2021-04-22
«Saddam Hussein e la pistola sul tavolo. Così salvammo 400 ostaggi in Iraq»
Roberto Formigoni (Getty Images)
Don Luigi Giussani, politica, Lombardia, inchieste, carcere, rapporti con Cl: Roberto Formigoni si racconta in un libro prefato da Camillo Ruini.Per me la crisi degli ostaggi comincia la mattina del 3 agosto '90, quando vengo svegliato nella mia stanza in un hotel della Val Badia dove alloggiavo all'indomani della conclusione degli esercizi spirituali dei Memores Domini, che si erano svolti a Corvara. Era il mio primo giorno di vacanza: parlamento italiano e parlamento europeo avevano chiuso i battenti, gli esercizi erano terminati e io, stanchissimo, me la stavo prendendo comoda. Mi chiamarono in stanza dalla portineria: «Ci scusi, non sappiamo più come fare: continuano ad arrivare telefonate per lei. Ieri notte c'è stato una specie di colpo di Stato in Medio Oriente, e adesso stanno arrivando in continuazione chiamate per lei soprattutto dalla Lombardia».[...] In Iraq operavano decine di tecnici italiani specialisti del settore degli idrocarburi, in maggioranza originari della Lombardia, appartenenti ad Eni e Saipem; c'erano pure molti artigiani dei settori del mobile e dell'arredo, che lavoravano ad importanti commesse per i palazzi presidenziali e per l'aeroporto di Baghdad, anche questi soprattutto lombardi. Costoro temevano di non poter rientrare: avevano chiamato le famiglie, e queste stavano chiamando il deputato eletto nella loro circoscrizione. Avevano ragione: il 9 agosto l'Iraq chiuse le sue frontiere, e il 18 agosto annunciò che i lavoratori occidentali sarebbero stati trattenuti nel paese come «ospiti». In Occidente la parola «ospiti» fu tradotta con «ostaggi» e poi «scudi umani», man mano che si avvicinava lo scenario di guerra. Si diceva che gli occidentali sarebbero stati collocati nei pressi degli obiettivi strategici che la coalizione militare guidata dagli Stati Uniti avrebbe potuto colpire. Mi mossi subito, contattando il ministero degli Esteri e il ministro di allora, il socialista Gianni De Michelis, e l'unità di crisi presso la presidenza del Consiglio: a capo del governo c'era Giulio Andreotti. Ero convinto che il primo obiettivo da perseguire fosse la liberazione dei circa 10 mila ostaggi occidentali, di cui 250 italiani, trattenuti in Iraq, ma occorreva anche una soluzione negoziata della crisi che evitasse la guerra. Consideravo sbagliato l'approccio degli Stati Uniti e dei loro alleati, subito minacciosi, che avrebbe portato a una nuova guerra con grandi distruzioni e perdite di vite umane. L'Iraq aveva certamente compiuto un'azione inaccettabile, ma non bisognava peggiorare le cose e soprattutto dimenticare le cause che avevano portato a quella situazione. Tuttavia i giorni passano e nulla si muove. A fine agosto riapre il parlamento europeo, e io subito lancio la proposta di una missione parlamentare che visiti le principali capitali arabe per creare le condizioni per una soluzione pacifica della crisi. Chiedo al governo italiano, che in quel semestre detiene la presidenza della Cee, di appoggiare la missione, e ottengo qualcosa: la presidenza del Consiglio mette a disposizione un aereo e si accolla le spese della missione. Parte così una delegazione del parlamento europeo capeggiata da me, che sono uno dei vice presidenti, e in sei giorni visitiamo sei capitali, fra le quali Tunisi, Il Cairo, Amman, Damasco, Rabat, ecc. Incontriamo presidenti e monarchi. In tutti gli incontri nel corso di quella missione confermiamo il nostro sostegno alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'Onu che avevano condannato l'invasione del Kuwait, ma spieghiamo che non vogliamo un'altra guerra nel cuore del mondo arabo, per di più internazionalizzata, che sarebbe stata interpretata come una guerra dell'Occidente contro gli arabi e i musulmani. La nostra linea, poco popolare presso le cancellerie, era sostenuta e incoraggiata da Giovanni Paolo II. [...] In Italia si cominciò a parlare di una missione Fanfani: più volte capo del governo e ministro degli Esteri, il vecchio leader Dc era stato anche presidente dell'Assemblea delle Nazioni Unite. Sarebbe stato perfetto, e io mi pronuncio a favore. Ma alla fine non se ne fa nulla, nonostante la montante esasperazione dei parenti degli italiani rimasti in Iraq e nonostante i venti di guerra si facessero ogni settimana più minacciosi. È a quel punto che io concepisco l'idea di organizzare una missione italiana ufficiosa con esponenti di comunità religiose, della società civile e di amministrazioni locali. [...] Partiamo il 30 novembre in nove e voliamo su Amman. Da lì per via di strada ci dirigiamo su Baghdad, il cui aeroporto era chiuso perché tutti i voli internazionali erano stati cancellati. Attraversiamo con le jeep i 1.150 km di deserto fra la Giordania e la provincia irachena di Anbar e arriviamo nella capitale, dove avevamo molti appuntamenti. Incontro il presidente del parlamento, incontro il patriarca caldeo Raphael Bidawid, incontro Tarek Aziz, vice presidente dell'Iraq e unico cristiano presente nel governo, e al sesto giorno, insieme ad alcuni altri, sono invitato a incontrare Saddam Hussein. [...]Veniamo caricati su un pulmino coi vetri oscurati che fa un percorso lungo e tortuoso prima di scaricarci davanti a una delle residenze del capo dello stato. Ci accompagnano in una saletta; dopo non troppo tempo arriva Saddam Hussein in persona, in divisa militare. Il suo primo gesto è quello di prendere la grossa pistola che teneva in una fondina e di deporla sul tavolo tra lui e noi. Prendo la parola in italiano, come previsto dal protocollo, e faccio un discorso articolato: non sono tenero con la linea della coalizione occidentale, ma nemmeno nei riguardi delle azioni del governo iracheno. [...] Dichiaro che andare alla guerra sarebbe irresponsabile, ricordo le parole di papa Giovanni Paolo II e il legame speciale e di reciproco rispetto che esiste fra l'Italia e il mondo arabo. Presento l'Italia come lo spazio geografico e politico della congiunzione fra Europa e mondo arabo; sottolineo che siamo e restiamo alleati degli Stati Uniti ma che non siamo d'accordo con la loro politica di fronte a questa crisi. Concludo chiedendo la liberazione di tutti gli occidentali rimasti in Iraq, in maggioranza italiani, lavoratori innocenti. Il colloquio con Saddam Hussein dura ben tre ore, anche a causa delle esigenze della traduzione; il rais non dice mai nulla che rappresenti un impegno da parte sua riguardo agli ostaggi, ma si dilunga in una dissertazione politica per convincerci che l'invasione irachena del Kuwait era giustificata. Insiste nello spiegarci che il Kuwait è storicamente parte del territorio iracheno, «è come se all'Italia fosse stato portato via il Friuli; il Kuwait è il nostro Friuli», dice letteralmente. Il lungo colloquio finisce, e io faccio appena in tempo a stoppare alcuni miei compagni di delegazione che vogliono consegnare a Saddam Hussein bigliettini coi nomi di loro concittadini di cui chiedevano la liberazione. Non avevano capito che il nostro colloquio col leader iracheno poteva svolgersi solo in quella forma, senza una dichiarazione di impegno da parte sua. E soprattutto non avevano capito che io chiedevo la liberazione di tutti gli ostaggi occidentali, non soltanto di qualche amichetto di Tizio o Caio. [...] Tornati in albergo, nel pomeriggio chiamano solo me per un incontro con Tarek Aziz, e il vice presidente mi comunica che Saddam Hussein ha deciso di lasciar partire con me non solo gli italiani ma tutti gli occidentali che ancora si trovavano in Iraq, circa 400 persone. [...] Nei miei interventi in Italia ai miei critici facevo sempre presente questo dato di fatto, e ricordavo che l'Iraq non era l'unico stato mediorientale sprovvisto di democrazia: in realtà non ce n'era nessuno che fosse democratico, tranne Israele. Per me era chiaro già allora che in Medio Oriente non si può «esportare» la democrazia con le armi, secondo la teoria Usa dell'epoca, ma occorreva innescare processi politici che richiedevano tempo per arrivare alla democratizzazione; e che non si poteva fare una politica del capro espiatorio, punendo un governo che aveva violato il diritto internazionale e i diritti umani ma non tutti gli altri che avevano fatto cose molto simili. Non siamo noi i giudici del mondo, e la Nato non è il gendarme del mondo. Una linea «fuori linea», la mia, certo. Ma siete sicuri che la linea ufficiale fosse quella giusta?