2021-02-16
Senza impeachment e coi dem divisi Trump ha l’assist per tornare in pista
Donald Trump (getty images)
Dopo l’assoluzione da parte del Senato, il tycoon parla del futuro: «Il viaggio per la grandezza degli Usa continuerà». Ma resta lo spettro del 14° emendamento e il rapporto controverso con una parte del GopPotrebbe tornare in campo. È quanto ha lasciato intendere Donald Trump sabato, dopo l’assoluzione ricevuta al Senato nel suo secondo processo di impeachment. «Il nostro storico, patriottico e bellissimo movimento per rendere l’America di nuovo grande è appena iniziato», ha dichiarato in un comunicato. «Nei mesi a venire», ha aggiunto, «ho molto da condividere con voi e non vedo l’ora di continuare il nostro incredibile viaggio insieme per raggiungere la grandezza americana per tutto il nostro popolo». Insomma, l’assoluzione sembrerebbe aver donato nuova linfa all’ex presidente. Un’assoluzione che, per inciso, risultava comunque abbastanza scontata. Come prevedibile, il quorum dei due terzi necessario per la condanna non è stato raggiunto. Sono infatti stati 57 i senatori a votare per condannare Trump, mentre 43 sono stati quelli favorevoli ad assolverlo. Ricordiamo che l’intento principale di questo secondo impeachment era quello di interdire l’ex presidente dai pubblici uffici: una mossa che mirava a impedire sue eventuali ricandidature. Trump resta quindi, pur nell’incertezza, al momento in pista. Ed è questa probabilmente una delle ragioni che spiegano l’ira della Speaker della Camera, Nancy Pelosi, la quale -commentando l’esito dell’impeachment- ha definito i repubblicani «codardi». Attenzione: ciò non vuol dire che la strada per l’ex presidente sia in discesa. I democratici potrebbero infatti rispolverare l’ipotesi di interdirlo attraverso una risoluzione parlamentare che invochi il quattordicesimo emendamento. Senza poi trascurare la censura permanente su Twitter e le tegole di natura giudiziaria che il diretto interessato si porta dietro (dalla procura distrettuale di Manhattan a quella di Fulton County). Resta tuttavia il fatto che, piaccia o meno, Trump non è fuori dai giochi. E le sue prossime mosse saranno da seguire attentamente sotto due aspetti. In primis, troviamo il rapporto con il Partito repubblicano: una compagine al momento più spaccata che mai. Una parte del suo establishment è infatti fermamente contraria a Trump: pensiamo ai sette senatori che hanno votato per la sua condanna (a partire da Mitt Romney) o all’ex ambasciatrice all’Onu, Nikki Haley, che -già di fatto pronta a candidarsi per il 2024- ha seccamente preso le distanze dall’ex presidente. Più ambiguo invece il capogruppo dei senatori repubblicani, Mitch McConnell, che -pur avendo definito Trump «moralmente responsabile» dell’irruzione in Campidoglio- ha comunque votato per assolverlo. Maggiormente a sostegno dell’ex presidente è invece il senatore Lindsey Graham, che ha preconizzato un futuro di Trump dentro il Partito repubblicano, per ricostruirlo. Tutto questo, nonostante nelle scorse settimane si siano rincorse voci sulla possibilità che l’ex presidente possa fondare uno schieramento autonomo: scenario non impossibile, ma per ora scarsamente probabile. Trump sa che i «terzi partiti» in America hanno ben poche chances di contare qualcosa. È quindi possibile che il ventilare una tale ipotesi sia funzionale a mettere sotto pressione l’Elefantino, visto che, secondo i sondaggi, l’ex presidente continuerebbe a godere di ampio sostegno tra la base repubblicana. Oltre che dal braccio di ferro con il suo partito, il futuro politico di Trump dipenderà anche da come si muoverà l’amministrazione Biden. Il neo presidente sta affrontando non poche difficoltà nel far approvare al Congresso il pacchetto da 1,9 trilioni di dollari contro il Covid-19. E questo non solo a causa dell’opposizione repubblicana, ma anche per dissidi tra gli stessi dem. Un provvedimento che potrebbe finire pacchetto è per esempio l’aumento del salario minimo a 15 dollari: una misura invocata dalla sinistra di Bernie Sanders, ma osteggiata dal senatore dem centrista, Joe Manchin. Un pacchetto, quello in discussione, che è stato più in generale criticato anche dal segretario al Tesoro di Bill Clinton, Larry Summers. Biden -che ha visto dimettersi sabato il vice portavoce della Casa Bianca, TJ Ducklo, per minacce e insulti a una giornalista- sta cercando di mediare. Ma, con l’esigua maggioranza parlamentare che si ritrova, sarà molto difficile (fatto salvo il non improbabile soccorso di qualche repubblicano «responsabile»: magari proprio uno dei sette che ha votato per la condanna di Trump). D’altronde, il peso preponderante della sinistra dell’Asinello è emerso in modo evidente dalla raffica di decreti che il presidente ha siglato durante i primi giorni del suo mandato. Un fattore, questo, che rischia di acuire le divisioni interne ai dem e di esporre Biden alle accuse di chi -proprio come Trump-lo ha sempre accusato di essere ostaggio della sinistra. Nodi si registrano anche sulla politica estera: a partire dall’Afghanistan, dove l’establishment clintoniano vorrebbe bloccare o quantomeno ritardare il ritiro delle truppe promosso da Trump. Il che potrebbe creare degli attriti proprio con la fazione di Sanders, notoriamente contraria alle cosiddette «guerre senza fine». Per archiviare il predecessore, Biden dovrà destreggiarsi in questo campo politicamente minato e portare presto a casa dei risultati concreti. La damnatio memoriae non solo non basta. Ma, per lui, rischia di rivelarsi addirittura controproducente.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)