True
2019-05-25
La sanità italiana spende 1.922 euro a cittadino, quella tedesca il doppio
True
L'Italia è il quarto Paese europeo per spesa sanitaria. Nel 2017, dicono i dati Eurostat, la spesa pubblica è stata di 117,7 miliardi di euro. Una cifra ben lontana dai 232,7 miliardi della Germania (dove però i cittadini sono 80 milioni), dai 184 della Francia (che invece ha più o meno gli stessi abitanti dell'Italia: 60 milioni) e dai 173,7 del Regno Unito. Dopo di noi c'è la Spagna, la cui spesa sanitaria è ferma a 69,4 miliardi di euro (per 46 milioni di persone). Ma questo, più o meno, si sa. Quello che forse non si sa è che l'Italia spende meglio i propri soldi di quanto non facciano gli altri. Ovvero: abbiamo una sanità migliore rispetto a quella di chi spende più di noi. Guardiamo i numeri.
Primo dato: secondo l'autorevole Health care efficiency index stilato da Bloomberg, la sanità italiana è la quarta più efficiente al mondo (un giudizio più o meno uguale arriva da Ocse e Oms). Secondo dato: nel 2017 ogni cittadino italiano è costato al sistema sanitario pubblico circa 1.922 euro. Ogni tedesco, invece, è costato 2.862 euro. Noi siamo quarti al mondo per efficienza, la Germania è quarantacinquesima. Rispetto ai tedeschi la nostra spesa, in altre parole, è meglio allocata. Ed è allocata meglio anche rispetto alla Francia: un francese, infatti, costa al servizio sanitario nazionale 2.803 euro, 881 euro più di un italiano, ma nella classifica di Bloomberg la sanità francese è solo al sedicesimo posto. C'è anche, è vero, chi fa meglio di noi. Ad esempio, se consideriamo solo i grandi Paesi europei, la Spagna: spende 1.475 euro per ogni cittadino, cioè meno di noi, ed è terza nella classifica dell'efficienza, una posizione sopra la nostra.
Quindi: spenderemo anche molto, anzi, secondo alcuni pure troppo, ma i risultati si vedono. Anzi... siamo sicuri di spendere troppo? Contare solo i miliardi che escono dalle casse dello Stato non è il metodo migliore per rispondere a questa domanda. Bisogna, piuttosto, confrontare la spesa pubblica per la sanità con il Prodotto interno lordo, come si fa, per esempio, quando si vuole stabilire se un Paese è "molto" o "poco" indebitato: non si contano i miliardi di debito, ma la quantità del debito in rapporto al Pil. Se si adotta questo metodo le cose cambiano. E non di poco.
Lo Stato europeo che investe la percentuale più alta della sua ricchezza per il benessere dei propri cittadini è la Danimarca: nel 2017 la spesa sanitaria ha raggiunto l'8,4% del Pil. Seguono l'Austria (8,2%) e la Francia (8%). Per trovare l'Italia bisogna scendere fino alla quattordicesima posizione, con il 6,8%. È la conferma: il nostro sistema sanitario non costa quella cifra così gigantesca di cui spesso si parla e, per di più, è molto efficiente.
Dopo questa iniezione di orgoglio nazionale, è però giusto considerare anche che non dappertutto la spesa sanitaria è spesa in modo corretto. Basta guardare ai posti letto: secondo gli ultimi dati del ministero presieduto da Giulia Grillo, infatti, la media nazionale è di 2,65 posti letto ogni 1.000 abitanti, ma con differenze abissali tra regione e regione: 5,02 in Friuli e 1,95 in Calabria, tanto per fare un esempio. E, guarda caso, le regioni dove ci sono meno posti letto sono anche quelle da dove le persone che hanno bisogno di cure emigrano di più dando vita al drammatico fenomeno del "turismo sanitario". Il caso più emblematico è proprio quello della Calabria, da cui in un solo semestre (secondo l'ultimo dato disponibile, relativo al 2016) sono "scappate" oltre 18.000 persone per raggiungere il Nord Italia. Una delle mete più ambite è la Lombardia, che nello stesso periodo ha accolto 38.000 malati provenienti da fuori regione.
Quindi? Bisogna spendere di più? Probabilmente sì, anche perché se si considerano i dati degli ultimi anni (dal 1995 in poi, come mostra il grafico) si scopre una cosa curiosa: all'epoca il costo della sanità ammontava a 43,7 miliardi e negli anni successivi, sia in termini assoluti che in rapporto al Pil, è aumentato in modo più o meno costante. Il record è stato raggiunto nel 2010, quando a Palazzo Chigi c'era ancora Silvio Berlusconi; quell'anno l'Italia ha speso 119,1 miliardi (pari al 7,4% del Pil).
Da allora, per effetto della cura dimagrante voluta da Mario Monti, i costi si sono ridotti, per poi tornare a salire sia nel 2016 che nel 2017. Ma, attenzione: rispetto al Pil, a partire dal picco del 2009-2010, le uscite sono calate costantemente. Ciò significa che la spesa sanitaria è aumentata ma non quanto l'economia. Il risultato è un Paese che complessivamente ha un sistema sanitario fra i migliori al mondo, ma che fa fatica a cancellare le disuguaglianze al suo interno.
Continua a leggereRiduci
Nel 2017, dicono i dati Eurostat, i fondi pubblici sono stati di 117,7 miliardi di euro. Una cifra ben lontana dai 232,7 miliardi della Germania (dove però i cittadini sono 80 milioni), dai 184 della Francia (che invece ha più o meno gli stessi abitanti dell'Italia: 60 milioni) e dai 173,7 del Regno Unito. Dopo di noi c'è la Spagna, la cui spesa sanitaria è ferma a 69,4 miliardi di euro (per 46 milioni di persone). La Penisola vince però la classifica dell'efficienza. L'Italia è il quarto Paese europeo per spesa sanitaria. Nel 2017, dicono i dati Eurostat, la spesa pubblica è stata di 117,7 miliardi di euro. Una cifra ben lontana dai 232,7 miliardi della Germania (dove però i cittadini sono 80 milioni), dai 184 della Francia (che invece ha più o meno gli stessi abitanti dell'Italia: 60 milioni) e dai 173,7 del Regno Unito. Dopo di noi c'è la Spagna, la cui spesa sanitaria è ferma a 69,4 miliardi di euro (per 46 milioni di persone). Ma questo, più o meno, si sa. Quello che forse non si sa è che l'Italia spende meglio i propri soldi di quanto non facciano gli altri. Ovvero: abbiamo una sanità migliore rispetto a quella di chi spende più di noi. Guardiamo i numeri.Primo dato: secondo l'autorevole Health care efficiency index stilato da Bloomberg, la sanità italiana è la quarta più efficiente al mondo (un giudizio più o meno uguale arriva da Ocse e Oms). Secondo dato: nel 2017 ogni cittadino italiano è costato al sistema sanitario pubblico circa 1.922 euro. Ogni tedesco, invece, è costato 2.862 euro. Noi siamo quarti al mondo per efficienza, la Germania è quarantacinquesima. Rispetto ai tedeschi la nostra spesa, in altre parole, è meglio allocata. Ed è allocata meglio anche rispetto alla Francia: un francese, infatti, costa al servizio sanitario nazionale 2.803 euro, 881 euro più di un italiano, ma nella classifica di Bloomberg la sanità francese è solo al sedicesimo posto. C'è anche, è vero, chi fa meglio di noi. Ad esempio, se consideriamo solo i grandi Paesi europei, la Spagna: spende 1.475 euro per ogni cittadino, cioè meno di noi, ed è terza nella classifica dell'efficienza, una posizione sopra la nostra. Quindi: spenderemo anche molto, anzi, secondo alcuni pure troppo, ma i risultati si vedono. Anzi... siamo sicuri di spendere troppo? Contare solo i miliardi che escono dalle casse dello Stato non è il metodo migliore per rispondere a questa domanda. Bisogna, piuttosto, confrontare la spesa pubblica per la sanità con il Prodotto interno lordo, come si fa, per esempio, quando si vuole stabilire se un Paese è "molto" o "poco" indebitato: non si contano i miliardi di debito, ma la quantità del debito in rapporto al Pil. Se si adotta questo metodo le cose cambiano. E non di poco. Lo Stato europeo che investe la percentuale più alta della sua ricchezza per il benessere dei propri cittadini è la Danimarca: nel 2017 la spesa sanitaria ha raggiunto l'8,4% del Pil. Seguono l'Austria (8,2%) e la Francia (8%). Per trovare l'Italia bisogna scendere fino alla quattordicesima posizione, con il 6,8%. È la conferma: il nostro sistema sanitario non costa quella cifra così gigantesca di cui spesso si parla e, per di più, è molto efficiente.Dopo questa iniezione di orgoglio nazionale, è però giusto considerare anche che non dappertutto la spesa sanitaria è spesa in modo corretto. Basta guardare ai posti letto: secondo gli ultimi dati del ministero presieduto da Giulia Grillo, infatti, la media nazionale è di 2,65 posti letto ogni 1.000 abitanti, ma con differenze abissali tra regione e regione: 5,02 in Friuli e 1,95 in Calabria, tanto per fare un esempio. E, guarda caso, le regioni dove ci sono meno posti letto sono anche quelle da dove le persone che hanno bisogno di cure emigrano di più dando vita al drammatico fenomeno del "turismo sanitario". Il caso più emblematico è proprio quello della Calabria, da cui in un solo semestre (secondo l'ultimo dato disponibile, relativo al 2016) sono "scappate" oltre 18.000 persone per raggiungere il Nord Italia. Una delle mete più ambite è la Lombardia, che nello stesso periodo ha accolto 38.000 malati provenienti da fuori regione.Quindi? Bisogna spendere di più? Probabilmente sì, anche perché se si considerano i dati degli ultimi anni (dal 1995 in poi, come mostra il grafico) si scopre una cosa curiosa: all'epoca il costo della sanità ammontava a 43,7 miliardi e negli anni successivi, sia in termini assoluti che in rapporto al Pil, è aumentato in modo più o meno costante. Il record è stato raggiunto nel 2010, quando a Palazzo Chigi c'era ancora Silvio Berlusconi; quell'anno l'Italia ha speso 119,1 miliardi (pari al 7,4% del Pil). Da allora, per effetto della cura dimagrante voluta da Mario Monti, i costi si sono ridotti, per poi tornare a salire sia nel 2016 che nel 2017. Ma, attenzione: rispetto al Pil, a partire dal picco del 2009-2010, le uscite sono calate costantemente. Ciò significa che la spesa sanitaria è aumentata ma non quanto l'economia. Il risultato è un Paese che complessivamente ha un sistema sanitario fra i migliori al mondo, ma che fa fatica a cancellare le disuguaglianze al suo interno.
Thierry Breton (Ansa)
«Condanniamo fermamente la decisione degli Stati Uniti di imporre restrizioni di viaggio a cinque individui europei, tra cui l’ex commissario Thierry Breton. Reagiremo», è stato il commento postato sull’account X della Commissione, «la libertà di parola è il fondamento della nostra forte e vivace democrazia europea. Ne siamo orgogliosi. La proteggeremo. Perché la Commissione europea è la custode dei nostri valori», ha cinguettato con piglio autoreferenziale Ursula von der Leyen, cui ha fatto eco la sua vice Kaja Kallas: «La decisione degli Stati Uniti è un tentativo di sfidare la nostra sovranità. L’Europa continuerà a difendere i suoi valori: libertà di espressione, regole digitali eque e il diritto di regolamentare il nostro spazio». Sembrerebbero parole giuste e coraggiose, se non fosse che il bersaglio della decisione di Rubio è la stessa persona che della libertà di espressione ha fatto strame, ideando la famigerata legge del Dsa (Digital services act), che impone alle grandi piattaforme misure di moderazione arbitrarie che di fatto limitano il free speech.
È Breton che il 12 agosto 2024 ha vergato di suo pugno, su carta intestata dell’esecutivo Ue, una lettera senza precedenti in cui, alla vigilia di un’intervista di Elon Musk a Donald Trump su X, ha minacciato Musk di «censura preventiva». Una pesante interferenza nella campagna elettorale Usa due mesi prima delle presidenziali, coronata dalla gravosa multa di 120 milioni di euro comminata dall’Ue a Musk tre settimane fa per violazioni di obblighi di trasparenza previsti dal Dsa, indicando tra i «problemi rilevati» perfino il design della «spunta blu». E non è tutto: a gennaio scorso, Breton non si è fatto problemi nel dichiarare che l’Unione «ha gli strumenti per bloccare qualsiasi ingerenza straniera, come ha fatto in Romania (dove le elezioni sono state invalidate su pressione europea, ndr) e come dovrà fare, se necessario, anche in Germania».
Che il Dsa uccida non soltanto il Primo emendamento ma anche le aziende americane è un altro dato di fatto: l’Unione europea incassa più dalle multe (a Meta, Google, Apple e X) che dalle tasse pagate dalle aziende tecnologiche europee. Per l’amministrazione Trump, però, la questione è soprattutto di principio: «Per troppo tempo, gli ideologi in Europa hanno guidato iniziative organizzate per costringere le piattaforme Usa a punire i punti di vista americani a cui si oppongono.
L’amministrazione Trump non tollererà più questi vergognosi atti di censura extraterritoriale», ha scritto senza mezzi termini Rubio. Christopher Landau, vice segretario di Stato, ha ricordato la missiva di Breton come «una delle lettere più agghiaccianti che abbia mai letto», mentre l’ambasciatore americano presso l’Ue, Andrew Puzder, ha ricordato che «ironia della sorte, le aziende statunitensi che stanno soffrendo delle politiche oppressive di Bruxelles, delle multe e dell’eccedenza normativa sono proprio le aziende che possono portare l’Ue nell’economia dell’Ia (…) investendo e creando posti di lavoro, ma non a rischio di multe paralizzanti (…) che censurano la libertà di parola e ostacolano la crescita economica».
La revoca del visto impedirà a Breton di partecipare agli eventi pianificati negli Stati Uniti, comprese le conferenze tecnologiche. Chi di censura ferisce, di censura perisce.
Continua a leggereRiduci
iStock
A far risuonare le sirene d’allarme in Italia un po’ tutti i settori produttivi, che disegnando scenari apocalittici sono corsi a chiedere aiuti pubblici. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, senonché questa narrazione è stata smentita dai fatti, passati in sordina.
A fare un bilancio degli effetti dei dazi americani sul tessuto produttivo è uno studio della Banca d’Italia: «Gli effetti dei dazi statunitensi sulle imprese italiane: una valutazione ex ante a livello micro» (Questioni di Economia e Finanza n. 994, dicembre 2025). Un punto innovativo del report riguarda il rischio che i prodotti cinesi, esclusi dal mercato statunitense dai dazi, vengano «dirottati» verso altri mercati internazionali (inclusa l’Europa), aumentando la concorrenza per le imprese italiane in quei territori.
Dall’analisi di Bankitalia emerge che, contrariamente a scenari catastrofici, l’impatto medio è, per ora, contenuto ma eterogeneo. Prima dello choc, gli esportatori verso gli Usa avevano un margine medio di profitto del 10,1%. Si stima che i dazi portino a una riduzione dei margini di circa 0,3 punti percentuali per la maggior parte delle imprese (circa il 75%). Questa fluttuazione è considerata gestibile, poiché rientra nelle normali variazioni cicliche del decennio scorso. Vale in linea generale ma si evidenzia anche che una serie di imprese (circa il 6,4% in più rispetto al normale) potrebbe subire perdite severe, nel caso di dazi più alti o con durata maggiore. Si tratta di aziende che vivono in una situazione particolare, ovvero i cui ricavi dipendono in modo massiccio dal mercato americano (il 6-7% che vive di solo export Usa, con margini ridotti) e che operano in settori con bassa elasticità di sostituzione o dove non è possibile trasferire l’aumento dei costi sui prezzi finali.
I tecnici di Bankitalia mettono in evidenza un altro aspetto del sistema di imprese italiane: oltre la metà dell’esposizione italiana agli Usa è di tipo indiretto. Molte Pmi (piccole e medie imprese) che non compaiono nelle statistiche dell’export sono in realtà vulnerabili perché producono componenti per i grandi gruppi esportatori. L’analisi mostra che i legami di «primo livello» (fornitore diretto dell’esportatore) sono i più colpiti, mentre l’effetto si diluisce risalendo ulteriormente la catena di produzione.
Si stanno verificando due comportamenti delle imprese a cominciare dal «pricing to market». Ovvero tante aziende scelgono di non aumentare i prezzi di vendita negli Stati Uniti per non perdere quote di mercato e preferiscono assorbire il costo del dazio riducendo i propri guadagni. Poi, per i prodotti di alta qualità, il made in Italy d’eccellenza, i consumatori americani sono disposti a pagare un prezzo più alto, permettendo all’impresa di trasferire parte del dazio sul prezzo finale senza crolli nelle vendite.
Lo studio offre una prospettiva interessante sulla distribuzione geografica e settoriale dell’effetto dei dazi. Anche se l’impatto è definito «marginale» in termini di punti percentuali sui profitti, il Nord Italia è l’area più esposta. Nell’asse Lombardia-Emilia-Romagna si concentra la maggior parte degli esportatori di macchinari e componentistica, e siccome le filiere sono molto lunghe, un calo della domanda negli Usa rimbalza sui subfornitori locali. Il settore automotive, dovendo competere con i produttori americani che non pagano i dazi, è quello che soffre di più dell’erosione dei margini. Nel Sud l’esposizione è minore in termini di volumi totali.
Un elemento di preoccupazione non trascurabile è la pressione competitiva asiatica. Gli Usa, chiudendo le porte alla Cina, inducono Pechino a spostare la sua offerta verso i mercati terzi. Lo studio avverte che i settori italiani che non esportano negli Usa potrebbero comunque soffrire a causa di un’ondata di prodotti cinesi a basso costo nei mercati europei o emergenti, erodendo le quote di mercato italiane.
Bankitalia sottolinea, nel report, che il sistema produttivo italiano possiede una discreta resilienza complessiva. Le principali indicazioni per il futuro includono la necessità di diversificare i mercati di sbocco e l’attenzione alle dinamiche di dumping o eccesso di offerta derivanti dalla diversione dei flussi commerciali globali.
Questo studio si affianca al precedente rapporto che integra queste analisi con dati derivanti da sondaggi diretti presso le imprese, confermando che circa il 20% delle aziende italiane ha già percepito un impatto negativo, seppur moderato, nella prima parte dell’anno.
Continua a leggereRiduci
iStock
Il punto è che l’argento ha trovato il modo perfetto per piacere a tutti. Agli investitori spaventati dal debito mondiale fuori controllo che potrebbe incenerire il valore delle monete, ai gestori che temono la stagflazione (il mostro fatto da inflazione e recessione), a chi guarda con sospetto al dollaro e all’indipendenza della Fed. Ma anche - ed è qui la vera svolta - all’economia reale che corre verso l’elettrificazione, la digitalizzazione e l’Intelligenza artificiale. Un metallo bipartisan, potremmo dire: piace ai falchi e alle colombe, ai trader e agli ingegneri.
Dietro il rally non c’è solo la solita corsa al riparo mentre i tassi Usa scendono fra le prudenze di Powell e le intemperanze di Trump. Il debito globale fa il giro del mondo senza mai fermarsi. C’è soprattutto una domanda industriale che cresce come l’appetito di un adolescente davanti a una pizza maxi. L’argento ha proprietà di conducibilità elettrica e termica che lo rendono insostituibile in una lunga serie di tecnologie chiave. E così, mentre il mondo si elettrifica, si digitalizza e si affida sempre più agli algoritmi, il metallo lucente diventa il filo conduttore - letteralmente - della nuova economia.
Prendiamo il fotovoltaico. Nel 2014 assorbiva appena l’11% della domanda industriale di argento. Dieci anni dopo siamo al 29%. Certo, i produttori di pannelli sono diventati più efficienti e riescono a usare meno metallo per modulo. Ma dall’altra parte della bilancia ci sono obiettivi sempre più ambiziosi: l’Unione europea punta ad almeno 700 gigawatt di capacità solare entro il 2030. Tradotto: anche con celle più parsimoniose, di argento ne servirà comunque a palate.
Poi ci sono le auto elettriche, che di sobrio hanno solo il rumore del motore. Ogni veicolo elettrico consuma tra il 67% e il 79% di argento in più rispetto a un’auto a combustione interna. Dai sistemi di gestione delle batterie all’elettronica di potenza, fino alle colonnine di ricarica, l’argento è ovunque. Oxford Economics stima che già entro il 2027 i veicoli a batteria supereranno le auto tradizionali come principale fonte di domanda di argento nel settore automotive. E nel 2031 rappresenteranno il 59% del mercato. Altro che rottamazione: qui è l’argento che prende il volante.
Capitolo data center e Intelligenza artificiale. Qui i numeri fanno girare la testa: la capacità energetica globale dell’IT è passata da meno di 1 gigawatt nel 2000 a quasi 50 gigawatt nel 2025. Un aumento del 5.252%. Ogni server, ogni chip, ogni infrastruttura che alimenta l’Intelligenza artificiale ha bisogno di metalli critici. E indovinate chi c’è sempre, silenzioso ma indispensabile? Esatto, l’argento. I governi lo hanno capito e trattano ormai i data center come infrastrutture strategiche, tra incentivi fiscali e corsie preferenziali. Il risultato è una domanda strutturale destinata a durare ben oltre l’ennesimo ciclo speculativo.
Intanto, sul fronte dell’offerta, la musica è tutt’altro che allegra. La produzione globale cresce a passo di lumaca, il riciclo aumenta ma non basta e il mercato è in deficit per il quinto anno consecutivo. Dal 2021 al 2025 il buco cumulato sfiora le 820 milioni di once (circa 26.000 tonnellate). Un dettaglio che aiuta a spiegare perché, nonostante qualche correzione, i prezzi restino ostinatamente alti e la liquidità sia spesso sotto pressione, con tassi di locazione da record e consegne massicce nei depositi del Chicago Mercantile Exchange, il più importante listino del settore.
Nel frattempo gli investitori votano con il portafoglio. Gli scambi sui derivati dell’argento sono saliti del 18% in pochi mesi. Il rapporto oro-argento è sceso, segnale che anche gli istituzionali iniziano a guardare al metallo bianco con occhi diversi. Non più solo assicurazione contro il caos, ma scommessa sulla trasformazione dell’economia globale.
Ecco perché l’argento oggi non si limita a brillare: racconta una storia. Quella di un mondo che cambia, che consuma più elettricità, più dati, più tecnologia. Un mondo che ha bisogno di metalli «di nuova generazione», come li definisce Oxford Economics. L’oro resta il re dei ben rifugio, ma l’argento si è preso il ruolo più ambizioso: essere il ponte tra la paura del presente e la scommessa sul futuro. E a giudicare dai prezzi, il mercato ha già deciso da che parte stare.
Continua a leggereRiduci