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2019-08-03
Salvini svela la lista dei candidati Ue. In cima spunta il nome di Garavaglia
Ansa
Tre scenari e tre ipotetici nomi (leghisti) per il commissario italiano all'Ue. Fermo restando il fatto che il quadro è in continuo movimento, e che sul tavolo dei protagonisti potrebbero sempre arrivare nuove e diverse soluzioni, La Verità è in grado di illustrare gli schemi su cui per tutta la giornata di ieri hanno lavorato i vertici del governo, e di anticipare le figure che - a meno di eventi imprevedibili - potrebbero corrispondere a ciascuno degli identikit. Nella mattinata di ieri, si era diffusa la voce di una «rosa» comunicata al telefono da Matteo Salvini a Giuseppe Conte: ecco, secondo quanto ci risulta, nomi e schemi.
Primo scenario, due nomi. L'Italia riesce a ottenere un portafoglio economico di primo piano, relativo alla Concorrenza o all'economia reale. Si tratterebbe di un successo pieno. Dopo lo stop alla procedura d'infrazione Ue (che incredibilmente molti oppositori e perfino alcuni osservatori «indipendenti» davano per scontata), sarebbe un secondo rilevante risultato negoziale per l'Italia. In questo caso, alla Verità risulta che non sia uscita dai radar la candidatura di Giancarlo Giorgetti, nonostante il suo diniego pubblico e privato. Quanto meno, al sottosegretario verrebbe nuovamente chiesta la disponibilità. L'altra possibilità, altrettanto forte in casa leghista, riguarda il viceministro dell'Economia Massimo Garavaglia: stimato da amici e avversari, ha sempre saputo conciliare una netta posizione politica con una indiscussa competenza e un notevole senso istituzionale.
Secondo scenario, un altro nome. All'Italia viene proposto un portafoglio diverso, non importante come i portafogli economici di primo piano, ma pur sempre rilevante. Di più: un portafoglio storicamente pesantissimo nell'equilibrio del bilancio Ue: quello dell'Agricoltura. In questo caso, la candidatura naturale è quella di un altro ministro leghista, che nel governo Conte occupa esattamente questo dicastero, Gian Marco Centinaio.
Terzo scenario, nessun nome leghista. È l'ipotesi meno positiva per l'Italia: e cioè che venga proposto al nostro Paese un portafoglio marginale, irricevibile, inadeguato. In questo caso, fonti prospettano l'ipotesi che la Lega non indichi un suo nome. Resta da capire, in questo schema, come si orienterebbe Conte: punterebbe su un tecnico, su una delle figure che si sono agitate per autocandidarsi? È evidente che ogni passo sarebbe foriero di conseguenze politiche pesanti nel rapporto con la Lega.
Queste, dunque, le ipotesi. Vanno tuttavia annotati un paio di elementi. Per un verso, Ursula von der Leyen insiste presso tutti i Paesi affinché siano indicate anche candidature femminili. In questo caso, il pensiero andrebbe al ministro Giulia Bongiorno, anche se - negli schemi descritti - il suo nome non troverebbe posto. Per altro verso, non va assolutamente trascurato che i singoli commissari, dopo la designazione, saranno sottoposti a un penetrante scrutinio da parte del Parlamento europeo, fino al voto finale di convalida. E c'è chi giura, dopo l'accordo trasversale per impedire alla Lega (che pure è il primo partito europeo per voti) di ottenere una vicepresidenza dell'Europarlamento o la guida di alcune Commissioni, che la trappola sia già pronta a scattare. La realtà è che, nel caos in cui si trova questa Ue, con la stessa von der Leyen passata per il rotto della cuffia, con l'umiliante scarto di 9 voti (grillini, tra l'altro: vista la stravagante scelta del M5s), i voti in Aula saranno una specie di roulette russa. Certo, gli eventuali «tiratori» dovranno sapere che un agguato contro il candidato leghista sarebbe un potente argomento per Salvini contro l'antidemocraticità dell'attuale Ue.
In ogni caso, ieri a Roma (dopo essere già stata a Berlino, Parigi, Varsavia e Madrid) c'era proprio la von der Leyen, ospite di Conte. Il premier ha posto sul tavolo la nomina italiana: «Noi rivendichiamo un portafoglio economico di primo piano. Riteniamo che sia adeguato a responsabilità e ambizioni che l'Italia vuole assumersi. Siamo disponibili a offrire e concordare il profilo di un candidato che sia il più possibile adeguato, per competenza, capacità e disponibilità a svolgere bene questo ruolo, nell'interesse dell'Italia e dell'Europa».
Quanto alla tedesca, sul punto più delicato, e cioè la questione immigrazione, è parsa una versione teutonica della Sibilla cumana, con una frase interpretabile in due sensi opposti. «Vorrei proporre un nuovo patto per le migrazioni e l'asilo», ha detto. «Sono consapevole che Paesi come Italia, Grecia e Spagna si trovino in una posizione geograficamente più esposta. Di questo dovremo tenere conto». Fino alla battuta finale, carica di ambiguità: «È fondamentale poter garantire la solidarietà, ma non è mai unilaterale, è come minimo bilaterale». Prima traduzione (assai positiva): l'Italia ha già dato, ora occorre che anche gli altri facciano la loro parte. Seconda traduzione (di senso politico opposto): l'Ue farà qualcosa, ma all'Italia saranno richieste altre contropartite. Quali?
«Se vuole ministeri, la Lega lo dica»
Tensione altissima tra Lega e 5 stelle dopo che Matteo Salvini in un'intervista al Corriere della sera ha criticato i ministri grillini e avvertito gli alleati di governo della necessità di una legge di bilancio incisiva, ovvero con taglio robusto delle tasse.
La reazione di Luigi Di Maio non si è fatta attendere ed è arrivata dalle frequenze di Rai radio: «Lo chiedano pubblicamente se vogliono ministeri in più», ha detto riferendosi ai leghisti, «ma la smetta di massacrare gli italiani», indicando Salvini. Il Capitano in effetti non c'era andato troppo per il sottile, sostenendo che ci siano stati «ministri che non hanno brillato» e che «se fossero stati della Lega, il problema sarebbe già stato risolto». La sfilza di stilettate è lunga. A proposito della Gronda di Genova ha dichiarato che «sarebbe già partita se Toninelli non l'avesse bloccata». Dopo il ministro delle Infrastrutture è toccato a quello dell'Ambiente, Sergio Costa: «Non blocchi la proroga delle concessioni». Sul guardasigilli Alfonso Bonafede, un giudizio laconico: «Si arrende allo status quo» e infine una bella doccia gelata al premier Giuseppe Conte, con il quale secondo Salvini ci sarebbe solo un mero «rapporto di lavoro», senza alcuno slancio di altro tipo.
Indirettamente poi arriva anche una frecciatina a Giovanni Tria, quando il leader della Lega parla della legge di bilancio. «È chiaro che se arriva una manovra inadeguata…», ha spiegato lasciando intendere la seconda parte della frase, la Lega non ha intenzione di abbozzare. «Tutti dovranno avere coraggio» quando si tratterà di mettere nero su bianco quella che un tempo era la finanziaria, «sennò il coraggio lo chiediamo agli italiani». Di Maio anche qui ha perso la pazienza e avvertito l'altro vicepremier che c'è il problema, almeno a parer suo, delle coperture della flat tax: «Restano un mistero», ha spiegato in radio. «Abbiamo una manovra da fare per abbassare le tasse, ma se il cavallo di battaglia della Lega è la flat tax, ci aspettiamo da loro il numero dei miliardi che servono». Ma il picco di frizione doveva ancora arrivare e il ministro dello Sviluppo economico ha proseguito attaccando con maggiore violenza: «Non possono stare al governo con un atteggiamento di opposizione», perché sembra che «qualsiasi cosa facciamo» viene raccontata come «una cosa che non basta».
Ma la Lega ha replicato immediatamente spiegando che per rilanciare l'economia vanno abbassate le tasse. Di Maio, non contento, ha controreplicato dicendo che la soluzione starebbe nel progetto per il taglio del cuneo fiscale da 4 miliardi e nell'abolizione del canone Rai, «ma le cose bisogna farle senza questo atteggiamento», senza cioè dire «non sta bene quello che fa il ministro 5 stelle». Perché quella che va in scena ormai da più di un anno tra i due azionisti di governo, sintetizzata dallo scontro quasi quotidiano tra Salvini e Di Maio, se fosse una storia da film non darebbe la garanzia di un lieto fine, ma a conti fatti l'esecutivo è ancora in piedi, resistente anche agli attacchi meno prevedibili. Ieri è stata la ministra per il Sud Barbara Lezzi ad alzare il ditino e scagliarsi anch'essa contro il ministro dell'Interno e il suo partito. «Se vuole un rimpasto lo deve dire chiaramente», ha affermato nel corso di un punto stampa alla presidenza del Consiglio al termine della cabina di regia sulle Zes. «Se vuole andare a votare lo deve dire chiaramente», ha aggiunto. «Io sto lavorando perché vengano sbloccate le opere al Sud, perché vengano spesi i soldi».
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Ieri faccia a faccia tra Ursula von der Leyen e Giuseppe Conte, che ha ribadito: «A noi un portafoglio economico di peso». Per la Concorrenza la Lega spinge il vice di Giovanni Tria. Se ci toccasse l'Agricoltura, Gian Marco Centinaio. Giancarlo Giorgetti in stand by.Di Maio replica al leader leghista che aveva criticato, per l'ennesima volta, l'operato dei ministri M5s e minacciato la crisi. Affondo sulla flat tax: «Coperture? Un mistero».Lo speciale contiene due articoli.Tre scenari e tre ipotetici nomi (leghisti) per il commissario italiano all'Ue. Fermo restando il fatto che il quadro è in continuo movimento, e che sul tavolo dei protagonisti potrebbero sempre arrivare nuove e diverse soluzioni, La Verità è in grado di illustrare gli schemi su cui per tutta la giornata di ieri hanno lavorato i vertici del governo, e di anticipare le figure che - a meno di eventi imprevedibili - potrebbero corrispondere a ciascuno degli identikit. Nella mattinata di ieri, si era diffusa la voce di una «rosa» comunicata al telefono da Matteo Salvini a Giuseppe Conte: ecco, secondo quanto ci risulta, nomi e schemi. Primo scenario, due nomi. L'Italia riesce a ottenere un portafoglio economico di primo piano, relativo alla Concorrenza o all'economia reale. Si tratterebbe di un successo pieno. Dopo lo stop alla procedura d'infrazione Ue (che incredibilmente molti oppositori e perfino alcuni osservatori «indipendenti» davano per scontata), sarebbe un secondo rilevante risultato negoziale per l'Italia. In questo caso, alla Verità risulta che non sia uscita dai radar la candidatura di Giancarlo Giorgetti, nonostante il suo diniego pubblico e privato. Quanto meno, al sottosegretario verrebbe nuovamente chiesta la disponibilità. L'altra possibilità, altrettanto forte in casa leghista, riguarda il viceministro dell'Economia Massimo Garavaglia: stimato da amici e avversari, ha sempre saputo conciliare una netta posizione politica con una indiscussa competenza e un notevole senso istituzionale.Secondo scenario, un altro nome. All'Italia viene proposto un portafoglio diverso, non importante come i portafogli economici di primo piano, ma pur sempre rilevante. Di più: un portafoglio storicamente pesantissimo nell'equilibrio del bilancio Ue: quello dell'Agricoltura. In questo caso, la candidatura naturale è quella di un altro ministro leghista, che nel governo Conte occupa esattamente questo dicastero, Gian Marco Centinaio. Terzo scenario, nessun nome leghista. È l'ipotesi meno positiva per l'Italia: e cioè che venga proposto al nostro Paese un portafoglio marginale, irricevibile, inadeguato. In questo caso, fonti prospettano l'ipotesi che la Lega non indichi un suo nome. Resta da capire, in questo schema, come si orienterebbe Conte: punterebbe su un tecnico, su una delle figure che si sono agitate per autocandidarsi? È evidente che ogni passo sarebbe foriero di conseguenze politiche pesanti nel rapporto con la Lega. Queste, dunque, le ipotesi. Vanno tuttavia annotati un paio di elementi. Per un verso, Ursula von der Leyen insiste presso tutti i Paesi affinché siano indicate anche candidature femminili. In questo caso, il pensiero andrebbe al ministro Giulia Bongiorno, anche se - negli schemi descritti - il suo nome non troverebbe posto. Per altro verso, non va assolutamente trascurato che i singoli commissari, dopo la designazione, saranno sottoposti a un penetrante scrutinio da parte del Parlamento europeo, fino al voto finale di convalida. E c'è chi giura, dopo l'accordo trasversale per impedire alla Lega (che pure è il primo partito europeo per voti) di ottenere una vicepresidenza dell'Europarlamento o la guida di alcune Commissioni, che la trappola sia già pronta a scattare. La realtà è che, nel caos in cui si trova questa Ue, con la stessa von der Leyen passata per il rotto della cuffia, con l'umiliante scarto di 9 voti (grillini, tra l'altro: vista la stravagante scelta del M5s), i voti in Aula saranno una specie di roulette russa. Certo, gli eventuali «tiratori» dovranno sapere che un agguato contro il candidato leghista sarebbe un potente argomento per Salvini contro l'antidemocraticità dell'attuale Ue. In ogni caso, ieri a Roma (dopo essere già stata a Berlino, Parigi, Varsavia e Madrid) c'era proprio la von der Leyen, ospite di Conte. Il premier ha posto sul tavolo la nomina italiana: «Noi rivendichiamo un portafoglio economico di primo piano. Riteniamo che sia adeguato a responsabilità e ambizioni che l'Italia vuole assumersi. Siamo disponibili a offrire e concordare il profilo di un candidato che sia il più possibile adeguato, per competenza, capacità e disponibilità a svolgere bene questo ruolo, nell'interesse dell'Italia e dell'Europa».Quanto alla tedesca, sul punto più delicato, e cioè la questione immigrazione, è parsa una versione teutonica della Sibilla cumana, con una frase interpretabile in due sensi opposti. «Vorrei proporre un nuovo patto per le migrazioni e l'asilo», ha detto. «Sono consapevole che Paesi come Italia, Grecia e Spagna si trovino in una posizione geograficamente più esposta. Di questo dovremo tenere conto». Fino alla battuta finale, carica di ambiguità: «È fondamentale poter garantire la solidarietà, ma non è mai unilaterale, è come minimo bilaterale». Prima traduzione (assai positiva): l'Italia ha già dato, ora occorre che anche gli altri facciano la loro parte. 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La reazione di Luigi Di Maio non si è fatta attendere ed è arrivata dalle frequenze di Rai radio: «Lo chiedano pubblicamente se vogliono ministeri in più», ha detto riferendosi ai leghisti, «ma la smetta di massacrare gli italiani», indicando Salvini. Il Capitano in effetti non c'era andato troppo per il sottile, sostenendo che ci siano stati «ministri che non hanno brillato» e che «se fossero stati della Lega, il problema sarebbe già stato risolto». La sfilza di stilettate è lunga. A proposito della Gronda di Genova ha dichiarato che «sarebbe già partita se Toninelli non l'avesse bloccata». Dopo il ministro delle Infrastrutture è toccato a quello dell'Ambiente, Sergio Costa: «Non blocchi la proroga delle concessioni». Sul guardasigilli Alfonso Bonafede, un giudizio laconico: «Si arrende allo status quo» e infine una bella doccia gelata al premier Giuseppe Conte, con il quale secondo Salvini ci sarebbe solo un mero «rapporto di lavoro», senza alcuno slancio di altro tipo. Indirettamente poi arriva anche una frecciatina a Giovanni Tria, quando il leader della Lega parla della legge di bilancio. «È chiaro che se arriva una manovra inadeguata…», ha spiegato lasciando intendere la seconda parte della frase, la Lega non ha intenzione di abbozzare. «Tutti dovranno avere coraggio» quando si tratterà di mettere nero su bianco quella che un tempo era la finanziaria, «sennò il coraggio lo chiediamo agli italiani». Di Maio anche qui ha perso la pazienza e avvertito l'altro vicepremier che c'è il problema, almeno a parer suo, delle coperture della flat tax: «Restano un mistero», ha spiegato in radio. «Abbiamo una manovra da fare per abbassare le tasse, ma se il cavallo di battaglia della Lega è la flat tax, ci aspettiamo da loro il numero dei miliardi che servono». Ma il picco di frizione doveva ancora arrivare e il ministro dello Sviluppo economico ha proseguito attaccando con maggiore violenza: «Non possono stare al governo con un atteggiamento di opposizione», perché sembra che «qualsiasi cosa facciamo» viene raccontata come «una cosa che non basta». Ma la Lega ha replicato immediatamente spiegando che per rilanciare l'economia vanno abbassate le tasse. Di Maio, non contento, ha controreplicato dicendo che la soluzione starebbe nel progetto per il taglio del cuneo fiscale da 4 miliardi e nell'abolizione del canone Rai, «ma le cose bisogna farle senza questo atteggiamento», senza cioè dire «non sta bene quello che fa il ministro 5 stelle». Perché quella che va in scena ormai da più di un anno tra i due azionisti di governo, sintetizzata dallo scontro quasi quotidiano tra Salvini e Di Maio, se fosse una storia da film non darebbe la garanzia di un lieto fine, ma a conti fatti l'esecutivo è ancora in piedi, resistente anche agli attacchi meno prevedibili. Ieri è stata la ministra per il Sud Barbara Lezzi ad alzare il ditino e scagliarsi anch'essa contro il ministro dell'Interno e il suo partito. «Se vuole un rimpasto lo deve dire chiaramente», ha affermato nel corso di un punto stampa alla presidenza del Consiglio al termine della cabina di regia sulle Zes. «Se vuole andare a votare lo deve dire chiaramente», ha aggiunto. «Io sto lavorando perché vengano sbloccate le opere al Sud, perché vengano spesi i soldi».
Il Castello Mackenzie di Genova. A destra, il dettaglio della torre (Ansa)
Ewan Mackenzie, di padre scozzese, era toscano fin nel midollo. Da Firenze, la città che lo vide nascere nel 1852, assorbì la passione per l’arte e la letteratura del Rinascimento e dell’opera di Dante di cui fu collezionista delle edizioni più rare della Commedia.
Mackenzie si trasferì a Genova come agente dei Lloyds di Londra. Qui alla fine del secolo XIX fonderà un impero in campo assicurativo, l’Alleanza Assicurazioni. Il grande successo imprenditoriale gli permise di coronare il sogno di una vita: quello di dare nuova forma al Rinascimento toscano nella città della Lanterna con la costruzione di una dimora unica nella zona degli antichi bastioni di san Bartolomeo al Castelletto che dominano Genova ed il porto antico. Trovò nell’esordiente architetto fiorentino Gino Coppedè la professionalità giusta per realizzare la sua nuova dimora. Quest’ultimo era figlio d’arte di uno degli ebanisti più quotati dell’epoca, Mariano Coppedé. I lavori di costruzione del capolavoro dell’eclettismo tipico degli anni a cavallo tra i secoli XIX e XX iniziarono nel 1897 per concludersi 9 anni più tardi, nel 1906. Il castello, che cambiò la prospettiva dalla vicina piazza Manin, era un capolavoro di arte ispirata al Medioevo ed al Rinascimento. La torre principale ricordava quella di Palazzo Vecchio a Firenze, mentre mura, nicchie torrette e merletti, compresi i fossati e i ponti, facevano pensare ai manieri medievali. All’interno dominava la boiserie della bottega Coppedé, nelle oltre 80 stanze della dimora. Non mancava un tocco di modernità nell’impianto di riscaldamento centralizzato e nell’acqua calda disponibile in tutta la casa. Il palazzo ospitava anche una piscina riscaldata ed un ascensore di grande capienza. Nei sotterranei erano state ricavate grotte scenografiche, ispirate alla Grotta Azzurra di Capri, con statue mitologiche e giochi d’acqua, e non mancava un luogo dedicato alla preghiera, una cappella in stile neogotico con vetrate artistiche, ed una immensa biblioteca dove erano conservate le edizioni più preziose della Commedia dantesca. Il castello fu abitato dalla famiglia fino alla morte del proprietario avvenuta nel 1935. La figlia di Ewan, Isa Mackenzie, la cedette poco dopo ad una società immobiliare. Dopo l’8 settembre 1943 fu requisito dai tedeschi e scampò per miracolo ai pesantissimi bombardamenti sulla città. Nel dopoguerra fu brevemente occupato dagli Alleati prima di essere destinato a diventare una stazione dei Carabinieri, che rimasero fino al 1956 quando il castello fu dichiarato monumento nazionale. In seguito fu adibito a sede di una società sportiva, la Società Ginnastica Rubattino, e dagli anni Sessanta andò incontro ad un declino durato per tutto il decennio successivo. Solo negli anni seguenti la dimora da sogno di Mackenzie poté essere recuperata al suo splendore originario. Nel 1986 il magnate e collezionista d’arte americano Mitchell Wolfson Jr. rilevò il castello ed iniziò un complesso restauro a partire dal 1991 prima di cederlo a sua volta a Marcello Cambi, famoso restauratore toscano e patron dell’omonima casa d’aste della quale il castello divenne la sede, dopo un’ulteriore restauro da parte del grande architetto genovese Gianfranco Franchini, tra i progettisti assieme a Renzo Piano e Richard Rogers del Centro Georges Pompidou di Parigi.
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