2022-08-11
Segnali di Conte all’alleanza coi dem
Giuseppe Conte ed Enrico Letta (Imagoeconomica)
Giuseppi scarica su Enrico Letta tutto il peso del mancato accordo. Da «non voglio» ora dice «non ci vogliono». Apre in politica estera e fa affidamento sulla pressione dei pd del Sud. Enrico Letta non ha più scuse. La pressione sul segretario dem affinché riapra in extremis all’alleanza con il M5s è fortissima, sia dall’interno del suo partito, come raccontato dalla Verità, sia dall’esterno. La prospettiva di regalare al centrodestra decine e decine di collegi uninominali terrorizza praticamente tutta la sinistra, Letta ai suoi ha spiegato di temere una «sportellata in faccia» da Conte, ma ieri Giuseppi ha lanciato diversi segnali che i fautori dell’alleanza interpretano come aperture a una ipotesi di alleanza con il Pd. Innanzitutto, sulla politica estera, rispondendo a una domanda sulla mancata candidatura di Alessandro Di Battista: «Con Di Battista», ha detto Giuseppi a Radio 24, «ci siamo parlati francamente, su alcune questioni non siamo d’accordo, ad esempio su alcune questioni di politica internazionale non ci ritroviamo. Io ho sempre detto che non discuteremo la nostra posizione euroatlantica, ma l’importante in questi contesti è la postura politica, io non prendo ordini da Washington. Io sono l’unico leader politico che non va a Washington a prendere ordini». Conte ieri ha radicalmente cambiato anche la sua narrazione sul mancato accordo col Pd, passando dal «non voglio» al «non ci vogliono»: «Andrà così», ha spiegato Giuseppi, «perché hanno deciso così sin dall’inizio in modo del tutto irrazionale i vertici del Pd. Lo hanno fatto dando anche uno schiaffo agli elettori del Pd. Credo che i vertici del Pd che hanno deciso così», ha argomentato l’ex premier, «ne risponderanno anche al loro elettorato. Una decisione contraddittoria perché dicono no al M5s e poi lavorano con Nicola Fratoianni che ha votato 55 volte la sfiducia e con Angelo Bonelli che ha ritirato il simbolo di Europa verde alla Muroni perché ha appoggiato il governo Draghi. Hanno preferito abbracciare in un’operazione che conoscevano bene e che hanno appoggiato chi, come Luigi Di Maio e Bruno Tabacci, ha creato - in piena difficoltà e in un equilibrio precario del governo - una nuova forza politica», ha detto ancora Giuseppi, «che ha provocato uno smottamento nel precario equilibrio degli assetti di maggioranza». Conte, attenzione, non nomina mai Letta. Parla di «vertici del Pd», ma soprattutto, per la prima volta, addossa la responsabilità della rottura, e della conseguente catastrofe elettorale che incombe sugli ex giallorossi, esclusivamente ai dem. Conte in sostanza scarica su Letta l’intero peso del mancato accordo e della conseguente disfatta elettorale. Lo stesso identico discorso fanno e faranno i maggiorenti del Pd (tranne Stefano Bonaccini e Giorgio Gori, il cosiddetto «asse del nord» dei dem) alle prese con la pressione fortissima che arriva soprattutto dal centro e dal sud: decine e decine di collegi uninominali saranno vinti dal centrodestra a causa della divisione tra Pd e M5s. In regioni come la Campania, per fare un esempio, una intesa in extremis vorrebbe dire rovesciare completamente il quadro: dal cappotto del centrodestra si passerebbe alla vittoria in tutti i collegi dei giallorossi. I parlamentari uscenti a rischio non si rassegnano a restare a casa per la tigna di Letta, così come i militanti e gli elettori sono imbufaliti dall’idea di regalare sostanzialmente a Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi una maggioranza alla Camera e al Senato vicina ai 2/3 necessari per cambiare la Costituzione. Nei prossimi giorni, ci saranno altri appelli, poi il tempo scadrà e Letta dovrà iniziare a cercarsi un altro lavoro. «La leadership di Letta non è in discussione», ha detto ieri la capogruppo del Pd alla Camera, Debora Serracchiani, a Radio Capital. Traduzione: il dopo Enrico è già iniziato.
Francesco Nicodemo (Imagoeconomica)
(Ansa)
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Carlo Nordio, Matteo Piantedosi, Alfredo Mantovano (Ansa)