stati identificati come Boris e Sofia Gurman, coppia ebreo-russa residente a Bondi. Boris, 69 anni, e Sofia, 61, sono stati i primi a perdere la vita. Il loro tentativo disperato di fermare gli attentatori avrebbe però rallentato l’azione, contribuendo a salvare altre vite. Un dettaglio che restituisce tutta la drammaticità di una tragedia segnata dalle incredibili falle nella sicurezza.
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Mohamed Shahin (Ansa)
Lo scorso 24 novembre, il Viminale aveva disposto l’espulsione dell’imam, denunciandone il «ruolo di rilievo in ambienti dell’islam radicale, incompatibile con i principi democratici e con i valori etici che ispirano l’ordinamento italiano» e definendolo «messaggero di un’ideologia fondamentalista e antisemita», oltre che «responsabile di comportamenti che costituiscono una minaccia concreta attuale e grave per la sicurezza dello Stato». Il ministero dell’Interno si era mosso dopo che Shahin, alla manifestazione pro Pal del 9 ottobre, si era dichiarato «d’accordo» con le stragi del 7 ottobre 2023, da lui definite una «reazione all’occupazione israeliana dei territori palestinesi». Parole che, a giudizio della Procura torinese, rappresentano l’«espressione di un pensiero che non integra gli estremi di reato».
Lunedì, il verdetto che lo ha liberato dal Cpr siciliano - l’uomo è stato trasferito in una località segreta del Nord - è stato accompagnato da una polemica sul suo dossier, reso top secret dal dicastero. Ciò non ha impedito ai giudici di «prendere atto» di «elementi nuovi», rispetto a quelli disponibili alla convalida del trattenimento. Tra essi, l’immediata archiviazione del procedimento per le frasi sugli attacchi di Hamas. Inoltre, per le toghe, pur avendo partecipato a un blocco stradale, il 17 maggio scorso, nel comportamento dell’imam non si ravvisava alcun «fattore peculiare indicativo di una sua concreta e attuale pericolosità». E i suoi «contatti con soggetti indagati e condannati per apologia di terrorismo», recitava la nota della Corte, «sono isolati e decisamente datati», «ampiamente spiegati e giustificati». Un cittadino modello.
In realtà, scavando, si appura che i controversi legami di Shahin, ancorché «datati» e «giustificati», sono comunque inquietanti. Secondo quanto risulta alla Verità, nel 2012, quest’individuo bene «integrato» sarebbe stato fermato dalla polizia di Imperia assieme a Giuliano Ibrahim Delnevo. Chi era costui? Uno studente genovese di 23 anni, convertito all’islam e ucciso nel 2013 in Siria, dove stava combattendo con i ribelli di Al Nusra, affiliata ad Al Qaida. Sempre nel 2012, l’imam fu immortalato nella foto che pubblichiamo qui accanto, al fianco di Robert «Musa» Cerantonio, il «jihadista più famoso d’Australia» - in Australia si è appena consumata la mattanza di ebrei - condannato nel 2019. Cerantonio fu ripreso anche davanti a San Pietro con la bandiera nera dell’Isis. Minacciò: «Distruggeremo il Vaticano». Cinque anni più tardi, nell’ambito delle indagini su un musulmano radicalizzato a Torino, Halili Elmahdi, sarebbe stata registrata una conversazione nella quale il sospettato consigliava a un’altra persona di rivolgersi a Shahin. Intendiamoci: Halili Elmahdi era considerato il «filosofo dell’Isis» ed evocava il «martirio» e la «guerra santa» come unica via per «i buoni musulmani». Se i contatti di Shahin sono datati, forse c’è una ragione che non ha per forza a che fare con la svolta moderata dell’imam di Torino: Delnevo è morto 12 anni fa; Elmahdi è rimasto in carcere fino al 2023.
Ieri, a 4 di sera su Rete 4, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, caustico verso certe sentenze «fantasiose», frutto di un «condizionamento ideologico», ha confermato i «segnali di vicinanza di Shahin a soggetti pericolosi», andati «a combattere in scenari di guerra come quello della Siria». Era il caso di Delnevo, appunto. Alla domanda se l’imam fosse pericoloso, Piantedosi ha risposto che «lo era per gli analisti, per gli operatori, per le cose che avevamo agli atti». Non per i giudici. La cui decisione «ci amareggia, perché vanifica il lavoro che c’è dietro, degli operatori di polizia che finora hanno tenuto immune il nostro Paese dagli attentati terroristici».
È questo il nocciolo della questione. Giorgia Meloni, lunedì, ha usato toni durissimi: «Qualcuno mi può spiegare come facciamo a difendere la sicurezza degli italiani», ha tuonato, «se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici?». Nell’esecutivo serpeggia autentica preoccupazione. La Verità ha appreso che, da quando a Palazzo Chigi si è insediata la Meloni, sono stati espulsi dall’Italia ben 215 islamici radicalizzati. In pratica, uno ogni cinque giorni. È questa vigilanza, associata al lavoro di intelligence, che finora ha preservato il nostro Paese. La magistratura applica le norme, bilanciando gli interessi legittimi. Ed è indipendente. Ma sarebbe bene collaborasse a tutelare l’incolumità della gente comune. Ad andare troppo per il sottile, si rischia di finire come il Regno Unito, dove i tribunali islamici amministrano una giustizia parallela, basata sul Corano. Per adesso, lo spirito è un altro: l’Anm del Piemonte si è preoccupata solo delle «esternazioni di alcuni membri del governo» e dell’«attività di dossieraggio riscontrata anche nell’ambito di plurimi social network» sui giudici che hanno liberato il predicatore, ai quali l’associazione ha manifestato «piena e incondizionata solidarietà».
Ieri sera, l’imam di Torino ha auspicato di poter «portare avanti quel progetto di integrazione e inclusione, di condivisione di valori positivi e di vita pacifica, di fede e di dialogo, intrapreso tanti anni fa». Ma per lui, la partita giudiziaria non è chiusa. Il Viminale ha annunciato ricorso contro la liberazione dal Cpr. Lunedì ci sarà un’udienza al Tar del Lazio sull’annullamento del decreto di espulsione di Piantedosi. Gli avvocati di Shahin hanno impugnato anche la revoca del permesso di soggiorno di lungo periodo davanti al Tar del Piemonte; se ne riparlerà a gennaio. Infine, c’è la richiesta di protezione internazionale avanzata dall’imam. La Commissione territoriale di Siracusa l’aveva respinta, ma il tribunale di Caltanissetta ha sospeso il pronunciamento alla luce dalla «complessità della vicenda in esame». Un bel paradosso: dovremmo dare asilo a uno che officia i matrimoni plurimi? Altro che pro Pal: in piazza ci vorrebbero le femministe.
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