2022-03-18
Se non siamo (ancora) sotto l’islam diciamo grazie ai polacchi con le ali
Silvana De Mari racconta la vita di un ufficiale degli Ussari, formidabile cavalleria pesante che ebbe un ruolo decisivo nella battaglia di Vienna. Guerrieri capaci di vincere contro nemici decine di volte più numerosi.Se voi esistete, lo dovete a noi. Se siete vivi, se siete come siete lo dovete a noi, se respirate lo dovete a noi, se sapete che esiste il sole lo dovete a noi. Voi non sapete nemmeno chi siamo, sui vostri sterili e ridicoli libri di storia, in mezzo a fiumi di parole spesso non siamo nemmeno nominati. Quindi imparate i nostri nomi, ricordate la nostra storia Jakub è il nome scritto sulla mia lapide, quello che mi è stato dato al battesimo, ma io sono Jacob, questo è il nome con cui mi chiamava mia madre, questo è il nome con cui mi ha amato mia moglie. Mia madre era molto fiera che i suoi due figli avessero il nome di due apostoli, per cui, invece che con i nostri nomi polacchi Jakub e Andrzej, ci chiamava con quelli latini Jacobus e Andreas. Jacobus è diventato immediatamente Jacob. […] Sono stato un Ussaro Alato e do per scontato che molti di voi non sappiano nemmeno cosa voglia dire. Eppure voi esistete, così come siete, perché noi, gli Ussari Alati, abbiamo combattuto e abbiamo vinto a Vienna, come Giovanni d’Austria aveva vinto a Lepanto. Ho l’altissimo onore di appartenere alla nazione polacca, anche se sono nato in Ucraina: è una terra aspra e magnifica, madre amata e odiata, luogo di dolore e di luce. La mia tomba si trova in Bielorussia, altra madre detestata e diletta. La Confederazione Polacco Lituana comprendeva anche queste due terre, una nazione dagli orizzonti enormi, la maggiore potenza militare in Europa. Morire non è stato facile, chiunque vi dica il contrario vi sta mentendo, ma quando finalmente il mio corpo ha trovato la pace, la mia mente ha avuto la conoscenza totale, il primo grandissimo dono della morte: primo in ordine di tempo. Il più grande è che la morte è la porta che si apre nell’infinito e l’infinito è il nostro destino. Non temetela. Non sacrificate mai l’essere liberi al poter sopravvivere. È uno scambio assurdo, come prendere i soldi a usura: chi permette che la sua libertà sia annientata per avere salva la vita, perderà entrambe. Sono venuto al mondo nella Masseria delle Erbe Amare nel 1646. […] Se i cosacchi ucraini non avessero mai dato tutto alle fiamme, mio fratello ed io saremmo stati ricchi. I cosacchi hanno bruciato tutto e quindi, mio fratello e io, tutto quello che possedevamo erano le nostre armi e i nostri cavalli. In compenso le armi erano magnifiche e i cavalli pure, perché appartenevamo entrambi al Corpo degli Ussari Alati di Polonia e Lituania, la più potente cavalleria pesante mai esistita al mondo. In battaglia portavamo le ali, da qui il nostro nome, due impalcature di legno sulla parte posteriore dell’armatura che sostenevano, alternate a lamelle metalliche, piume di cigno bianco o, in un paio di divisioni, piume di cigno nero. […] Le ali erano la nostra gloria. Mio fratello ed io eravamo stati assegnati al confine meridionale del Regno di Polonia, l’Ucraina, la terra dei cosacchi, insidiata dai tartari. […] Noi eravamo: io, mio fratello Andreas, Stanislaw, un ussaro lituano di mezz’età, taciturno e scorbutico e Szymon. Il quarto, Szymon, era giovanissimo, al suo primo servizio di pattuglia. […] Con noi avevamo Wilk, mezzo cane e mezzo lupo. […]Le regole erano di muoversi in terra cosacca come ci saremmo mossi in terra nemica. In tutti i casi avrei preferito spararmi in un ginocchio che andare a chiedere qualcosa ai cosacchi, anche solo incontrarli era una pena infinita. Mi ricordavano mia madre. Sapevo che ero in terra nemica. […] Le razzie erano state per secoli la tragedia del confine meridionale dell’Ucraina. Non si sapeva mai quando i tartari avrebbero fatto la loro dannata razzia, quando sarebbero arrivati a bruciare una casa, uccidere gli uomini e portare via le donne e i ragazzini. Nessuno ha tenuto il conto di quanti siano i cosacchi, i polacchi e gli ebrei rubati alla loro terra ucraina per essere venduti schiavi in Crimea. Forse tre milioni dicono i libri di storia. Le razzie arrivavano tremende e inaspettate, poche volte le avevamo fermate. Eravamo però sempre riusciti a fermare le invasioni e c’eravamo riusciti per la capillare presenza delle pattuglie, giorni di gallette col contorno di qualche porcospino, in tre o quattro per volta, senza mollare mai. Le invasioni le abbiamo sempre fermate in condizioni di inferiorità numerica folle. Noi abbiamo sempre combattuto e abbiamo sempre vinto in condizioni di inferiorità numerica. A Klushino eravamo uno a cinque e abbiamo sconfitto i russi. Abbiamo anche preso Mosca. Era il 1611, lì c’era mio nonno. Torniamo ai tartari: alla prima battaglia di Chocim, nel 1621 c’era mio padre, 560 ussari alati hanno sbaragliato quasi 10.000 tra fanti e cavalieri turchi. Alla seconda battaglia di Chocim, dieci anni prima di Vienna, io avrei dovuto esserci ma non c’ero, abbiamo eliminato i tartari dalla nostra terra. La battaglia di Chocim è conosciuta come la vittoria di Chocim da parte polacca e come il massacro di Chocim da parte tartara. Noi non facevamo prigionieri. Erano tutti uomini adulti e armati ed erano venuti sulla nostra terra a conquistarla, asservirla, a ridurre in schiavitù le nostre donne, a ridurre in schiavitù i nostri bambini dopo averli castrati. Li avevamo trovati sulla nostra terra una volta, non ce li avremmo trovati una seconda. E torniamo all’estate del 1667. […] Gli avvoltoi ci guidarono su una fattoria cosacca: un gruppetto di tartari l’aveva attaccata poche ore prima. Era una masseria fortificata, una specie di minuscolo castello. Le mura possenti e il portone enorme avevano fermato gli aggressori, una decina. Una mezza dozzina di uomini si era fatto sorprendere in mezzo ai campi e ora le loro teste erano posate su altrettanti pali davanti al portone. […] La cosa da fare era andare immediatamente a dare l’allarme, senza disperderci in combattimenti che nessuno ci aveva ordinato e nemmeno richiesto. Dovevamo difendere l’Ucraina dai tartari, noi stessi dai cosacchi ucraini e, in tutto questo, cercare di non farci ammazzare. Ero il figlio di una madre assassinata dai cosacchi. Ero disposto ad andare alla morte per la Polonia, ma l’idea di farmi ammazzare per i cosacchi mi sembrava un tradimento. Il regno di Polonia includeva l’Ucraina ormai da generazioni. Io ne avrei fatto a meno e credo che anche il re ne avrebbe fatto a meno, potendo scegliere, ma non poteva scegliere nemmeno lui. Contrariamente a tutti gli altri, imperatore d’Austria, zar di tutte le Russie e re di Francia, che facevano quello che volevano, ché tanto nessuno fiatava, il re dei Polacchi doveva passare da un’elezione e doveva dar conto al Sejm, un dannato parlamento, un micidiale assembramento di litigiosi nobili che poteva bloccare qualsiasi cosa. Bastava un unico voto contrario, che non si poteva fare niente. Ai nobili l’Ucraina serviva, perché la spremevano come si spreme una terra di servi. A spremerla mandavano come esattori gli ebrei, che sapevano leggere e scrivere e quindi anche far di conto, e quello dell’esattore è sempre un lavoro che porta fiumi di odio. […] Se sei un esattore di tasse mostruose che un branco di nobili avvoltoi sta spremendo alla terra ucraina, allora l’odio diventa mostruoso. Quando l’oppressione superava i limiti, i cosacchi insorgevano: bruciavano le chiese, ammazzavano i polacchi, bruciavano le sinagoghe, ammazzavano gli ebrei, fino a quando l’esercito polacco arrivava a rimettere ordine e queste sono le rivolte cosacche. […] Poi tutto si è disgregato e poi si è ricostruito, per disgregarsi ancora e ancora ricostruirsi. Il regno di Polonia è finito, ci sono state altre nazioni, altre guerre. L’Ucraina ha avuto la carestia di Stalin, sei milioni di morti, roba da rimpiangere le rivolte cosacche, poi abbiamo avuto l’occupazione nazista, un altro tripudio di sangue e di fango, il burrone di Babij Jar si è riempito di vite spezzate: abbiamo rimpianto i tartari. Alla fine la Stella dell’Assenzio ha brillato. Chernobyl in ucraino vuol dire erba amara, assenzio. È scritto sul libro dell’Apocalisse: brillerà la Stella dell’Assenzio e un terzo delle acque saranno avvelenate. La Stella dell’Assenzio ha brillato quando il reattore è esploso e, dopo essere esploso, il reattore numero quattro ha sviluppato una sfolgorante luce color lampone, sembrava una stella che brillava sul suolo invece che in cielo. Isotopi radioattivi hanno contaminato un terzo delle acque del globo. I bambini sono nati senza gambe e con un occhio solo in mezzo alla fronte, per morire di leucemia e sarcoma prima dei dieci anni: questo nemmeno i cosacchi e i tartari erano riusciti a farlo, nemmeno Stalin e nemmeno Hitler. […] Torniamo all’estate del 1667. […] I tartari erano seduti a mangiare di fianco ai pali con le teste mozzate. I loro cavalli erano legati all’ombra di un frutteto, molto lontani da loro. Nessuna sentinella. […] Wilk guaì e ringhiò. Guardai meglio: c’era anche un impalato. Era dietro al pozzo, bisognava spostarsi leggermente per vederlo. Lo indicai agli altri, mio fratello che si era già avviato, tornò indietro, il cavaliere lituano imprecò. Se volete conquistare il mondo, evitate crudeltà inutili. Senza quell’impalato ce ne saremmo andati a eseguire i nostri ordini di dare l’allarme, ma con quell’uomo che agonizzava sul palo, non si discuteva. Si andava a combattere e si andava a combattere furiosi come leoni. […] Ci facemmo il segno della Croce. «Sancta Dei Genetrix Regina Poloniae», cominciai. «Ora pro nobis», finirono gli altri, uno dopo l’altro. Ultima, forte e furiosa, arrivò la voce di Andreas. Per noi quelle parole avevano un significato particolare. «Jesus Maria», gridai quando tutti furono pronti, spronando il cavallo, gli altri lo ripeterono. Era il nostro grido di battaglia. A Vienna il 12 settembre 1683 è risuonato per tremila volte, per questo voi esistete.
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