
Dopo aver snobbato la Supercoppa italiana, la monarchia di Riad ha mandato a monte pure quella turca, impedendo alle finaliste di celebrare Atatürk. L’Uefa punta a intascare i petroldollari, ma così svende il calcio a chi usa lo sport solo per ripulirsi l’immagine.La disfida tra Uefa e Superlega somiglia alla lotta per le investiture, con nessuno dei due attori in campo, Aleksander Ceferin per la massima istituzione europea del pallone e Florentino Pérez del Real Madrid (o chi per lui), intenzionato ad andare a Canossa, in parole più semplici, ad arrendersi mostrandosi conciliante con l’altro. Attenzione però. Tra i due litiganti, tanto per cambiare, potrebbero inserirsi gli arabi con le loro suggestioni dorate. Se irrompessero nel progetto della Superlega con una valigia carica di milioni, la organizzerebbero in quattro e quattr’otto, e alle loro condizioni. Ma già oggi con la Uefa e con la Fifa i sauditi pasteggiano a datteri, miliardi e qualche capriccio feudale. Prendiamo quel che è accaduto ieri. A Riad, capitale araba, si sarebbe dovuta disputare la finale della Supercoppa turca tra Galatasaray e Fenerbahce, una delle tante partite del calcio europeo che principi e sceicchi si sono aggiudicate per foraggiare il movimento calcistico mediorientale. All’ultimo momento, però, le compagini non sono scese in campo e sono tornate a Istanbul. Il casus belli è presto detto: il divieto di ingresso sul terreno di gioco di striscioni e magliette con riferimenti al fondatore e primo presidente della Repubblica turca (di cui quest’anno ricorre il centesimo anniversario) Mustafa Kemal Atatürk, amatissimo padre della patria, alfiere di una Turchia laica, ancora oggi resistente nei suoi cardini costituzionali nonostante le tentazioni confessionali del presidente Recep Tayyip Erdogan. L’effigie di Atatürk sarebbe stata accompagnata dal suo motto «pace a casa, pace nel mondo», con riferimento alla situazione israelo-palestinese. Le autorità locali hanno giustificato il divieto, da un lato, spiegando che la richiesta di mostrare immagini non previste era giunta in ritardo, dall’altro sottolineando l’intenzione di non consentire riferimenti alla guerra nella striscia di Gaza per evitare incidenti diplomatici tra nazioni. La sfida calcistica era stata presentata come occasione di disgelo tra i due Paesi. I turchi non godono di relazioni politiche idilliache con i sauditi. Sono però popolo fiero e poco incline a mercanteggiare sulle questioni di orgoglio nazionale e hanno fatto ritorno a casa dopo aver incassato il diniego alle loro richieste. Il segretario generale del Galatasaray, Eray Yazgan, ha pure aggiunto: «Se il nostro inno non può essere cantato, non giocheremo». Morale: match rinviato a data da destinarsi. Non è la prima volta che affiorano equivoci analoghi tra le dune del deserto. Basti pensare a quel che era capitato con la nostra Supercoppa italiana, posticipata nel calendario degli eventi sauditi - si doveva giocare a inizio gennaio, si giocherà alla fine del mese - perché i principi locali pensavano di accogliere Milan, Inter, Juventus, blasoni di fama planetaria. E, invece, si sono ritrovati con i nerazzurri a fianco di Napoli, Fiorentina e Lazio. Insomma, parenti più poveri che, dicono le malelingue, hanno innescato il capriccioso disinteresse del potentato petrolifero. Il patron partenopeo, Aurelio De Laurentiis, aveva colto la palla al balzo: «Allora lascio il Napoli a casa, anche perché non abbiamo certezze sulle condizioni dei campi di gioco». Ma emiratini e sauditi sono così: turbocapitalisti quando si tratta di imbastire cospicui investimenti economici, mentre sulle altre questioni è come se fossero rimasti alla dinastia fatimide dei tempi delle crociate. Se acquistano il giochino, poi fanno quello che vogliono. La Uefa, lieta di concludere con loro affari redditizi, chiude un occhio su cotante scaramucce, a volte li chiude tutti e due. In estate Cristiano Ronaldo si è fatto il segno della croce dopo un gol nel campionato saudita: ha rischiato la galera, e mica per scherzo. James Rodríguez, reduce da una militanza nel campionato del Qatar, racconta ulteriori dettagli delle sue mille e una notte: «La vita e la cultura da quelle parti sono state molto difficili. Tutti sanno che nel calcio, sotto le docce, i giocatori sono nudi, ma io non potevo fare nemmeno quello. I miei colleghi mi hanno detto che era proibito. Ai pasti tutti mangiavano con le mani, se chiedevo le posate, mi rispondevano di no. A quel punto ho detto che non lo avrei fatto». Queste ultime sono facezie. Ma il punto è che dissentire non è consentito, la minestra si mangia per non saltare dalla finestra. Un po’ come ai recenti Mondiali, quando Uefa e Fifa hanno accettato di non esibire simboli di alcuna minoranza, persino quella lgbt, protetta con foga quasi isterica nelle partite dei campionati europei, e subito dimenticata quando i petroldollari sono giunti sul tavolo per aggiudicarsi importanti manifestazioni. Beninteso, sono tutte cose note. Ma è bene ricordarle per sottolineare quanto farebbe bene un contrappeso continentale efficiente per non consegnare il pallone europeo mani e piedi ai soli miliardari del Medio Oriente: investitori generosi, però poco amanti delle diversità democratiche. Ché dal vietare Atatürk all’impedire, per esempio, a una squadra milanese di esibire il simbolo di Milano (c’è una croce), il passo sarebbe brevissimo.
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