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2020-04-08
Sanders si ritira e l'establishment brinda
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Bernie Sanders (Ansa)
Si conclude così una corsa elettorale che aveva ormai preso una piega decisamente negativa. E pensare che, all'inizio, era sembrata tutta un'altra storia. Ricandidatosi dopo il fallimento del 2016, Sanders era man mano riuscito a riconquistare la leadership della sinistra, contro una miriade di contendenti. A partire da dicembre, il senatore socialista aveva iniziato a salire vertiginosamente nei sondaggi e - nel corso dei primi appuntamenti elettorali - aveva ottenuto risultati importanti, conquistando per tre volte di fila la maggioranza nel voto popolare in Iowa, New Hampshire e Nevada. Inoltre, proprio il Nevada aveva evidenziato una svolta positiva per lui, visto che - per la prima volta - si era dimostrato capace di ottenere il sostegno del voto ispanico: un voto che, nel 2016, non lo aveva invece premiato. Il primo vero campanello d'allarme si era tuttavia verificato con il Super Martedì del 3 marzo, quando - pur riuscendo ad espugnare l'importantissima California - si era ritrovato bocciato negli Stati del Sud e in alcune rilevanti aree del Nord (come il Massachusetts e il Minnesota). Nel corso del mese di marzo, la situazione è andata poi peggiorando: Sanders ha infatti rimediato una serie di sonore sconfitte, ritrovandosi battuto anche in Michigan, dove - per l'elevata presenza di colletti blu bianchi impoveriti - aveva politicamente investito moltissimo. Le richieste di un suo ritiro da parte dell'establishment democratico si sono fatte sempre più pressanti, mentre - negli ultimi giorni - pare che anche all'interno del suo stesso comitato elettorale si fossero registrate profonde divisioni. Divisioni che avranno prevedibilmente influito sulla scelta di fare un passo indietro.
Le ragioni della sconfitta di Sanders sono svariate. In primo luogo, non va trascurato che l'establishment dell'asinello si sia compattato intorno a Biden, conducendo una dura campagna denigratorio verso il senatore del Vermont. In secondo luogo, dal punto di vista elettorale, pur avendo - come detto - conquistato il voto ispanico in alcune aree, Sanders ha visto contemporaneamente una diminuzione del proprio storico elettorato bianco: un fattore che gli si è rivelato fatale soprattutto nel Settentrione. In terzo luogo, il senatore ha anche pagato alcune sue posizioni un po' troppo ideologiche. La sua ambiguità sulla Cuba castrista e il Venezuela di Nicolas Maduro gli hanno alienato le simpatie della Florida, mentre - con ogni probabilità - il suo ambientalismo potrebbe aver infastidito parte di quella classe operaia che - quattro anni fa - aveva invece votato per lui. Una classe operaia che, almeno in parte, non è escluso possa ormai essere passata stabilmente a sostenere Donald Trump. Non dimentichiamo del resto che, alle presidenziali del 2016, circa il 10% degli elettori di Sanders avesse alla fine votato per il magnate newyorchese in aree come il Wisconsin, la Pennsylvania e il Michigan. Non a caso, Trump sta nuovamente corteggiando i sandersiani e - poco dopo l'annuncio del ritiro del senatore - ha twittato: «Bernie Sanders si è ritirato. Grazie a Elizabeth Warren. Se non fosse stato per lei, Bernie avrebbe vinto quasi ogni Stato del Super Martedì! È finita come i democratici e il comitato nazionale del partito volevano, come il fiasco della corrotta Hillary. Il popolo di Bernie dovrebbe venire nel Partito Repubblicano!».
Ora, al di là del fatto che Trump cerchi di tirare acqua al proprio mulino, l'analisi non è del tutto scorretta. E' infatti senz'altro vero che l'establishment democratico abbia fatto di tutto per imporre Biden e gli endorsement che quest'ultimo ha ricevuto non si sa quanto siano effettivamente sinceri. Si pensi alla senatrice californiana, Kamala Harris, che - afroamericana - in estate aveva accusato l'ex vicepresidente di trascorsa collusione con ambienti politici segregazionisti. O alla deputata delle Hawaii, Tulsi Gabbard, che aveva impostato tutta la sua carriera politica criticando l'establishment di Washington e che adesso appoggia uno dei suoi principali rappresentanti: Biden, appunto. Si pensi poi al mancato endorsement della senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren: una (teorica) rappresentante della sinistra che si è rifiutata di conferire il suo sostegno a Sanders, quando la scelta era dicotomicamente tra un socialista e un uomo apertamente finanziato da Wall Street, come Biden. Tutto questo la dice lunga sulla consistenza della candidatura dell'ex vicepresidente. Perché sarà adesso rimasto anche da solo in corsa. Ma non è detto che politicamente vanti poi chissà quale forza.
In primo luogo, non è affatto detto che i sandersiani accetteranno di seguire Biden. Anzi, la modalità stessa con cui la sua ascesa è avvenuta porta a ritenere che molti preferiranno astenersi o tornare a votare per Trump a novembre. In secondo luogo, bisogna fare attenzione alla questione del coronavirus. L'ex vicepresidente sta faticando non poco a ritagliarsi uno spazio politico autonomo in questa crisi e - sotto il profilo mediatico-politico - continua a ritrovarsi "schiacciato" dal governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo. Ricordiamo inoltre che la maggior parte delle primarie che si devono ancora tenere avranno luogo soltanto tra svariate settimane e che - quindi - Biden sia ancora lontano dal blindare matematicamente la nomination. Anche perché Sanders potrebbe avere ancora un ruolo in questa vicenda. E un ruolo prevedibilmente non troppo amichevole verso l'ex vicepresidente. Ricordiamo che, quando alle primarie repubblicane del 1976, Ronald Reagan venne sconfitto in extremis da Gerald Ford, il primo diede al secondo il suo endorsement, ma si guardò comunque bene dal fare campagna elettorale concreta a suo favore. Risultato: Ford venne alla fine defenestrato da Jimmy Carter nel novembre di quell'anno. Il vecchio Bernie, insomma, potrebbe avere ancora qualcosa da dire. E Trump non aspetta altro.
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Alla fine ha gettato la spugna. Bernie Sanders si è ritirato dalle primarie democratiche, lasciando così campo libero al rivale, Joe Biden. Per quanto non potesse ancora definirsi matematicamente sconfitto nella disfida dei delegati, il senatore del Vermont - per rimontare - avrebbe dovuto riportare clamorose vittorie negli appuntamenti elettorali successivi: appuntamenti che, soprattutto nel Meridione, si preannunciavano tuttavia per lui profondamente ostici.Si conclude così una corsa elettorale che aveva ormai preso una piega decisamente negativa. E pensare che, all'inizio, era sembrata tutta un'altra storia. Ricandidatosi dopo il fallimento del 2016, Sanders era man mano riuscito a riconquistare la leadership della sinistra, contro una miriade di contendenti. A partire da dicembre, il senatore socialista aveva iniziato a salire vertiginosamente nei sondaggi e - nel corso dei primi appuntamenti elettorali - aveva ottenuto risultati importanti, conquistando per tre volte di fila la maggioranza nel voto popolare in Iowa, New Hampshire e Nevada. Inoltre, proprio il Nevada aveva evidenziato una svolta positiva per lui, visto che - per la prima volta - si era dimostrato capace di ottenere il sostegno del voto ispanico: un voto che, nel 2016, non lo aveva invece premiato. Il primo vero campanello d'allarme si era tuttavia verificato con il Super Martedì del 3 marzo, quando - pur riuscendo ad espugnare l'importantissima California - si era ritrovato bocciato negli Stati del Sud e in alcune rilevanti aree del Nord (come il Massachusetts e il Minnesota). Nel corso del mese di marzo, la situazione è andata poi peggiorando: Sanders ha infatti rimediato una serie di sonore sconfitte, ritrovandosi battuto anche in Michigan, dove - per l'elevata presenza di colletti blu bianchi impoveriti - aveva politicamente investito moltissimo. Le richieste di un suo ritiro da parte dell'establishment democratico si sono fatte sempre più pressanti, mentre - negli ultimi giorni - pare che anche all'interno del suo stesso comitato elettorale si fossero registrate profonde divisioni. Divisioni che avranno prevedibilmente influito sulla scelta di fare un passo indietro.Le ragioni della sconfitta di Sanders sono svariate. In primo luogo, non va trascurato che l'establishment dell'asinello si sia compattato intorno a Biden, conducendo una dura campagna denigratorio verso il senatore del Vermont. In secondo luogo, dal punto di vista elettorale, pur avendo - come detto - conquistato il voto ispanico in alcune aree, Sanders ha visto contemporaneamente una diminuzione del proprio storico elettorato bianco: un fattore che gli si è rivelato fatale soprattutto nel Settentrione. In terzo luogo, il senatore ha anche pagato alcune sue posizioni un po' troppo ideologiche. La sua ambiguità sulla Cuba castrista e il Venezuela di Nicolas Maduro gli hanno alienato le simpatie della Florida, mentre - con ogni probabilità - il suo ambientalismo potrebbe aver infastidito parte di quella classe operaia che - quattro anni fa - aveva invece votato per lui. Una classe operaia che, almeno in parte, non è escluso possa ormai essere passata stabilmente a sostenere Donald Trump. Non dimentichiamo del resto che, alle presidenziali del 2016, circa il 10% degli elettori di Sanders avesse alla fine votato per il magnate newyorchese in aree come il Wisconsin, la Pennsylvania e il Michigan. Non a caso, Trump sta nuovamente corteggiando i sandersiani e - poco dopo l'annuncio del ritiro del senatore - ha twittato: «Bernie Sanders si è ritirato. Grazie a Elizabeth Warren. Se non fosse stato per lei, Bernie avrebbe vinto quasi ogni Stato del Super Martedì! È finita come i democratici e il comitato nazionale del partito volevano, come il fiasco della corrotta Hillary. Il popolo di Bernie dovrebbe venire nel Partito Repubblicano!».Ora, al di là del fatto che Trump cerchi di tirare acqua al proprio mulino, l'analisi non è del tutto scorretta. E' infatti senz'altro vero che l'establishment democratico abbia fatto di tutto per imporre Biden e gli endorsement che quest'ultimo ha ricevuto non si sa quanto siano effettivamente sinceri. Si pensi alla senatrice californiana, Kamala Harris, che - afroamericana - in estate aveva accusato l'ex vicepresidente di trascorsa collusione con ambienti politici segregazionisti. O alla deputata delle Hawaii, Tulsi Gabbard, che aveva impostato tutta la sua carriera politica criticando l'establishment di Washington e che adesso appoggia uno dei suoi principali rappresentanti: Biden, appunto. Si pensi poi al mancato endorsement della senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren: una (teorica) rappresentante della sinistra che si è rifiutata di conferire il suo sostegno a Sanders, quando la scelta era dicotomicamente tra un socialista e un uomo apertamente finanziato da Wall Street, come Biden. Tutto questo la dice lunga sulla consistenza della candidatura dell'ex vicepresidente. Perché sarà adesso rimasto anche da solo in corsa. Ma non è detto che politicamente vanti poi chissà quale forza.In primo luogo, non è affatto detto che i sandersiani accetteranno di seguire Biden. Anzi, la modalità stessa con cui la sua ascesa è avvenuta porta a ritenere che molti preferiranno astenersi o tornare a votare per Trump a novembre. In secondo luogo, bisogna fare attenzione alla questione del coronavirus. L'ex vicepresidente sta faticando non poco a ritagliarsi uno spazio politico autonomo in questa crisi e - sotto il profilo mediatico-politico - continua a ritrovarsi "schiacciato" dal governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo. Ricordiamo inoltre che la maggior parte delle primarie che si devono ancora tenere avranno luogo soltanto tra svariate settimane e che - quindi - Biden sia ancora lontano dal blindare matematicamente la nomination. Anche perché Sanders potrebbe avere ancora un ruolo in questa vicenda. E un ruolo prevedibilmente non troppo amichevole verso l'ex vicepresidente. Ricordiamo che, quando alle primarie repubblicane del 1976, Ronald Reagan venne sconfitto in extremis da Gerald Ford, il primo diede al secondo il suo endorsement, ma si guardò comunque bene dal fare campagna elettorale concreta a suo favore. Risultato: Ford venne alla fine defenestrato da Jimmy Carter nel novembre di quell'anno. Il vecchio Bernie, insomma, potrebbe avere ancora qualcosa da dire. E Trump non aspetta altro.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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