2020-10-16
Rischiamo di rimborsare 1 milione di stranieri
Il tribunale di Lecco ha riconosciuto come esagerata la tassa pagata da 35 immigrati per il rinnovo del permesso di soggiorno e prevista da una norma del 2011. Ora si attende una pioggia di ricorsi, con la Cgil sul piede di guerra. Ci costeranno 160 milioni.Dal 2011 per ottenere il rinnovo dei permessi di soggiorno i cittadini stranieri pagano una tassa che per metà confluiva nel Fondo rimpatri e che la Corte di giustizia europea cinque anni fa ha ritenuto sproporzionata. Da allora i tentativi messi in campo - con la regia della Cgil - per cercare di ottenere indietro quanto versato sono andati a vuoto. Ma una sentenza emessa ieri dal Tribunale di Lecco, che ha condannato il ministero dell'Economia, ha fatto breccia e, aprendo un varco, potenzialmente potrebbe permettere a tutti i migranti, che tra il 2011 e il 2020 hanno pagato la tassa che le toghe considerano «in più», di richiedere indietro le somme allo Stato. Si stima che per gli oltre 2 milioni di permessi di soggiorno rilasciati dall'introduzione della tassa siano state presentate oltre un milione di richieste di rinnovo, per una somma che supererebbe i 160 milioni di euro. Per il rinnovo dei titoli di soggiorno, infatti, ogni cittadino straniero, oltre al costo della marca da bollo, pari a 16 euro, la stampa del documento (27,50 euro) e la spedizione postale (30 euro), pagava inizialmente anche 80 euro per i permessi di soggiorno di durata superiore a tre mesi e inferiore o pari a un anno, 100 euro per i permessi di soggiorno di durata superiore a un anno e inferiore o pari a due anni e 200 euro per il rilascio del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo o per dirigenti di azienda o dipendenti altamente qualificati. La prima prescrizione della sentenza è stata accolta nel 2017, con la pubblicazione di un decreto riportante i nuovi importi da pagare, dimezzati rispetto al 2011 (e in vigore ancora oggi). Eccetto che per il bollo, i costi di stampa e di spedizione, i giudici ritengono, comunque, la restante parte dei pagamenti «discriminante». Stando a quanto riportato dall'agenzia Ansa, infatti, il Tribunale di Lecco avrebbe accertato «la discriminazione attuata nei confronti dei migranti da parte del ministero dell'Economia e delle Finanze», condannando l'ente a pagare ai ricorrenti le somme indebitamente richieste nel corso degli anni. Alla fine del giudizio di ricorrenti ne sono arrivati 35 (erano partiti in 50, attenendosi alle notizie di stampa reperibili su fonti aperte). Sono giunti in Tribunale, rappresentati dagli avvocati Alberto Guariso, Susanna Pelzel e Livio Negri dell'Asgi (Associazione studi giuridici sull'immigrazione, che in passato ha pubblicato anche la rivista Diritto, immigrazione e cittadinanza in collaborazione con Magistratura democratica, e che ha ottenuto finanziamenti da George Soros), sostenendo che il contributo era sproporzionato e incompatibile con il diritto dell'Unione europea, proprio come sancito dalla pronuncia della Corte di giustizia del 2015. All'epoca il contributo fu considerato spropositato in quanto rendeva economicamente difficoltoso l'accesso degli stranieri al regolare permesso di soggiorno («il livello cui sono fissati i contributi», sosteneva la sentenza, «non deve avere né per scopo né per effetto di creare un ostacolo al conseguimento dello status di soggiornante»). Il Tar del Lazio e il Consiglio di Stato annullarono il decreto ministeriale che durante il governo Berlusconi aveva disposto gli incrementi (mantenuto in piedi poi anche da Mario Monti e dai governi di sinistra), riconoscendo che l'amministrazione avrebbe dovuto fissare nuovi importi purché proporzionati e disciplinare la restituzione di quanto pagato in eccesso. Nel 2017, poi, il Tribunale di Napoli emise un'ordinanza con la quale accoglieva il ricorso presentato da una famiglia di migranti che si era trasferita a Melito e condannò la presidenza del Consiglio, il ministero dell'Interno e quello dell'Economia a restituire 500 euro, introducendo già il tema della discriminazione in ragione della nazionalità, in quanto le disposizioni di legge prevedevano che i cittadini stranieri corrispondessero «importi notevolmente superiori a quelli versati dai cittadini italiani per prestazioni dal contenuto analogo quale, ad esempio, il rilascio della carta d'identità». I costi, poi, secondo il giudice napoletano, avrebbero potuto rendere «l'obiettivo di conseguire i permessi di lunga durata un traguardo irraggiungibile e illusorio» per molti richiedenti, «per quanto in possesso di tutti i requisiti previsti dalla normativa eurounitaria». Insomma, per il rinnovo del permesso di soggiorno, i migranti non avrebbero dovuto pagare otto volte in più rispetto al rilascio di una semplice carta d'identità (benché iter e istruttoria dei due tipi di documento siano differenti). Tutti argomenti che da quel momento sono entrati nei vari ricorsi presentati qua e là nei Tribunali italiani. Non solo: dopo quella decisione giudiziaria circa 50.000 stranieri chiesero direttamente al governo il rimborso delle somme, senza ottenere risposta. Ora la Cgil dà fiato alle trombe: «L'Italia non solo non ha mai restituito quando dovuto, non ha mai nemmeno risposto alle richieste inviate dai cittadini dall'ufficio lecchese». E rivendica: «Questa sentenza è senza dubbio un precedente rilevante nella giurisprudenza italiana in materia di immigrazione». C'è da scommettere che migliaia di nuovi ricorsi siano già pronti a partire.
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