True
2022-07-23
«Resident evil», la serie ha deluso gli amanti del videogame
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Un paradosso, di quelli moderni, più facili da digerire di quanto non lo sia Zenone con la logica assurda della sua tartaruga, della gara vinta con Achille, piede rapido. Resident Evil, ultimo adattamento del videogioco omonimo, ha preso le sembianze di una serie televisiva. Netflix l’ha rilasciata il 14 luglio scorso, e non uno – fra coloro che si siano dati la pena di guardarla per intero – sembra essere riuscito ad apprezzarla. Un orrore, un disastro, incapace di restituire dignità al videogame. Resident Evil è quanto di peggio sia stato tratto dalla saga videoludica. Eppure, online, figura al primo posto fra le serie più viste del momento. Prima, di Stranger Things, prima di Mare Fuori e Peaky Blinders. È prima e basta, non in Italia, ma nel mondo: Regno Unito, Australia, Stati Uniti. Resident Evil, la versione peggiore che sia mai stata ispirata dal videogioco della Capcom, sviluppato nel 1996 per una PlayStation che allora contava appena due anni di vita, ha battuto ogni rivale potenziale, quantomeno nelle classifiche basate sul numero totale di visualizzazioni. È stata vista e rivista, e poi rivista ancora, a dispetto delle tante recensioni che, online, ancora invitano i fan a tenersene alla larga. E tanto ha fatto da essere riuscita a compiere un giro completo, il grande paradosso dei fenomeni virali: così brutta da diventare, per assurdo, una «chicca», la serie da vedere, fosse anche solo per parlarne male.
Resident Evil, come già altre serie prima di lei, altri programmi televisivi, ha preso il pubblico per qualcosa che non ha nome, localizzato in qualche dove fra la testa e la pancia. Quasi, ha indetto una gara, fra questo pubblico internettiano. Il gioco sembra chiaro: guardarla per riderne, nella corsa frenetica al tweet più spietato, alla recensione più pungente. Rotten Tomatoes, Twitter, Imdb. I siti specializzati sono ormai stracolmi di voti miseri, da insufficienza piena, e critiche perfide. Nulla, di Resident Evil, è stato risparmiato, nemmeno il tentativo di fare ironia sugli aspetti caratteristici di questo nostro presente tecnologico. Le battute su Pornhub (infelici, a onor del vero), i riferimenti al cinema d’animazione, i riferimenti raffazzonati al Covid-19. Gli spettatori, come studenti ligi degli orrori televisivi, hanno preso nota di ogni piccola e grande bruttura, e su Internet hanno pontificato. La trama di Resident Evil, una rilettura di quel che il videogioco offriva, è stata sezionata con minuzia. Due linee temporali, il 2022 e il 2036, sono state individuate, e con loro due sorelle quattordicenni, figlie di Albert Wesker, eminenza grigia di una multinazionale chiamata Umbrella Corporation. Poi, la produzione del Virus T, la sua rapida diffusione e la decimazione della popolazione mondiale, composta nel 2036 da quindici milioni di persone e sei miliardi di zombie. Resident Evil, come le disamine dei fan si sono premurate di sottolineare, sulla carta, avrebbe potuto avvicinarsi alle atmosfere del videogioco. Ma qualcosa, fra il dire potenziale e il fare reale, si è interrotto. I dialoghi, sciapi, non sono stati capaci di ricreare l’atmosfera distopica e apocalittica della saga. La serie, pur aperta alla contemporaneità, non ha saputo parlar di virus, aggiungere qualcosa di nuovo e brillante ad una narrazione che, in due anni di pandemia, ciascuno spettatore ha finito per conoscere fin troppo bene. I personaggi si sono rivelati macchiettistici, la serie piena di cliché. Ed è stato proprio così, come hanno detto online gli spettatori delusi. È stato brutto e triste testimoniare l’involuzione di Resident Evil, ma oltre la tristezza e la bruttura, l’esperienza di visione ci ha dato altro: una sensazione di straniamento, la stessa che si prova ogni volta, quando prodotti scadenti riescono a rompere le regole di merito, avviluppare gli spettatori nella dinamica perversa del guardo-dunque-sono e vivere, noncuranti del loro aspetto sciatto, in cima alle liste di gradimento.
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L'ultimo adattamento del videogioco omonimo, ha preso le sembianze di una serie televisiva. Netflix l’ha rilasciata il 14 luglio scorso, e non uno – fra coloro che si siano dati la pena di guardarla per intero – sembra essere riuscito ad apprezzarla.Un paradosso, di quelli moderni, più facili da digerire di quanto non lo sia Zenone con la logica assurda della sua tartaruga, della gara vinta con Achille, piede rapido. Resident Evil, ultimo adattamento del videogioco omonimo, ha preso le sembianze di una serie televisiva. Netflix l’ha rilasciata il 14 luglio scorso, e non uno – fra coloro che si siano dati la pena di guardarla per intero – sembra essere riuscito ad apprezzarla. Un orrore, un disastro, incapace di restituire dignità al videogame. Resident Evil è quanto di peggio sia stato tratto dalla saga videoludica. Eppure, online, figura al primo posto fra le serie più viste del momento. Prima, di Stranger Things, prima di Mare Fuori e Peaky Blinders. È prima e basta, non in Italia, ma nel mondo: Regno Unito, Australia, Stati Uniti. Resident Evil, la versione peggiore che sia mai stata ispirata dal videogioco della Capcom, sviluppato nel 1996 per una PlayStation che allora contava appena due anni di vita, ha battuto ogni rivale potenziale, quantomeno nelle classifiche basate sul numero totale di visualizzazioni. È stata vista e rivista, e poi rivista ancora, a dispetto delle tante recensioni che, online, ancora invitano i fan a tenersene alla larga. E tanto ha fatto da essere riuscita a compiere un giro completo, il grande paradosso dei fenomeni virali: così brutta da diventare, per assurdo, una «chicca», la serie da vedere, fosse anche solo per parlarne male. Resident Evil, come già altre serie prima di lei, altri programmi televisivi, ha preso il pubblico per qualcosa che non ha nome, localizzato in qualche dove fra la testa e la pancia. Quasi, ha indetto una gara, fra questo pubblico internettiano. Il gioco sembra chiaro: guardarla per riderne, nella corsa frenetica al tweet più spietato, alla recensione più pungente. Rotten Tomatoes, Twitter, Imdb. I siti specializzati sono ormai stracolmi di voti miseri, da insufficienza piena, e critiche perfide. Nulla, di Resident Evil, è stato risparmiato, nemmeno il tentativo di fare ironia sugli aspetti caratteristici di questo nostro presente tecnologico. Le battute su Pornhub (infelici, a onor del vero), i riferimenti al cinema d’animazione, i riferimenti raffazzonati al Covid-19. Gli spettatori, come studenti ligi degli orrori televisivi, hanno preso nota di ogni piccola e grande bruttura, e su Internet hanno pontificato. La trama di Resident Evil, una rilettura di quel che il videogioco offriva, è stata sezionata con minuzia. Due linee temporali, il 2022 e il 2036, sono state individuate, e con loro due sorelle quattordicenni, figlie di Albert Wesker, eminenza grigia di una multinazionale chiamata Umbrella Corporation. Poi, la produzione del Virus T, la sua rapida diffusione e la decimazione della popolazione mondiale, composta nel 2036 da quindici milioni di persone e sei miliardi di zombie. Resident Evil, come le disamine dei fan si sono premurate di sottolineare, sulla carta, avrebbe potuto avvicinarsi alle atmosfere del videogioco. Ma qualcosa, fra il dire potenziale e il fare reale, si è interrotto. I dialoghi, sciapi, non sono stati capaci di ricreare l’atmosfera distopica e apocalittica della saga. La serie, pur aperta alla contemporaneità, non ha saputo parlar di virus, aggiungere qualcosa di nuovo e brillante ad una narrazione che, in due anni di pandemia, ciascuno spettatore ha finito per conoscere fin troppo bene. I personaggi si sono rivelati macchiettistici, la serie piena di cliché. Ed è stato proprio così, come hanno detto online gli spettatori delusi. È stato brutto e triste testimoniare l’involuzione di Resident Evil, ma oltre la tristezza e la bruttura, l’esperienza di visione ci ha dato altro: una sensazione di straniamento, la stessa che si prova ogni volta, quando prodotti scadenti riescono a rompere le regole di merito, avviluppare gli spettatori nella dinamica perversa del guardo-dunque-sono e vivere, noncuranti del loro aspetto sciatto, in cima alle liste di gradimento.
«The Hunting Wives» (Netflix)
Sophie O’Neill credeva di aver raggiunto lo status che più desiderava, quando, insieme al marito e al figlio, ha lasciato Chicago, la sua carriera, tanto invidiabile quanto fagocitante, per trasferirsi altrove: in un piccolo paesino del Texas, una bella casa nel mezzo di una comunità rurale, pacifica, placida. Credeva di aver scelto la libertà. Invece, quel nuovo inizio così atipico, lontano dai rumori della città, rivela ben presto altro, la noia, la ripetitività eterna dell'uguale. Sheila si scopre sola, triste, annoiata, di una noia che solo Margot Banks, socialite parte di una cricca segretamente conosciuta come le Mogli Cacciatrici, sa combattere. Sono i suoi rituali segreti, le feste, i ritrovi di queste donne a ridestare Sheila, restituendole la voglia di vivere che pensava aver lasciato nella ventosa Chicago. Sheila è rapita da Margot, e passa poco prima che la relazione delle due diventi qualcosa più di una semplice amicizia: un amore figlio della curiosità, della volontà di sperimentare quel che in gioventù s'è tenuto lontano. Il tutto, però, all'interno di una comunità che questo tipo di relazioni dovrebbe scongiurare. C'è il Texas repubblicano e conservatore, a far da sfondo alla serie televisiva, costruita - come il romanzo - a mezza via tra due generi. Da un lato, il dramma, l'intrigo amoroso. Dall'altro, il giallo, scoppiato nel momento in cui il corpo di un'adolescente viene trovato senza vita nell'esatto punto in cui sono solite ritrovarsi le Mogli Cacciatrici.
Allora, le strade narrative di Nido di vipere divergono. Sheila è colta nelle sue contraddizioni, specchio di una società di cui l'autrice e gli sceneggiatori cercano di cogliere l'ipocrisia. La critica sociale prosegue insieme al racconto privato di questa mamma di Chicago, coinvolta, parimenti, in un'indagine di polizia. Nega, Sheila, cerca di provare la propria innocenza. Ma il giallo fa il suo corso, e non è indimenticabile quel che è stato scritto: la storia di Sheila, il suo dramma di donna, colto tanto nell'esistenza individuale quanto in quella collettiva, non sono destinata a riscrivere le sorti della serialità televisiva. Eppure, qualcosa affascina in questa serie tv, passatempo decoroso per le vacanze imminenti.
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Ecco #DimmiLaVerità del 19 dicembre 2025. Ospite la vicecapogruppo di Fdi alla Camera Augusta Montaruli. L'argomento del giorno è: "Lo sgombero del centro sociale Askatasuna di Torino".