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2022-07-19
Salta il trucco dei pasdaran di Draghi per trascinare avanti l’esecutivo
Maria Elisabetta Casellati e Roberto Fico (Ansa)
«Più no che sì»: a 24 ore dal voto di fiducia di domani, Mario Draghi è ancora orientato a confermare le sue dimissioni, rendendole irrevocabili e mandando l’Italia al voto tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre, come spiegano alla Verità dall’entourage del presidente del Consiglio, ieri in missione in Algeria. Un Draghi che, impegnato in un vertice intergovernativo denso di importantissimi argomenti, a partire dalla ricerca di fornitori energetici alternativi alla Russia, ha completamente e comprensibilmente ignorato il teatrino andato in scena in mattinata a Roma, che ha visto come protagonista il capogruppo alla Camera del M5s, Davide Crippa, il quale ha maldestramente tentato di sovvertire la prassi istituzionale, puntando a far svolgere prima alla Camera e poi al Senato le comunicazioni fiduciarie di Draghi, alle quali seguirà la discussione e appunto il voto di fiducia per appello nominale. Draghi infatti deve parlare prima al Senato per il semplice motivo che la crisi è esplosa proprio lì, quando lo scorso 16 luglio il M5s non ha partecipato al voto di fiducia sul dl Aiuti. Crippa, schierato con i governisti del M5s, avrebbe voluto invertire l’ordine naturale degli interventi di Draghi poiché, alla Camera, lo stesso Crippa, salvo imprevisti, uscirà dal M5s, portandosi dietro una pattuglia di deputati, e voterà la fiducia al governo.
A quanto ci risulta, questi nuovi scissionisti non confluiranno in Insieme per il futuro, il movimento di Luigi Di Maio, ma formeranno un gruppo autonomo, anche se il contatto con il ministro degli Esteri è costante. Al Senato, invece, il M5s è compatto. In conferenza dei capigruppo, ieri mattina a Montecitorio, Crippa ha quindi chiesto, sostenuto dalla collega del Pd Debora Serracchiani e da Italia viva, di far svolgere le comunicazioni di Draghi prima a Montecitorio e poi a Palazzo Madama, ma il tentativo, è stato stoppato dal centrodestra e dalle regole. Una telefonata tra i presidenti dei due rami del Parlamento, Roberto Fico e Maria Elisabetta Alberti Casellati, ha sciolto ogni dubbio: si parte dal Senato e poi si va alla Camera, gli orari saranno decisi oggi. Crippa è stato aspramente criticato dai suoi stessi colleghi parlamentari, mentre Giuseppe Conte ha fatto sapere di essere completamente all’oscuro della manovra.
Un pasticcio che, agli occhi di Draghi, che non ne può più del caos politico che mina la stabilità e l’efficacia operativa del governo da lui presieduto, è apparso come un ulteriore elemento di confusione. L’unica cosa che non manca a Draghi sono i numeri (comodi) in Parlamento: il il presidente del Consiglio ha motivato le sue dimissioni con il frantumarsi dello spirito di unità nazionale alla base della nascita del suo esecutivo. Detto in parole povere, la manfrina che ha visto protagonisti Crippa e i suoi compagni di sventura è stata un autogol, l’ennesimo pallone sparato nella propria porta da Pd e compagnia teatrante.
Torniamo al punto centrale: cosa farà domani Draghi? A quanto risulta alla Verità, al Quirinale non c’è ottimismo. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è completamente defilato rispetto a un evolversi della situazione che risponde solo a logiche di partito. Inevitabile la preoccupazione di Mattarella per il rischio che la crisi di governo comprometta il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr e per l’esplodere della stessa crisi in un momento così delicato dal punto di vista economico, sociale e internazionale, e oltretutto a pochi mesi dalla scadenza naturale della legislatura. Detto ciò, resta ferma l’intenzione di Mattarella di sciogliere le Camere in caso di conferma delle dimissioni di Draghi: le elezioni tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre consentirebbero al nuovo governo di entrare in carica in tempo per l’approvazione della legge di bilancio. Tutto dipende, dunque, dalle intenzioni del premier: nessuno al momento può escludere che il «nonno» al servizio delle istituzioni possa perdonare i nipotini scapigliati, ovvero i partiti politici, accogliendo in extremis nella sua infinita misericordia gli appelli a restare a Palazzo Chigi che gli stanno arrivando da ogni angolo della galassia. «Quando lanci una palla di neve in discesa», dice alla Verità una fonte molto ben informata dei fatti, «rischi di creare una valanga, ed è quello che sta succedendo». La scissione bis del M5s rappresenta, secondo una fonte di governo, «l’unica opzione praticabile che possa cambiare qualcosa. Draghi vedrà che la manovra di Conte ha spaccato anche ciò che resta del M5s e si convincerà a restare». Sembra più una pia speranza che una previsione, considerato che l’ex capo della Bce non è uno che si fa convincere da giochetti da politica politicante o da qualche convertito dell’ultimo minuto, folgorato sulla via di Damasco che porta alle poltrone parlamentari.
Detto ciò, l’unica cosa certa è che domani, Crippa o non Crippa, Draghi (a meno che la Lega non si sfili) incasserà una ampia fiducia sia al Senato sia alla Camera, anche senza il voto dei parlamentari del M5s che resteranno fedeli alla linea di Giuseppi. Un minuto dopo, se resterà fermo sulla sua posizione, andrà a dimettersi irrevocabilmente. Un’altra circostanza bizzarra di questa folle legislatura.
La tempesta colpirà pure le nomine
Alle prese con la crisi di governo, quel che resta del Movimento 5 stelle è anche impegnato in una lunga riflessione su quel che rimarrà di loro nelle grandi partecipate statali. Dal 2018, appena insediatosi a Palazzo Chigi, l’ex premier Giuseppe Conte aveva piazzato un po’ dappertutto uomini di fiducia. Così aveva fatto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, all’epoca numero uno del Mise. Ma adesso consiglieri di amministrazione, presidenti, membri del collegio sindacali o semplici uffici stampa che fine faranno? Il dissolvimento dei grillini avrà un impatto non indifferente sul mondo delle nomine pubbliche. Dalla presidente di Eni Lucia Calvosa, fino al consigliere di amministrazione Leonardo Carmine America (ex compagno di scuola di Di Maio), sono in tanti i profili indicati in questi anni dai 5 stelle nelle società pubbliche. C’è un caso che racconta bene la gestione del potere del Movimento di Beppe Grillo. All’epoca dell’ultima tornata di nomine una importante partecipata del Mef, la Consap fu oggetto di un tormentato percorso per nominare i nuovi vertici. Su Consap come su altre partecipate, ma succede ancora adesso, si spesero un po’ tutti. Come Beppe Fioroni, ora nella segreteria del ministro Lorenzo Guerini, che lavorava sull’asse Mise- Mef. Ma si attivarono anche gli altri ministri grillini come il triestino Stefano Patuanelli (già alle prese con Fincantieri) o il ministro Federico D’Inca, di intesa con il sottosegretario Giovanni Pichetto Fratin, come anche Fabiana Dadone, che all’epoca del governo Conte ricopriva il ruolo di ministro per la Pubblica amministrazione. Peccato che l’equilibrio fu più che mai instabile
Ci fu bisogno di un intero anno di proroga per partorire alla fine un «topolino», con la nomina dell’amministratore delegato Vincenzo Sanasi D’Arpe. Terminava così l’era di Mauro Masi, anche se l’ex direttore generale della Rai alla fine rimase. Il Mef gli riservò la carica di presidente (a titolo gratuito) forse intuendo che era necessario un uomo di garanzia. Il nome di Sanasi era stato imposto da Riccardo Fraccaro approfittando della sua carica di segretario di Palazzo Chigi per piantare una bandierina 5 stelle in Consap. La società era molto ambita anche dal Pd che si dovette accontentare solo della nomina a consigliere di Elisabetta Maggini. Erano gli anni ruggenti dei grillini sulle partecipate, con Fraccaro e anche l’ex viceministro Stefano Buffagni a riempire le caselle. A volte anche a moltiplicarle, perché nel 2020 si decise di sdoppiare le cariche in Consap prima occupate da Masi, cioè sia di presidente sia di amministratore delegato. Conte avallò così le indicazioni dei grillini. Va ricordato che Consap è la Concessionaria servizi assicurativi pubblici, nata dall’Istituto nazionale assicurazioni. Ha diversi compiti, tra cui la liquidazione delle cessioni legali di tutte compagnie e soprattutto la gestione del Fondo vittime della strada detenuto per legge dall’Ina dal 1969.
Il Mef, all’epoca occupato dall’attuale sindaco di Roma Roberto Gualtieri, acconsentì a mettere Vittorio Rispoli come direttore generale quale terza figura apicale, tra Sanasi D’Arpe e Masi. Del resto, trovare la quadra tra 5 stelle e Pd non fu semplice. Al punto che in questi anni sono state sovrapposte in modo speculare le deleghe dell’amministratore delegato e quelle del direttore generale. Sin da subito Rispoli aveva sollevato l’incongruenza nelle prime sedute del consiglio di amministrazione con un esposto denuncia comunicato al Mef e al Mise. Il risultato è stata una congestione nell’amministrazione della partecipata assicurativa e il blocco del lavoro. Sanasi in questi anni ha provato convincere gli addetti ai lavori che esisteva una differenza sostanziale tra deleghe e funzioni, invano.
Il risultato non è stato altro che una guerra strisciante, ben gestita da Masi, per garantire all’azionista di evitare brutte figure per le scelte fatte solo in ragione di non disturbare il Movimento 5 stelle. Così, si sono succedute innumerevoli sedute del nuovo consiglio di amministrazione incentrate sullo sterile dibattito interno circa le competenze. Nel frattempo, il Movimento 5 stelle ha iniziato il suo percorso crepuscolare, oggi al tramonto con pesanti riflessi sullo stato d’animo e sulle certezze di Sanasi D’Arpe, che a quanto pare sarebbe già in cerca di un nuovo cappello politico. Perché i 5 stelle continueranno anche la loro lenta agonia, ma gli uomini delle partecipate fanno di tutto per sopravvivere.
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Il capogruppo grillino Davide Crippa tenta di far votare prima la fiducia alla Camera seguendo Pd e renziani, ma Roberto Fico e Maria Elisabetta Casellati lo bloccano: si parte dal Senato. Il teatrino non convince il premier. Sergio Mattarella pessimista.La crisi del Movimento investe le partecipate in cui Giuseppe Conte ha strappato posizioni chiave. Ad esempio Consap, dove Riccardo Fraccaro ha imposto Vincenzo Sanasi D’Arpe come numero uno.Lo speciale contiene due articoli.«Più no che sì»: a 24 ore dal voto di fiducia di domani, Mario Draghi è ancora orientato a confermare le sue dimissioni, rendendole irrevocabili e mandando l’Italia al voto tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre, come spiegano alla Verità dall’entourage del presidente del Consiglio, ieri in missione in Algeria. Un Draghi che, impegnato in un vertice intergovernativo denso di importantissimi argomenti, a partire dalla ricerca di fornitori energetici alternativi alla Russia, ha completamente e comprensibilmente ignorato il teatrino andato in scena in mattinata a Roma, che ha visto come protagonista il capogruppo alla Camera del M5s, Davide Crippa, il quale ha maldestramente tentato di sovvertire la prassi istituzionale, puntando a far svolgere prima alla Camera e poi al Senato le comunicazioni fiduciarie di Draghi, alle quali seguirà la discussione e appunto il voto di fiducia per appello nominale. Draghi infatti deve parlare prima al Senato per il semplice motivo che la crisi è esplosa proprio lì, quando lo scorso 16 luglio il M5s non ha partecipato al voto di fiducia sul dl Aiuti. Crippa, schierato con i governisti del M5s, avrebbe voluto invertire l’ordine naturale degli interventi di Draghi poiché, alla Camera, lo stesso Crippa, salvo imprevisti, uscirà dal M5s, portandosi dietro una pattuglia di deputati, e voterà la fiducia al governo. A quanto ci risulta, questi nuovi scissionisti non confluiranno in Insieme per il futuro, il movimento di Luigi Di Maio, ma formeranno un gruppo autonomo, anche se il contatto con il ministro degli Esteri è costante. Al Senato, invece, il M5s è compatto. In conferenza dei capigruppo, ieri mattina a Montecitorio, Crippa ha quindi chiesto, sostenuto dalla collega del Pd Debora Serracchiani e da Italia viva, di far svolgere le comunicazioni di Draghi prima a Montecitorio e poi a Palazzo Madama, ma il tentativo, è stato stoppato dal centrodestra e dalle regole. Una telefonata tra i presidenti dei due rami del Parlamento, Roberto Fico e Maria Elisabetta Alberti Casellati, ha sciolto ogni dubbio: si parte dal Senato e poi si va alla Camera, gli orari saranno decisi oggi. Crippa è stato aspramente criticato dai suoi stessi colleghi parlamentari, mentre Giuseppe Conte ha fatto sapere di essere completamente all’oscuro della manovra. Un pasticcio che, agli occhi di Draghi, che non ne può più del caos politico che mina la stabilità e l’efficacia operativa del governo da lui presieduto, è apparso come un ulteriore elemento di confusione. L’unica cosa che non manca a Draghi sono i numeri (comodi) in Parlamento: il il presidente del Consiglio ha motivato le sue dimissioni con il frantumarsi dello spirito di unità nazionale alla base della nascita del suo esecutivo. Detto in parole povere, la manfrina che ha visto protagonisti Crippa e i suoi compagni di sventura è stata un autogol, l’ennesimo pallone sparato nella propria porta da Pd e compagnia teatrante. Torniamo al punto centrale: cosa farà domani Draghi? A quanto risulta alla Verità, al Quirinale non c’è ottimismo. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è completamente defilato rispetto a un evolversi della situazione che risponde solo a logiche di partito. Inevitabile la preoccupazione di Mattarella per il rischio che la crisi di governo comprometta il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr e per l’esplodere della stessa crisi in un momento così delicato dal punto di vista economico, sociale e internazionale, e oltretutto a pochi mesi dalla scadenza naturale della legislatura. Detto ciò, resta ferma l’intenzione di Mattarella di sciogliere le Camere in caso di conferma delle dimissioni di Draghi: le elezioni tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre consentirebbero al nuovo governo di entrare in carica in tempo per l’approvazione della legge di bilancio. Tutto dipende, dunque, dalle intenzioni del premier: nessuno al momento può escludere che il «nonno» al servizio delle istituzioni possa perdonare i nipotini scapigliati, ovvero i partiti politici, accogliendo in extremis nella sua infinita misericordia gli appelli a restare a Palazzo Chigi che gli stanno arrivando da ogni angolo della galassia. «Quando lanci una palla di neve in discesa», dice alla Verità una fonte molto ben informata dei fatti, «rischi di creare una valanga, ed è quello che sta succedendo». La scissione bis del M5s rappresenta, secondo una fonte di governo, «l’unica opzione praticabile che possa cambiare qualcosa. Draghi vedrà che la manovra di Conte ha spaccato anche ciò che resta del M5s e si convincerà a restare». Sembra più una pia speranza che una previsione, considerato che l’ex capo della Bce non è uno che si fa convincere da giochetti da politica politicante o da qualche convertito dell’ultimo minuto, folgorato sulla via di Damasco che porta alle poltrone parlamentari. Detto ciò, l’unica cosa certa è che domani, Crippa o non Crippa, Draghi (a meno che la Lega non si sfili) incasserà una ampia fiducia sia al Senato sia alla Camera, anche senza il voto dei parlamentari del M5s che resteranno fedeli alla linea di Giuseppi. Un minuto dopo, se resterà fermo sulla sua posizione, andrà a dimettersi irrevocabilmente. 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Il dissolvimento dei grillini avrà un impatto non indifferente sul mondo delle nomine pubbliche. Dalla presidente di Eni Lucia Calvosa, fino al consigliere di amministrazione Leonardo Carmine America (ex compagno di scuola di Di Maio), sono in tanti i profili indicati in questi anni dai 5 stelle nelle società pubbliche. C’è un caso che racconta bene la gestione del potere del Movimento di Beppe Grillo. All’epoca dell’ultima tornata di nomine una importante partecipata del Mef, la Consap fu oggetto di un tormentato percorso per nominare i nuovi vertici. Su Consap come su altre partecipate, ma succede ancora adesso, si spesero un po’ tutti. Come Beppe Fioroni, ora nella segreteria del ministro Lorenzo Guerini, che lavorava sull’asse Mise- Mef. Ma si attivarono anche gli altri ministri grillini come il triestino Stefano Patuanelli (già alle prese con Fincantieri) o il ministro Federico D’Inca, di intesa con il sottosegretario Giovanni Pichetto Fratin, come anche Fabiana Dadone, che all’epoca del governo Conte ricopriva il ruolo di ministro per la Pubblica amministrazione. Peccato che l’equilibrio fu più che mai instabile Ci fu bisogno di un intero anno di proroga per partorire alla fine un «topolino», con la nomina dell’amministratore delegato Vincenzo Sanasi D’Arpe. Terminava così l’era di Mauro Masi, anche se l’ex direttore generale della Rai alla fine rimase. Il Mef gli riservò la carica di presidente (a titolo gratuito) forse intuendo che era necessario un uomo di garanzia. Il nome di Sanasi era stato imposto da Riccardo Fraccaro approfittando della sua carica di segretario di Palazzo Chigi per piantare una bandierina 5 stelle in Consap. La società era molto ambita anche dal Pd che si dovette accontentare solo della nomina a consigliere di Elisabetta Maggini. Erano gli anni ruggenti dei grillini sulle partecipate, con Fraccaro e anche l’ex viceministro Stefano Buffagni a riempire le caselle. A volte anche a moltiplicarle, perché nel 2020 si decise di sdoppiare le cariche in Consap prima occupate da Masi, cioè sia di presidente sia di amministratore delegato. Conte avallò così le indicazioni dei grillini. Va ricordato che Consap è la Concessionaria servizi assicurativi pubblici, nata dall’Istituto nazionale assicurazioni. Ha diversi compiti, tra cui la liquidazione delle cessioni legali di tutte compagnie e soprattutto la gestione del Fondo vittime della strada detenuto per legge dall’Ina dal 1969. Il Mef, all’epoca occupato dall’attuale sindaco di Roma Roberto Gualtieri, acconsentì a mettere Vittorio Rispoli come direttore generale quale terza figura apicale, tra Sanasi D’Arpe e Masi. Del resto, trovare la quadra tra 5 stelle e Pd non fu semplice. Al punto che in questi anni sono state sovrapposte in modo speculare le deleghe dell’amministratore delegato e quelle del direttore generale. Sin da subito Rispoli aveva sollevato l’incongruenza nelle prime sedute del consiglio di amministrazione con un esposto denuncia comunicato al Mef e al Mise. Il risultato è stata una congestione nell’amministrazione della partecipata assicurativa e il blocco del lavoro. Sanasi in questi anni ha provato convincere gli addetti ai lavori che esisteva una differenza sostanziale tra deleghe e funzioni, invano. Il risultato non è stato altro che una guerra strisciante, ben gestita da Masi, per garantire all’azionista di evitare brutte figure per le scelte fatte solo in ragione di non disturbare il Movimento 5 stelle. Così, si sono succedute innumerevoli sedute del nuovo consiglio di amministrazione incentrate sullo sterile dibattito interno circa le competenze. Nel frattempo, il Movimento 5 stelle ha iniziato il suo percorso crepuscolare, oggi al tramonto con pesanti riflessi sullo stato d’animo e sulle certezze di Sanasi D’Arpe, che a quanto pare sarebbe già in cerca di un nuovo cappello politico. Perché i 5 stelle continueranno anche la loro lenta agonia, ma gli uomini delle partecipate fanno di tutto per sopravvivere.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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