
Il vicepremier a Budapest visita i confini con il primo ministro ungherese. E mette le basi per cambiare lo scacchiere europeo.La cronaca della giornata - tra foto, video e didascalie - si incarica di farla lo stesso Matteo Salvini su Twitter. La partenza su un elicottero militare; l'arrivo a Budapest, accolto dall'omologo ungherese, Sandor Pinter; poi, con il primo ministro, Viktor Orbán, una puntata al valico con la Serbia per vedere il sistema di protezione dei confini (una barriera che è stata ribattezzata «il muro di Orbán»); e alla fine, la conferenza congiunta nel monastero carmelitano di Budapest. Incalzato sull'ennesimo appello pro migranti di papa Francesco, Salvini risponde: «L'integrazione è possibile solo se l'immigrazione è sotto controllo. Invece, la politica delle porte aperte ha fatto del Mediterraneo una fossa comune, un cimitero a cielo aperto». Per il resto, le dichiarazioni del vicepremier italiano oscillano tra l'ammirazione per le politiche di Orbán («In modo rapido ed efficace, ha assicurato il presidio di 600 chilometri di frontiere») e l'auspicio di un rafforzamento di questa linea sullo scacchiere Ue. Insomma, una giornata di campagna elettorale, un segnale di forza inviato agli avversari (non di rado, i medesimi), un gioco di specchi tra due leader che si piacciono e ostentano amicizia. Ma - spente telecamere e cellulari - restano tre dossier su cui l'uomo di Budapest e il leader leghista hanno ragionato, consapevoli di molte sintonie, ma pure di alcune divergenze e di innegabili difficoltà. I tre punti sono: immigrazione, alleanze nel prossimo Europarlamento, nuovo assetto istituzionale Ue. Sull'immigrazione, Orbán non fa mistero di rimanere contrarissimo a qualunque ricollocazione degli immigrati già arrivati in Ue. E, inutile girarci intorno, questo è un interesse oggettivamente confliggente con l'Italia. Su questa divaricazione puntano gli antisovranisti, che hanno gioco facile a dire che non è semplice tenere insieme gli slogan «Prima gli italiani», «Prima gli ungheresi», e così via. Eppure, Salvini e Orbán hanno almeno due punti di accordo pieno, e non è poca cosa. Il primo è l'intesa per un presidio fortissimo dei confini esterni dell'Ue, di terra e di mare («Il problema non è redistribuire: è non farli arrivare», sintetizza Salvini). E su questo potrebbero convergere, dopo il 26 maggio, anche i loro arcinemici in Ue: un'altra ondata fuori controllo non la vuole nessuno, al di là delle formule verbali pro accoglienza di alcuni leader. Il secondo è una progressiva rinazionalizzazione delle politiche sull'immigrazione, sottraendo ruolo alla Commissione (che in questi anni ha clamorosamente fallito), e immaginando soluzioni intergovernative, sul modello dell'Ecofin. Anche su questo, i due potrebbero trovare più consenso del previsto: neanche a Parigi e Berlino c'è soddisfazione per la prova dell'esecutivo Juncker. Il vero punto di scontro è un altro: per fare accordi di reimpatrio, servono intese economiche (e significativi fondi Ue) con i Paesi africani. Sarà quella la mano di poker in cui tutti i giocatori - sovranisti o eurolirici - dovranno mettere sul tavolo le proprie carte. Il secondo macrodossier riguarda le future alleanze europee. Salvini ha messo in piedi una sua rete. La sensazione è che l'alleanza ultraeuropeista (Ppe più Pse, con il supporto di Alde e Verdi) non avrà numeri enormi. Diventa decisivo ciò che farà Orbán, che è ancora nel Ppe, ma ne è stato umiliato a settembre scorso. Ricorderete che l'emiciclo di Strasburgo raggiunse la maggioranza dei due terzi per «processare» l'Ungheria. Non era mai successo prima che l'Europarlamento assumesse un'iniziativa del genere, passando la palla al Consiglio, chiamato a decidere su eventuali sanzioni. Comunque la si pensi su Orbán e il suo governo, fu un precedente di particolare gravità: passò il principio per cui, sulla base di valutazioni politiche del tutto discrezionali, un governo scelto dai cittadini potesse essere punito da una Ue i cui vertici (a partire dalla Commissione) non sono eletti da nessuno. Ma ci fu anche una lacerazione drammatica dentro il Ppe, che non riuscì a raggiungere una posizione comune, e lasciò una pilatesca libertà di voto. Tuttavia il tedesco Manfred Weber tenne a mettere a verbale il suo voto contro Budapest. Una ferita ancora aperta. Alla quale Orbán ha risposto non con un fallo di reazione (cioè uscendo dal Ppe), ma rimanendo nel gruppo, e spingendo affinché nella nuova legislatura i popolari rompano con il Pse e guardino a destra, a un'alleanza con i sovranisti. Questa è la partita delle prossime settimane: e, in giro per l'Europa, non è passata inosservata la dichiarazione di Silvio Berlusconi, che di Orbán è vecchio amico, proprio in questa direzione. Comunque, l'avvertimento di Orbán in conferenza è stato chiarissimo: «Il nostro destino lo decideremo dopo il voto, ma se il Ppe si lega a quella sinistra europea che perde sostegno, noi faremo le nostre scelte». Concorde Salvini: «Faccio parte di uno schieramento forte come non lo è mai stato, non di destra ma alternativo ai burocrati, e spero che si possa dialogare per lasciar fuori la sinistra». Resta il terzo dossier, quello sulla riforma dell'Ue. Orbán dice chiaramente di volere «meno Europa». Immagina un sistema a tre cerchi: l'Europa economica, l'Europa della sicurezza, l'Europa del mercato comune, consentendo a ciascuno Stato membro di decidere di quale gruppo (o di quali gruppi) far parte, ipotesi che gli eurolirici definiscono sprezzantemente come un'Europa à la carte. Ma non è detto che gli elettori preferiscano il solito menu fisso.
Il tocco è il copricapo che viene indossato insieme alla toga (Imagoeconomica)
La nuova legge sulla violenza sessuale poggia su presupposti inquietanti: anziché dimostrare gli abusi, sarà l’imputato in aula a dover certificare di aver ricevuto il consenso al rapporto. Muove tutto da un pregiudizio grave: ogni uomo è un molestatore.
Una legge non è mai tanto cattiva da non poter essere peggiorata in via interpretativa. Questo sembra essere il destino al quale, stando a taluni, autorevoli commenti comparsi sulla stampa, appare destinata la legge attualmente in discussione alla Camera dei deputati, recante quella che dovrebbe diventare la nuova formulazione del reato di violenza sessuale, previsto dall’articolo 609 bis del codice penale. Come già illustrato nel precedente articolo comparso sulla Verità del 18 novembre scorso, essa si differenzia dalla precedente formulazione essenzialmente per il fatto che viene ad essere definita e punita come violenza sessuale non più soltanto quella di chi, a fini sessuali, adoperi violenza, minaccia, inganno, o abusi della sua autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa (come stabilito dall’articolo 609 bis nel testo attualmente vigente), ma anche, ed in primo luogo, quella che consista soltanto nel compimento di atti sessuali «senza il consenso libero e attuale» del partner.
Tampone Covid (iStock)
Stefano Merler in commissione confessa di aver ricevuto dati sul Covid a dicembre del 2019: forse, ammette, serrando prima la Bergamasca avremmo evitato il lockdown nazionale. E incalzato da Claudio Borghi sulle previsioni errate dice: «Le mie erano stime, colpa della stampa».
Zero tituli. Forse proprio zero no, visto il «curriculum ragguardevole» evocato (per carità di patria) dall’onorevole Alberto Bagnai della Lega; ma uno dei piccoli-grandi dettagli usciti dall’audizione di Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler in commissione Covid è che questo custode dei big data, colui che in pandemia ha fornito ai governi di Giuseppe Conte e Mario Draghi le cosiddette «pezze d’appoggio» per poter chiudere il Paese e imporre le misure più draconiane di tutto l’emisfero occidentale, non era un clinico né un epidemiologo, né un accademico di ruolo.
La Marina colombiana ha cominciato il recupero del contenuto della stiva del galeone spagnolo «San José», affondato dagli inglesi nel 1708. Il tesoro sul fondo del mare è stimato in svariati miliardi di dollari, che il governo di Bogotà rivendica. Il video delle operazioni subacquee e la storia della nave.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Manifestazione ex Ilva (Ansa)
Ok del cdm al decreto che autorizza la società siderurgica a usare i fondi del prestito: 108 milioni per la continuità degli impianti. Altri 20 a sostegno dei 1.550 che evitano la Cig. Lavoratori in protesta: blocchi e occupazioni. Il 28 novembre Adolfo Urso vede i sindacati.
Proteste, manifestazioni, occupazioni di fabbriche, blocchi stradali, annunci di scioperi. La questione ex Ilva surriscalda il primo freddo invernale. Da Genova a Taranto i sindacati dei metalmeccanici hanno organizzato sit-in per chiedere che il governo faccia qualcosa per evitare la chiusura della società. E il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al nuovo decreto sull’acciaieria più martoriata d’Italia, che autorizza l’utilizzo dei 108 milioni di euro residui dall’ultimo prestito ponte e stanzia 20 milioni per il 2025 e il 2026.






