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2022-01-09
Sanità azzoppata e assunzioni ferme ma l’infermiera si lagna dei no vax
Martina Benedetti (Ansa)
Martina Benedetti è l’infermiera di 29 anni che sui social ha rispolverato un selfie di due anni fa, nel quale appariva con il volto segnato dalla mascherina. Un’immagine di stanchezza da super lavoro e stress in reparto Covid, oggi «usata» per criticare la multa che sarà inflitta agli over 50 ostinati nel rifiutare il vaccino. «Cento euro, il prezzo della nostra salute. Delle nostre vite. Dei sacrifici che facciamo da due anni, soprattutto noi operatori sanitari», l’ha definito in un post diventato virale, come si dice in gergo.
La giovane, che lavora al Nuovo ospedale Apuane di Massa e Carrara, lamenta che «per l’ennesima volta saremo noi frontliners a pulire tutto il fango derivante dall’assenza di decisioni forti e coraggiose. Scelte assurde che ricadranno sulle nostre schiene già gravate da due anni di fatica». Inutile aggiungere che quelle frasi sono state usate da ogni parte, per rendere ancora più odiosi i non vaccinati.
Colpevoli, secondo questo governo, di seminare contagi, di provocare la diffusione di Omicron, costretti a vaccinarsi se over 50, a perdere il lavoro se non lo faranno, privati di ogni diritto e adesso stigmatizzati perché se la caverebbero con cento euro di sanzione amministrativa. Martina ha sbagliato obiettivo, doveva prendersela con il ministero della Salute. La rabbia è un bene prezioso che non va sprecato, se il fine è farsi ascoltare per giuste motivazioni.
Il «fango» non sono i 3 milioni di non vaccinati in Italia che si fanno tamponi, sono ghettizzati, privati della loro dimensione sociale, culturale, adesso pure lavorativa e che se finiscono in ospedale hanno diritto di farsi curare dal momento che pagano le tasse. L’infermiera doveva usare parole durissime nei confronti di chi ha tradito il sistema sanitario italiano, con tagli continui e devastanti. Che c’entrano i senza dose, con le promesse non mantenute a medici e infermieri sotto organico ovunque, costretti a turni massacranti dopo due anni di promesse?
Ripresa dai media come l’eroina che tanto ha sofferto e ancora dovrà soffrire per colpa di quei miserabili che sarebbero i no vax (da «spazzare via, un dovere» secondo il senatore forzista Maurizio Gasparri), Martina ieri ha poi avuto l’onestà di dire al Tgcom24 che gli infermieri non sono eroi. «Siamo professionisti», ha precisato. Ecco, questa doveva essere la giusta affermazione di partenza. Sono tantissime le persone che da due anni non smettono di lavorare con impegno, con dedizione, con grande sacrificio, per non far collassare il Paese sotto la mal gestione sanitaria e politica.
Se mal ripagate, se inascoltate nelle loro istanze, se prese in giro e lasciate da sole «in trincea», devono reagire contro chi li ha traditi e abbandonati ad arrangiarsi, ma non smettono di essere professionisti. Non si fanno irretire, sbagliando bersaglio perché travolti dal clima di odio no vax. Tante grazie all’infermiera Martina per il suo lavoro in corsia, grazie per l’abnegazione che le venne riconosciuta anche con il premio speciale Laurentum 2020, in quanto «simbolo della straordinaria lotta dell’intero mondo sanitario contro il nemico del Covid 19» durante il periodo più difficile della pandemia.
Il suo post su Facebook, nel marzo 2020, dopo l’ennesima notte di lavoro massacrante in terapia intensiva, emozionò il mondo dei social. Quel testo è stato anche interpretato dall’attrice Sandra Tedeschi. Siamo felici che malgrado i ritmi di lavoro che denuncia, Martina abbia ripreso la sua normalità di vita trovando pure il tempo di essere tutor con la Fondazione Gimbe, dove si occupa di formazione, mostrando il suo volto non segnato da mascherine. Di certo il post dell’infermiera sarà stato molto apprezzato dal presidente di Gimbe, Nino Cartabellotta, che nello stesso giorno twittava: «Importi sanzioni. Guida senza cintura di sicurezza: sino a 323 euro; telefoni e dispositivi elettronici alla guida: da 165 a 661 euro; rifiuto vaccino obbligatorio: 100 euro».
Ieri la notizia della collaborazione della Benedetti è comparsa sui social, con tanto di link al sito di Gimbe education che organizza corsi per tutte le professioni sanitarie. Martina figura assieme ad altri colleghi, ma era l’unica di cui non era possibile consultare il Cv. Casualmente, quella pagina era stata aggiornata proprio ieri.
Non importa, la giovane fa l’infermiera e sul lavoro si occupa ancora di Covid, non solo di quello ci immaginiamo visto che i pazienti vengono ricoverati anche per altre patologie. È riuscita a pubblicare un libro sulla pandemia e «in primavera uscirà un romanzo», ha raccontato a Repubblica. «Il momento più bello? Quello del vaccino», dichiarò il 17 marzo 2021. Plurivaccinata, con soddisfazioni professionali ma anche avvilita perché medici e infermieri contano solo nell’emergenza e solo per merito loro, il simbolo della lotta al Covid poteva provarci a far vergognare questo ministero della Salute. Invece ha sprecato una bella occasione. «Vediamo nel quotidiano persone che riversano la loro frustrazione online», si è rammaricata con Repubblica. L’infermiera Benedetti non ha fatto di meglio.
Rinfaccereste le spese di ricoveri e terapie anche ai sieropositivi?
Lui è un sincero democratico, quindi auspica «una sanzione equivalente a un giorno di terapia intensiva». Siamo sui 1.500 euro, tanto per capirci. Il destinatario della multa sarebbe l’intubato no-vax sfuggito all’inoculazione. E il vigile inflessibile Agostino Miozzo, ex coordinatore del Comitato tecnico scientifico da qualche mese in astinenza da dichiarazioni napoleoniche. I riflettori si spengono per tutti, ma la fatica ad accettare le penombre è umana. Così uno dei tecnici di Giuseppe Conte epurati da Mario Draghi spara alto: «Un giorno di ricovero costa 1.500 euro, c’è chi rimane 20 giorni. Si può partire da lì». Calca la mano sulla spesa, getta addosso all’antivaccinista lo stigma del parassita e nell’intervista al Corriere della Sera finisce per auspicare: «Come sanzione bisognerebbe prevedere anche l’arresto». L’approccio da oberleutnant sulla torretta non è nuovo. Sui social è di tendenza presso il popolo dei liberal(i) di complemento come in quello dei postmarxisti piddo-grillini che fanno della tolleranza civile un valore solo il martedì e il giovedì, dopo il parrucchiere. Il no vax deve pagare e ovviamente 100 euro sono un obolo ridicolo. Lo hanno ribadito («È una buffonata») Massimo Galli, Andrea Crisanti, Matteo Bassetti. La lotta al Covid diventa una questione di soldi, danè, schei anche per chi si vanta di tenere il giuramento di Ippocrate sotto il cuscino. Aveva introdotto l’alato argomento Alessio D’Amato, assessore alla Sanità della Regione Lazio trasformato in genio da alcuni media-scendiletto prima dell’imbarazzante vicenda dei dati rubati dall’Uomo ragno o dagli hacker russi: «Chi non si vaccina deve pagare il conto». Subito sostenuto dal presidente degli anestesisti Alessandro Vergallo, che aveva quantificato in 20 milioni al mese la spesa per i non vaccinati.
Accantoniamo parole come umanità, solidarietà, resilienza (consumate sino allo sfinimento per l’uso su profughi e minoranze arcobaleno) e teniamo il punto sulla soluzione Miozzo, casualmente medico. Una semplice domanda: rinfaccereste la stessa spesa ai malati di tumore polmonare da fumo, ai diabetici, ai cronici e a chi è alle prese con malattie rare? Il paragone sarebbe terribile perché, come spiega l’Istituto Veronesi, il servizio sanitario nazionale oggi spende 16 miliardi l’anno per coprire diagnosi e cure oncologiche con i nuovi e costosissimi farmaci antitumorali. E secondo la Favo (federazione delle associazioni di volontariato in oncologia), malati e famigliari dei tre milioni di afflitti da tumore ne sborsano altri cinque di tasca loro per visite, terapie, chirurgia ricostruttiva, assistenza, spostamenti.
Per curare le malattie rare, lo Stato spende due miliardi di euro l’anno, l’1,7% della spesa sanitaria complessiva e nessuno si sogna di fare i conti in tasca ai ricoverati. E per quelle croniche, che risultano essere l’80% del totale, l’esborso è di 66 miliardi di euro (24 milioni di italiani hanno patologie varie). L’osservatorio dell’Università Cattolica, che monitora con grande cura il fenomeno, è guidato da Walter Ricciardi, uno degli esperti da virus più talebani del circo italiano. A questo punto l’obiezione dei puntigliosi è prevedibile: chi non si vaccina sceglie deliberatamente di ammalarsi o di contagiare, quindi prepari il portafoglio. Ma una simile intimazione vi sognereste mai di farla, anche sottovoce, ai malati di Aids e ai sieropositivi?
Philadelphia, Tom Hanks che si spegne lentamente, la colonna sonora di Bruce Springsteen. Parliamo esattamente di questo, di un cavallo di battaglia che negli anni 80 e 90 fu anche fortemente ideologico, sostenuto dal più destabilizzante degli slogan: «Vietato vietare». Un flagello dimenticato, non scomparso. Il sacrificio di persone che hanno sempre meritato il rispetto della stessa società che oggi, con buzzurra ferocia e la connivenza dell’intellighenzia illuminata per decreto, seppellisce i malati di Covid non vaccinati sotto i numerosi zeri del ricatto economico e del risarcimento mercantile. Come siete invecchiati male.
A costoro è bene ricordare che per ogni malato di Hiv lo Stato italiano spende 7.000 euro l’anno. E poiché la Lila (la Lega italiana per la lotta contro l’Aids) stima in 130.000 i pazienti nel 2020, l’intervento a carico del servizio sanitario è di 910 milioni. Se aggiungiamo le spese accessorie siamo al miliardo. Ogni anno, per sempre, perché le terapie non si possono interrompere. Nessuna persona dotata di equilibrio e diploma elementare di civiltà, nel 2021 in Occidente, chiederebbe mai ai malati di Aids di pagarsi le cure. Ma la barbarie del virus cinese è andata oltre e pare normale sentir risuonare il Miozzo-pensiero: «Una sanzione equivalente a un giorno di terapia intensiva». La variante Omicron ha trasformato medici di complemento in esattori delle tasse.
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L’operatrice, tutor di Gimbe, incolpa i renitenti all’iniezione per i turni massacranti in corsia. Tacendo invece sulla mancanza di personale, i tagli fatti da più governi e le promesse non mantenute in due anni di pandemia.Tutti i malati sono un costo che è giusto sostenere. Eppure i non vaccinati son definiti parassiti a cui mandare il conto.Lo speciale contiene due articoli.Martina Benedetti è l’infermiera di 29 anni che sui social ha rispolverato un selfie di due anni fa, nel quale appariva con il volto segnato dalla mascherina. Un’immagine di stanchezza da super lavoro e stress in reparto Covid, oggi «usata» per criticare la multa che sarà inflitta agli over 50 ostinati nel rifiutare il vaccino. «Cento euro, il prezzo della nostra salute. Delle nostre vite. Dei sacrifici che facciamo da due anni, soprattutto noi operatori sanitari», l’ha definito in un post diventato virale, come si dice in gergo. La giovane, che lavora al Nuovo ospedale Apuane di Massa e Carrara, lamenta che «per l’ennesima volta saremo noi frontliners a pulire tutto il fango derivante dall’assenza di decisioni forti e coraggiose. Scelte assurde che ricadranno sulle nostre schiene già gravate da due anni di fatica». Inutile aggiungere che quelle frasi sono state usate da ogni parte, per rendere ancora più odiosi i non vaccinati. Colpevoli, secondo questo governo, di seminare contagi, di provocare la diffusione di Omicron, costretti a vaccinarsi se over 50, a perdere il lavoro se non lo faranno, privati di ogni diritto e adesso stigmatizzati perché se la caverebbero con cento euro di sanzione amministrativa. Martina ha sbagliato obiettivo, doveva prendersela con il ministero della Salute. La rabbia è un bene prezioso che non va sprecato, se il fine è farsi ascoltare per giuste motivazioni. Il «fango» non sono i 3 milioni di non vaccinati in Italia che si fanno tamponi, sono ghettizzati, privati della loro dimensione sociale, culturale, adesso pure lavorativa e che se finiscono in ospedale hanno diritto di farsi curare dal momento che pagano le tasse. L’infermiera doveva usare parole durissime nei confronti di chi ha tradito il sistema sanitario italiano, con tagli continui e devastanti. Che c’entrano i senza dose, con le promesse non mantenute a medici e infermieri sotto organico ovunque, costretti a turni massacranti dopo due anni di promesse? Ripresa dai media come l’eroina che tanto ha sofferto e ancora dovrà soffrire per colpa di quei miserabili che sarebbero i no vax (da «spazzare via, un dovere» secondo il senatore forzista Maurizio Gasparri), Martina ieri ha poi avuto l’onestà di dire al Tgcom24 che gli infermieri non sono eroi. «Siamo professionisti», ha precisato. Ecco, questa doveva essere la giusta affermazione di partenza. Sono tantissime le persone che da due anni non smettono di lavorare con impegno, con dedizione, con grande sacrificio, per non far collassare il Paese sotto la mal gestione sanitaria e politica. Se mal ripagate, se inascoltate nelle loro istanze, se prese in giro e lasciate da sole «in trincea», devono reagire contro chi li ha traditi e abbandonati ad arrangiarsi, ma non smettono di essere professionisti. Non si fanno irretire, sbagliando bersaglio perché travolti dal clima di odio no vax. Tante grazie all’infermiera Martina per il suo lavoro in corsia, grazie per l’abnegazione che le venne riconosciuta anche con il premio speciale Laurentum 2020, in quanto «simbolo della straordinaria lotta dell’intero mondo sanitario contro il nemico del Covid 19» durante il periodo più difficile della pandemia. Il suo post su Facebook, nel marzo 2020, dopo l’ennesima notte di lavoro massacrante in terapia intensiva, emozionò il mondo dei social. Quel testo è stato anche interpretato dall’attrice Sandra Tedeschi. Siamo felici che malgrado i ritmi di lavoro che denuncia, Martina abbia ripreso la sua normalità di vita trovando pure il tempo di essere tutor con la Fondazione Gimbe, dove si occupa di formazione, mostrando il suo volto non segnato da mascherine. Di certo il post dell’infermiera sarà stato molto apprezzato dal presidente di Gimbe, Nino Cartabellotta, che nello stesso giorno twittava: «Importi sanzioni. Guida senza cintura di sicurezza: sino a 323 euro; telefoni e dispositivi elettronici alla guida: da 165 a 661 euro; rifiuto vaccino obbligatorio: 100 euro». Ieri la notizia della collaborazione della Benedetti è comparsa sui social, con tanto di link al sito di Gimbe education che organizza corsi per tutte le professioni sanitarie. Martina figura assieme ad altri colleghi, ma era l’unica di cui non era possibile consultare il Cv. Casualmente, quella pagina era stata aggiornata proprio ieri. Non importa, la giovane fa l’infermiera e sul lavoro si occupa ancora di Covid, non solo di quello ci immaginiamo visto che i pazienti vengono ricoverati anche per altre patologie. È riuscita a pubblicare un libro sulla pandemia e «in primavera uscirà un romanzo», ha raccontato a Repubblica. «Il momento più bello? Quello del vaccino», dichiarò il 17 marzo 2021. Plurivaccinata, con soddisfazioni professionali ma anche avvilita perché medici e infermieri contano solo nell’emergenza e solo per merito loro, il simbolo della lotta al Covid poteva provarci a far vergognare questo ministero della Salute. Invece ha sprecato una bella occasione. «Vediamo nel quotidiano persone che riversano la loro frustrazione online», si è rammaricata con Repubblica. L’infermiera Benedetti non ha fatto di meglio.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sanita-azzoppata-infermiera-no-vax-2656322985.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="rinfaccereste-le-spese-di-ricoveri-e-terapie-anche-ai-sieropositivi" data-post-id="2656322985" data-published-at="1641705500" data-use-pagination="False"> Rinfaccereste le spese di ricoveri e terapie anche ai sieropositivi? Lui è un sincero democratico, quindi auspica «una sanzione equivalente a un giorno di terapia intensiva». Siamo sui 1.500 euro, tanto per capirci. Il destinatario della multa sarebbe l’intubato no-vax sfuggito all’inoculazione. E il vigile inflessibile Agostino Miozzo, ex coordinatore del Comitato tecnico scientifico da qualche mese in astinenza da dichiarazioni napoleoniche. I riflettori si spengono per tutti, ma la fatica ad accettare le penombre è umana. Così uno dei tecnici di Giuseppe Conte epurati da Mario Draghi spara alto: «Un giorno di ricovero costa 1.500 euro, c’è chi rimane 20 giorni. Si può partire da lì». Calca la mano sulla spesa, getta addosso all’antivaccinista lo stigma del parassita e nell’intervista al Corriere della Sera finisce per auspicare: «Come sanzione bisognerebbe prevedere anche l’arresto». L’approccio da oberleutnant sulla torretta non è nuovo. Sui social è di tendenza presso il popolo dei liberal(i) di complemento come in quello dei postmarxisti piddo-grillini che fanno della tolleranza civile un valore solo il martedì e il giovedì, dopo il parrucchiere. Il no vax deve pagare e ovviamente 100 euro sono un obolo ridicolo. Lo hanno ribadito («È una buffonata») Massimo Galli, Andrea Crisanti, Matteo Bassetti. La lotta al Covid diventa una questione di soldi, danè, schei anche per chi si vanta di tenere il giuramento di Ippocrate sotto il cuscino. Aveva introdotto l’alato argomento Alessio D’Amato, assessore alla Sanità della Regione Lazio trasformato in genio da alcuni media-scendiletto prima dell’imbarazzante vicenda dei dati rubati dall’Uomo ragno o dagli hacker russi: «Chi non si vaccina deve pagare il conto». Subito sostenuto dal presidente degli anestesisti Alessandro Vergallo, che aveva quantificato in 20 milioni al mese la spesa per i non vaccinati. Accantoniamo parole come umanità, solidarietà, resilienza (consumate sino allo sfinimento per l’uso su profughi e minoranze arcobaleno) e teniamo il punto sulla soluzione Miozzo, casualmente medico. Una semplice domanda: rinfaccereste la stessa spesa ai malati di tumore polmonare da fumo, ai diabetici, ai cronici e a chi è alle prese con malattie rare? Il paragone sarebbe terribile perché, come spiega l’Istituto Veronesi, il servizio sanitario nazionale oggi spende 16 miliardi l’anno per coprire diagnosi e cure oncologiche con i nuovi e costosissimi farmaci antitumorali. E secondo la Favo (federazione delle associazioni di volontariato in oncologia), malati e famigliari dei tre milioni di afflitti da tumore ne sborsano altri cinque di tasca loro per visite, terapie, chirurgia ricostruttiva, assistenza, spostamenti. Per curare le malattie rare, lo Stato spende due miliardi di euro l’anno, l’1,7% della spesa sanitaria complessiva e nessuno si sogna di fare i conti in tasca ai ricoverati. E per quelle croniche, che risultano essere l’80% del totale, l’esborso è di 66 miliardi di euro (24 milioni di italiani hanno patologie varie). L’osservatorio dell’Università Cattolica, che monitora con grande cura il fenomeno, è guidato da Walter Ricciardi, uno degli esperti da virus più talebani del circo italiano. A questo punto l’obiezione dei puntigliosi è prevedibile: chi non si vaccina sceglie deliberatamente di ammalarsi o di contagiare, quindi prepari il portafoglio. Ma una simile intimazione vi sognereste mai di farla, anche sottovoce, ai malati di Aids e ai sieropositivi? Philadelphia, Tom Hanks che si spegne lentamente, la colonna sonora di Bruce Springsteen. Parliamo esattamente di questo, di un cavallo di battaglia che negli anni 80 e 90 fu anche fortemente ideologico, sostenuto dal più destabilizzante degli slogan: «Vietato vietare». Un flagello dimenticato, non scomparso. Il sacrificio di persone che hanno sempre meritato il rispetto della stessa società che oggi, con buzzurra ferocia e la connivenza dell’intellighenzia illuminata per decreto, seppellisce i malati di Covid non vaccinati sotto i numerosi zeri del ricatto economico e del risarcimento mercantile. Come siete invecchiati male. A costoro è bene ricordare che per ogni malato di Hiv lo Stato italiano spende 7.000 euro l’anno. E poiché la Lila (la Lega italiana per la lotta contro l’Aids) stima in 130.000 i pazienti nel 2020, l’intervento a carico del servizio sanitario è di 910 milioni. Se aggiungiamo le spese accessorie siamo al miliardo. Ogni anno, per sempre, perché le terapie non si possono interrompere. Nessuna persona dotata di equilibrio e diploma elementare di civiltà, nel 2021 in Occidente, chiederebbe mai ai malati di Aids di pagarsi le cure. Ma la barbarie del virus cinese è andata oltre e pare normale sentir risuonare il Miozzo-pensiero: «Una sanzione equivalente a un giorno di terapia intensiva». La variante Omicron ha trasformato medici di complemento in esattori delle tasse.
Friedrich Merz (Ansa)
Il dissenso della gioventù aveva provocato forti tensioni all’interno della maggioranza tanto da far rischiare la prima crisi di governo seria per Merz. Il via libera del parlamento tedesco, dunque, segna di fatto una crisi politica enorme e pure lo scollamento della democrazia tra maggioranza effettiva e maggioranza dopata. Come già era accaduto in Francia, la materia pensionistica è l’iceberg contro cui si schiantano i… Titanic: Macron prima, Merz adesso. Il presidente francese sulle pensioni ha visto la rottura dei suoi governi per l’incalzare di rivolte popolari e questo in carica guidato da Lecornu ha dovuto congelare la materia per non lasciarci le penne. Del resto in Europa non è il solo che naviga a vista, non curante della sfiducia nel Paese: in Spagna il governo Sánchez è in piena crisi di consensi per i casi di corruzione scoppiati nel partito e in casa, e pure l’accordo coi i catalani e coi baschi rischia di far deragliare l’esecutivo sulla finanziaria. In Olanda non c’è ancora un governo. In Belgio il primo ministro De Wever ha chiesto altro tempo al re Filippo per superare lo stallo sulla legge di bilancio che si annuncia lacrime e sangue. In Germania - dicevamo - il governo si è salvato per l’appoggio determinante della sinistra radicale, aprendo quindi un tema politico che lascerà strascichi dei quali beneficerà Afd, partito assai attrattivo proprio tra i giovani.
I tre voti con i quali Merz si è salvato peseranno tantissimo e manterranno acceso il dibattito proprio su una questione ancestrale: l’aumento del debito pubblico. «Questo disegno di legge va contro le mie convinzioni fondamentali, contro tutto ciò per cui sono entrato in politica», ha dichiarato a nome della Junge Union Gruppe Pascal Reddig durante il dibattito. Lui è uno dei diciotto che avrebbe voluto affossare la stabilizzazione previdenziale anche a costo di mandare sotto il governo: il gruppo dei giovani non aveva mai preso in considerazione l’idea di caricare sulle spalle delle future generazioni 115 miliardi di costi aggiuntivi a partire dal 2031.
E senza quei 18 sì, il governo sarebbe finito al tappeto. Quindi ecco la solita minestrina riscaldata della sopravvivenza politica a qualsiasi costo: l’astensione dai banchi dell’opposizione del partito di estrema sinistra Die Linke, per effetto della quale si è ridotto il numero di voti necessari per l'approvazione. E i giovani? E le loro idee?
Merz ha affermato che le preoccupazioni della Junge Union saranno prese in considerazione in una revisione più ampia del sistema pensionistico prevista per il 2026, che affronterà anche la spinosa questione dell'innalzamento dell'età pensionabile. Un bel modo per cercare di salvare il salvabile. Anche se ora arriva pure la tegola della riforma della leva: il parlamento tedesco ha infatti approvato la modernizzazione del servizio militare nel Paese, introducendo una visita medica obbligatoria per i giovani diciottenni e la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di carenza di volontari. Un altro passo verso la piena militarizzazione, materia su cui l’opinione pubblica tedesca è in profondo disaccordo e che Afd sta cavalcando. Sempre che la democrazia non deciderà di fermare Afd…
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«The Rainmaker» (Sky)
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
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