
Il sindaco di Milano, settimane dopo la loro comparsa, chiede di rimuovere i manifesti pro cannabis. Ma non sarebbe meglio se vietasse direttamente l'Expo degli spinelli?«Ma come, il sindaco di una grande città si accorge solo ora dei manifesti, di cui si parla da oltre da oltre un mese?». Il commento di Riccardo De Corato, assessore alla Sicurezza di Regione Lombardia, sintetizza lo sconcerto generale nel vedere concesso un evento come il festival internazionale della canapa «legale», in programma a Milano dal 3 al 5 maggio. Serviva l'intervento di un esponente di Fratelli d'Italia e della sua presidente, Giorgia Meloni (che aveva chiesto al ministro dell'Interno e al Comune di Milano di fermare la manifestazione), per dimostrare che il re è nudo?Dopo l'articolo uscito sulla Verità che ha denunciato l'assurdità di una propaganda pro sostanze stupefacenti, con Milano tappezzata di scritte «Io non sono droga» sotto una foglia di cannabis, il sindaco Giuseppe Sala dichiara di essersi rivolto all'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) «che non ha ancora risposto», e di aver chiesto agli organizzatori del festival di togliere un manifesto riconosciuto come «sbagliato, odioso, pericoloso perché un ragazzo giovane non distingue, vede una foglia di canapa, e può arrivare a pensare che la marijuana sia legale». Bravo sindaco, finalmente ci sei arrivato. Peccato che la pubblicità della 4.20 Hemp fest sia iniziata ai primi di aprile, non tre giorni fa, con tanto di vendita di 7.000 piantine di cannabis nel centro di Milano offerte da giovani. In bella mostra accanto ai teneri virgulti, oltre all'adesivo del festival c'era la stessa vergognosa scritta che oggi campeggia in città sui cartelloni: «Non sono una droga». La cannabis non sarebbe una droga, questo è il micidiale messaggio che esce dalla tre giorni in programma questa settimana nel cuore del centro fieristico milanese. Sala prende le distanze dai manifesti ma non dalla manifestazione: «Non credo che si possa vietare l'evento in sé», ha fatto sapere. Ma come, chiedi di togliere la pubblicità di un festival sulla cannabis e permetti che la rassegna abbia luogo? Su 8.000 metri quadrati nel centro di Milano, pagando 51 euro per seguire workshop come «Attualità e normative su produzione e consumo», corsi base e intensivi sulla coltivazione, od optando per una full immersion nelle «Prospettive sulle modalità di vendita della cannabis light e dei prodotti a base di Cbd», ovvero il cannabidiolo. Quale operazione di facciata dovrebbe essere chiedere al vice sindaco Anna Scavuzzo di adoperarsi per far togliere dagli organizzatori scritte «pericolose» e poi permettere che centinaia di migliaia di ragazzi partecipino alla celebrazione della cannabis in uno spazio fieristico? Il Comune di Milano conosce bene la programmazione degli eventi culturali, commerciali, non ignora le promozioni che autorizza sulle strade e nelle piazze, eppure finge di cadere dalle nuvole. Ancor peggio, nulla fa per vietare la 4.20 Hemp fest che si rifà apertamente alla leggenda americana di una piantagione di marijuana ricercata da giovani per anni, ritrovandosi sempre alle 4.20. Poi vogliono farci credere che gli oltre 150 espositori mostreranno solo che cosa si ricava dalla canapa, ovvero carta, tessuti, alimentazione, banche di semi, tanto per citare alcuni degli utilizzi più commerciali. Giuseppe Sala finge di ignorare l'effetto devastante di un meeting sulla cannabis, «la droga illecita più comunemente usata dalla popolazione generale: l'Italia nel suo consumo è seconda solo alla Francia», riportava lo scorso giugno l'Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (Oedt), segnalando che «gli studenti italiani hanno riportato i tassi di prevalenza dell'uso di cannabis nell'arco della vita al di sopra della media Espad (35 Paesi)». Basterebbe un briciolo di buon senso per vietare manifestazioni devastanti sotto il profilo educativo, capaci di vanificare gli sforzi di famiglie, associazioni, volontari impegnati nella lotta contro la droga. Che non è mai light, il fumo e lo spinello sono quasi sempre anticamera di utilizzo massiccio di sostanze stupefacenti. Se il Comune di Milano snobba i risultati di ricerche scientifiche, tra le quali gli esiti di indagini sul facile potenziamento della cosiddetta cannabis light, estraendo il principio attivo e potenziandolo venti volte tanto rispetto ai limiti consentiti per legge (come ha dimostrato Giovanni Serpelloni, già capo dipartimento anti droga della presidenza del Consiglio), potrebbe almeno documentarsi sulle statistiche più recenti che rivelano quanto il problema droga e tossicodipendenza in Italia riguardi sempre più i giovani. È un'emergenza nazionale. O sulle testimonianze di chi combatte ogni giorno una battaglia contro le tossicodipendenze, come fa la Comunità di San Patrignano che ha dichiarato di accogliere «sempre più giovani, oltre 500 nel 2017, gran parte dei quali attraverso la cannabis ha il primo contatto con le sostanze». Gli adolescenti non percepiscono la pericolosità della cannabis, quando hanno i mezzi per farlo scuola, famiglia, operatori faticano a metterli in guardia sull'utilizzo di una droga che non è affatto leggera ma è di moda, è alternativa, è «green». Affermare la versatilità della canapa promuovendo la cannabis è una sporca operazione. Il Comune di Milano deve prenderne le distanze.
(IStock)
Pure la Francia fustiga l’ostinazione green di Bruxelles: il ministro Barbut, al Consiglio europeo sull’ambiente, ha detto che il taglio delle emissioni in Ue «non porta nulla». In Uk sono alle prese con le ambulanze «alla spina»: costate un salasso, sono inefficienti.
Con la Cop 30 in partenza domani in Brasile, pare che alcuni Paesi europei si stiano svegliando dall’illusione green, realizzando che l’ambizioso taglio delle emissioni in Europa non avrà alcun impatto rilevante sullo stato di salute del pianeta visto che il resto del mondo continua a inquinare. Ciò emerge dalle oltre 24 ore di trattative a Bruxelles per accordarsi sui target dell’Ue per il clima, con alcune dichiarazioni che parlano chiaro.
Ranieri Guerra (Imagoeconomica). Nel riquadro, Cristiana Salvi
Nelle carte di Zambon alla Procura gli scambi di opinioni tra i funzionari Cristiana Salvi e Ranieri Guerra: «Mitighiamo le critiche, Roma deve rifinanziare il nostro centro a Venezia e non vogliamo contrattacchi».
Un rapporto tecnico, destinato a spiegare al mondo come l’Italia aveva reagito alla pandemia da Covid 19, si è trasformato in un dossier da riscrivere per «mitigare le parti più problematiche». Le correzioni da apportare misurano la distanza tra ciò che l’Organizzazione mondiale della sanità dovrebbe essere e ciò che era diventata: un organismo che, di fronte a una crisi globale, ha scelto la prudenza diplomatica invece della verità. A leggere i documenti depositati alla Procura di Bergamo da Francesco Zambon, funzionario senior per le emergenze sanitarie dell’Ufficio regionale per l’Europa dell’Oms, il confine tra verità scientifica e volontà politica è stato superato.
iStock
L’annuncio per un’abitazione a Roma. La padrona di casa: «Non dovete polemizzare».
La teoria di origine statunitense della «discriminazione positiva» ha almeno questo di buono: è chiara e limpida nei suoi intenti non egualitari, un po’ come le quote rosa o il bagno (solo) per trans. Ma se non si fa attenzione, ci vuole un attimo affinché la presunta e buonista «inclusione» si trasformi in una clava che esclude e mortifica qualcuno di «meno gradito».
Su Facebook, la piattaforma di Mark Zuckerberg che ha fatto dell’inclusività uno dei principali «valori della community», è appena apparso un post che rappresenta al meglio l’ipocrisia in salsa arcobaleno.






