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2021-12-10
Tra i ricoverati crescono i vaccinati, ma i giornali dicono il contrario
Hanno abboccato, l’amo era ghiotto perché veniva data l’ennesima conta dei no Vax in pericolo di morte, quindi nessun giornale si è preso la briga di comparare i dati. L’avessero fatto, controllando quando pubblica e aggiorna l’Istituto superiore di sanità, avrebbero evitato un’altra disinformazione per i cittadini. Due giorni fa la Fiaso, federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere, ha «confermato» che è in aumento il numero dei ricoverati in gravi condizioni non vaccinati.
«In due settimane +32% no vax e -33% vax in terapia intensiva», faceva sapere, regalando a giornalisti distratti il titolo perfetto da sbattere in pasto ai lettori. Peccato che si tratti solo dei dati degli ospedali sentinella Fiaso, non della situazione delle terapie intensive in tutto il Paese dove sono in aumento i ricoveri pure dei vaccinati. E in reparto ci sono più pazienti con doppia dose che senza. I numeri arrivano dalle sedici strutture riunite in un network coordinato dall’Inmi Spallanzani di Roma, per monitorare l’andamento dei ricoveri Covid e «anticipare soluzioni organizzative per la gestione della pandemia», annunciava la Fiaso.
A diventare ospedali sentinella furono l’Asst Ospedali civili di Brescia, la Asl città di Torino, l’Irccs Ospedale policlinico San Martino di Genova, l’Azienda sanitaria Friuli Occidentale, l’Irccs Policlinico S. Orsola Malpighi di Bologna, la Fondazione Irccs Policlinico San Matteo di Pavia, la Ao Santa Croce e Carle di Cuneo, lo Spallanzani, la Asl Roma 6, la Fondazione Ptv Policlinico Tor Vergata di Roma, gli Ospedali riuniti di Ancona, l’Azienda ospedaliera Santa Maria di Terni, il Policlinico di Bari, la Asm Matera e l’Azienda ospedaliera dei Colli Monaldi Cotugno di Napoli.
«In una settimana si consolida il trend di crescita di ospedalizzazioni di pazienti non vaccinati in terapia intensiva e di contestuale riduzione dei vaccinati in gravi condizioni», ha dichiarato il presidente della Fiaso, Giovanni Migliore. Diversi sono invece i dati della sorveglianza integrata dei casi di infezione da virus Sars-CoV-2 riportati sul territorio nazionale, e coordinata dall’Iss.
Se il 24 novembre i non vaccinati in terapia intensiva erano in tutta Italia 509, quelli vaccinati con una dose 14 e quelli con due dosi 270, la settimana successiva erano saliti rispettivamente a 546, 16 e 285. Perciò il 1 dicembre i ricoveri in intensiva erano aumentati del 6,78% tra i non vaccinati, del 12,50% tra chi aveva fatto una sola dose e del 5,26% tra quanti avevano concluso in ciclo vaccinale. Altro che calo dei vaccinati come si vorrebbe far credere.
Singolare il commento del presidente della Fiaso: «Abbiamo comunque scelto di analizzare la condizione dei pazienti vaccinati in rianimazione e abbiamo rilevato come siano tutti soggetti che hanno completato il ciclo vaccinale da oltre 4 mesi», scrive nel comunicato. Ma come? Allora c’è da preoccuparsi e tanto, se dopo quattro mesi dalla vaccinazione rischi di finire in intensiva. Migliore forse non si è reso conto, ma la spiegazione che dà butta alle ortiche l’efficacia del farmaco anti Covid. «Questo da una parte suggerisce la buona protezione della vaccinazione nei primi mesi, dall’altra conferma una volta di più l’importanza di una anticipazione della terza dose soprattutto per gli anziani fragili», dichiara con la massima tranquillità. Altrimenti vai in rianimazione dopo quattro mesi?
Se poi guardiamo i dati della sorveglianza integrata dell’Iss a partire dallo scorso settembre, notiamo che gli ingressi in terapia intensiva di vaccinati con due dosi sono andati crescendo, passando da 157 l’8 settembre a 174 il 29 settembre, poi sono calati fino a 128 il 27 ottobre per tornare in costante aumento il 3 novembre (140), il 10 novembre (178), il 17 novembre (224), il 24 novembre (270) e il 1 dicembre (285).
Al contrario, i ricoveri in rianimazione di non vaccinati sono andati diminuendo dal 29 settembre (717) scendendo a 604 il 6 ottobre, 414 il 20 ottobre, 319 il 3 novembre per poi risalire a 370 il 10 di quello stesso mese e arrivando ai 546 del 1 dicembre. In rianimazione ci sono dunque molti non vaccinati, ma in compagnia di pazienti con doppia dose fatta e questo dovrebbe allarmare.
Un’occhiata ai ricoveri in ospedale per Covid è altrettanto utile, per capire quanta disinformazione sanitaria circoli. Dal 24 novembre al 1 dicembre, secondo l’Iss gli ingressi in reparto dei non vaccinati sono calati da 3.737 a 3.733 (-0,11%), quelli dei vaccinati con una dose sono aumentati da 182 a 217 (+ 16,13%) e sono cresciuti pure i ricoveri di pazienti con doppia dose, passati da 3.693 a 3.845 (+ 21,56%).
Dati che si preferisce offuscare, meglio sparare i numeri di pochi ospedali e aggiungere un focus pediatria che è di una pochezza disarmante. «Il totale dei pazienti di età inferiore ai 18 anni ricoverati negli ospedali sentinella Fiaso è di 19», si legge nel comunicato. «La metà dei ricoverati ha più di 5 anni». Informazioni davvero utili per non capire se i pazienti sono under 11 (prossimi destinatari del vaccino) o sopra i 12 anni.
«Corsie in affanno: tornino i no vax»
Andrebbe rivisto l’allontanamento dagli ospedali dei sanitari non vaccinati. Nelle corsie, medici e infermieri che hanno già ricevuto due o tre dosi di anti-Covid vivono la situazione paradossale di essere in prima linea da due anni, sempre in meno, stremati e malpagati, mentre delle risorse sono a casa perché non «immunizzate» o impossibilitate a farlo, per motivi di salute. «Non capisco l’allontanamento dal lavoro di chi non è vaccinato», dice alla Verità Giampiero Avruscio, presidente per l’Ao-Università di Padova dell’Anpo, il sindacato che rappresenta i primari ospedalieri. «Quando non avevamo il vaccino eravamo tutti al lavoro e, usando i dispositivi e i tamponi, abbiamo ridotto tantissimo il contagio intraospedaliero. Perché non far rientrare e monitorare i sanitari sospesi?». La situazione è ormai insostenibile. «I medici ospedalieri sono in carenza di organico da ben prima del Covid: solo in Veneto ne mancavano 1.300», osserva il primario di Anpo. I motivi sono diversi. «Da una parte», spiega, «un’errata programmazione delle scuole di specialità e dall’altra la scarsa valorizzazione dei medici ospedalieri: non c’è Pasqua, Natale e Ferragosto» e gli stipendi sono fermi da anni. Il Covid ha peggiorato la situazione. Molti vanno all’estero - dove guadagnano anche il doppio, con turni diversi - altri si licenziano per i fare i medici di medicina generale. «In provincia di Padova», aggiunge Avruscio, «sei pediatri ospedalieri, compreso il primario, si sono licenziati per andare sul territorio a svolgere la libera professione, dove non si è dipendenti del Sistema sanitario, si ha un rischio clinico meno gravoso e una migliore qualità della vita». Nulla di nuovo: è notizia di queste settimane che nei pronto soccorso italiani mancano 4.000 medici - il 50% della carenza si è registrato negli ultimi due anni - che i concorsi per anestesisti e rianimatori vanno deserti e che interi reparti assicurano un servizio con un quarto dell’organico ritenuto necessario. In questo contesto, anche solo una persona in più, può fare la differenza. «Al momento ci sono 230 persone non vaccinate tra i sanitari del solo ospedale di Padova, ma nell’Ulss Euganea sono 500. È un numero grande per le ricadute sull’assistenza perché quelle che restano a casa sono persone di esperienza», dice Avruscio. «Uno specializzando non può risolvere molte situazioni: ci vogliono anni - e 200.000 euro - per formare un professionista sanitario». Certo, aggiunge il primario, «i sanitari devono vaccinarsi, lo capisco, ma siamo in emergenza e le prime linee sono esauste. Perché non trovare un’altra soluzione?». Del resto, «prima del Covid», ricorda, «quando non eravamo vaccinati, abbiamo lavorato, avevamo mense e bar sempre aperti, ma grazie alle protezioni e ai tamponi - fatti con frequenza diversa in base al rischio - abbiamo mantenuto basso il contagio. Invece di allontanare i non vaccinati, lasciando tutto sulle spalle di chi resta, facciamoli rientrare e prevediamo un salivare al giorno». Questa riflessione, che l’Anpo sta facendo anche a livello nazionale, nasce anche da un’altra costatazione. Anche in chi ha fatto le due o tre dosi, deve «in ogni caso indossare i dispositivi di protezione», fa notare Avruscio. «È chiaro che con il vaccino si diminuiscono i contagi, ma non si annullano. A tale proposito, è bene ricordare che non è il numero dei contagiati a preoccupare, ma delle ospedalizzazioni in contemporanea. Il vaccino», precisa, «permette di poter stare a casa e non essere ricoverati in reparto o in rianimazione, se non in casi particolari». Infine, si deve considerare che «oggi, come anche prima dei vaccini, se il sanitario ha uno stretto contatto con un positivo, a differenza degli altri cittadini, va a lavorare lo stesso, fa tamponi ravvicinati e, solo se positivo, sta a casa», aggiunge il primario Anpo. Alle prime linee, inoltre, sono state sospese anche le ferie. «C’è un certo affaticamento e i contagi stanno aumentando: non possiamo restare senza forze lavoro, conclude Avruscio. «È controproducente allontanare i soldati di esperienza».
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I dati della Fiaso sul calo degli inoculati negli ospedali, usati per spingere le punture, si riferiscono solo a 11 strutture. L’Iss rivela invece che, nei reparti ordinari, i pazienti con doppia dose superano i non immunizzati.A Padova è emergenza per la carenza di personale sanitario. Il sindacato dei primari: «I sospesi siano reinseriti e testati ogni giorno. Ingiusto allontanare chi ha esperienza».Lo speciale contiene due articoli.Hanno abboccato, l’amo era ghiotto perché veniva data l’ennesima conta dei no Vax in pericolo di morte, quindi nessun giornale si è preso la briga di comparare i dati. L’avessero fatto, controllando quando pubblica e aggiorna l’Istituto superiore di sanità, avrebbero evitato un’altra disinformazione per i cittadini. Due giorni fa la Fiaso, federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere, ha «confermato» che è in aumento il numero dei ricoverati in gravi condizioni non vaccinati. «In due settimane +32% no vax e -33% vax in terapia intensiva», faceva sapere, regalando a giornalisti distratti il titolo perfetto da sbattere in pasto ai lettori. Peccato che si tratti solo dei dati degli ospedali sentinella Fiaso, non della situazione delle terapie intensive in tutto il Paese dove sono in aumento i ricoveri pure dei vaccinati. E in reparto ci sono più pazienti con doppia dose che senza. I numeri arrivano dalle sedici strutture riunite in un network coordinato dall’Inmi Spallanzani di Roma, per monitorare l’andamento dei ricoveri Covid e «anticipare soluzioni organizzative per la gestione della pandemia», annunciava la Fiaso. A diventare ospedali sentinella furono l’Asst Ospedali civili di Brescia, la Asl città di Torino, l’Irccs Ospedale policlinico San Martino di Genova, l’Azienda sanitaria Friuli Occidentale, l’Irccs Policlinico S. Orsola Malpighi di Bologna, la Fondazione Irccs Policlinico San Matteo di Pavia, la Ao Santa Croce e Carle di Cuneo, lo Spallanzani, la Asl Roma 6, la Fondazione Ptv Policlinico Tor Vergata di Roma, gli Ospedali riuniti di Ancona, l’Azienda ospedaliera Santa Maria di Terni, il Policlinico di Bari, la Asm Matera e l’Azienda ospedaliera dei Colli Monaldi Cotugno di Napoli. «In una settimana si consolida il trend di crescita di ospedalizzazioni di pazienti non vaccinati in terapia intensiva e di contestuale riduzione dei vaccinati in gravi condizioni», ha dichiarato il presidente della Fiaso, Giovanni Migliore. Diversi sono invece i dati della sorveglianza integrata dei casi di infezione da virus Sars-CoV-2 riportati sul territorio nazionale, e coordinata dall’Iss. Se il 24 novembre i non vaccinati in terapia intensiva erano in tutta Italia 509, quelli vaccinati con una dose 14 e quelli con due dosi 270, la settimana successiva erano saliti rispettivamente a 546, 16 e 285. Perciò il 1 dicembre i ricoveri in intensiva erano aumentati del 6,78% tra i non vaccinati, del 12,50% tra chi aveva fatto una sola dose e del 5,26% tra quanti avevano concluso in ciclo vaccinale. Altro che calo dei vaccinati come si vorrebbe far credere. Singolare il commento del presidente della Fiaso: «Abbiamo comunque scelto di analizzare la condizione dei pazienti vaccinati in rianimazione e abbiamo rilevato come siano tutti soggetti che hanno completato il ciclo vaccinale da oltre 4 mesi», scrive nel comunicato. Ma come? Allora c’è da preoccuparsi e tanto, se dopo quattro mesi dalla vaccinazione rischi di finire in intensiva. Migliore forse non si è reso conto, ma la spiegazione che dà butta alle ortiche l’efficacia del farmaco anti Covid. «Questo da una parte suggerisce la buona protezione della vaccinazione nei primi mesi, dall’altra conferma una volta di più l’importanza di una anticipazione della terza dose soprattutto per gli anziani fragili», dichiara con la massima tranquillità. Altrimenti vai in rianimazione dopo quattro mesi? Se poi guardiamo i dati della sorveglianza integrata dell’Iss a partire dallo scorso settembre, notiamo che gli ingressi in terapia intensiva di vaccinati con due dosi sono andati crescendo, passando da 157 l’8 settembre a 174 il 29 settembre, poi sono calati fino a 128 il 27 ottobre per tornare in costante aumento il 3 novembre (140), il 10 novembre (178), il 17 novembre (224), il 24 novembre (270) e il 1 dicembre (285). Al contrario, i ricoveri in rianimazione di non vaccinati sono andati diminuendo dal 29 settembre (717) scendendo a 604 il 6 ottobre, 414 il 20 ottobre, 319 il 3 novembre per poi risalire a 370 il 10 di quello stesso mese e arrivando ai 546 del 1 dicembre. In rianimazione ci sono dunque molti non vaccinati, ma in compagnia di pazienti con doppia dose fatta e questo dovrebbe allarmare. Un’occhiata ai ricoveri in ospedale per Covid è altrettanto utile, per capire quanta disinformazione sanitaria circoli. Dal 24 novembre al 1 dicembre, secondo l’Iss gli ingressi in reparto dei non vaccinati sono calati da 3.737 a 3.733 (-0,11%), quelli dei vaccinati con una dose sono aumentati da 182 a 217 (+ 16,13%) e sono cresciuti pure i ricoveri di pazienti con doppia dose, passati da 3.693 a 3.845 (+ 21,56%). Dati che si preferisce offuscare, meglio sparare i numeri di pochi ospedali e aggiungere un focus pediatria che è di una pochezza disarmante. «Il totale dei pazienti di età inferiore ai 18 anni ricoverati negli ospedali sentinella Fiaso è di 19», si legge nel comunicato. «La metà dei ricoverati ha più di 5 anni». Informazioni davvero utili per non capire se i pazienti sono under 11 (prossimi destinatari del vaccino) o sopra i 12 anni.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ricoverati-crescono-vaccinati-giornali-contrario-2655968841.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="corsie-in-affanno-tornino-i-no-vax" data-post-id="2655968841" data-published-at="1639102498" data-use-pagination="False"> «Corsie in affanno: tornino i no vax» Andrebbe rivisto l’allontanamento dagli ospedali dei sanitari non vaccinati. Nelle corsie, medici e infermieri che hanno già ricevuto due o tre dosi di anti-Covid vivono la situazione paradossale di essere in prima linea da due anni, sempre in meno, stremati e malpagati, mentre delle risorse sono a casa perché non «immunizzate» o impossibilitate a farlo, per motivi di salute. «Non capisco l’allontanamento dal lavoro di chi non è vaccinato», dice alla Verità Giampiero Avruscio, presidente per l’Ao-Università di Padova dell’Anpo, il sindacato che rappresenta i primari ospedalieri. «Quando non avevamo il vaccino eravamo tutti al lavoro e, usando i dispositivi e i tamponi, abbiamo ridotto tantissimo il contagio intraospedaliero. Perché non far rientrare e monitorare i sanitari sospesi?». La situazione è ormai insostenibile. «I medici ospedalieri sono in carenza di organico da ben prima del Covid: solo in Veneto ne mancavano 1.300», osserva il primario di Anpo. I motivi sono diversi. «Da una parte», spiega, «un’errata programmazione delle scuole di specialità e dall’altra la scarsa valorizzazione dei medici ospedalieri: non c’è Pasqua, Natale e Ferragosto» e gli stipendi sono fermi da anni. Il Covid ha peggiorato la situazione. Molti vanno all’estero - dove guadagnano anche il doppio, con turni diversi - altri si licenziano per i fare i medici di medicina generale. «In provincia di Padova», aggiunge Avruscio, «sei pediatri ospedalieri, compreso il primario, si sono licenziati per andare sul territorio a svolgere la libera professione, dove non si è dipendenti del Sistema sanitario, si ha un rischio clinico meno gravoso e una migliore qualità della vita». Nulla di nuovo: è notizia di queste settimane che nei pronto soccorso italiani mancano 4.000 medici - il 50% della carenza si è registrato negli ultimi due anni - che i concorsi per anestesisti e rianimatori vanno deserti e che interi reparti assicurano un servizio con un quarto dell’organico ritenuto necessario. In questo contesto, anche solo una persona in più, può fare la differenza. «Al momento ci sono 230 persone non vaccinate tra i sanitari del solo ospedale di Padova, ma nell’Ulss Euganea sono 500. È un numero grande per le ricadute sull’assistenza perché quelle che restano a casa sono persone di esperienza», dice Avruscio. «Uno specializzando non può risolvere molte situazioni: ci vogliono anni - e 200.000 euro - per formare un professionista sanitario». Certo, aggiunge il primario, «i sanitari devono vaccinarsi, lo capisco, ma siamo in emergenza e le prime linee sono esauste. Perché non trovare un’altra soluzione?». Del resto, «prima del Covid», ricorda, «quando non eravamo vaccinati, abbiamo lavorato, avevamo mense e bar sempre aperti, ma grazie alle protezioni e ai tamponi - fatti con frequenza diversa in base al rischio - abbiamo mantenuto basso il contagio. Invece di allontanare i non vaccinati, lasciando tutto sulle spalle di chi resta, facciamoli rientrare e prevediamo un salivare al giorno». Questa riflessione, che l’Anpo sta facendo anche a livello nazionale, nasce anche da un’altra costatazione. Anche in chi ha fatto le due o tre dosi, deve «in ogni caso indossare i dispositivi di protezione», fa notare Avruscio. «È chiaro che con il vaccino si diminuiscono i contagi, ma non si annullano. A tale proposito, è bene ricordare che non è il numero dei contagiati a preoccupare, ma delle ospedalizzazioni in contemporanea. Il vaccino», precisa, «permette di poter stare a casa e non essere ricoverati in reparto o in rianimazione, se non in casi particolari». Infine, si deve considerare che «oggi, come anche prima dei vaccini, se il sanitario ha uno stretto contatto con un positivo, a differenza degli altri cittadini, va a lavorare lo stesso, fa tamponi ravvicinati e, solo se positivo, sta a casa», aggiunge il primario Anpo. Alle prime linee, inoltre, sono state sospese anche le ferie. «C’è un certo affaticamento e i contagi stanno aumentando: non possiamo restare senza forze lavoro, conclude Avruscio. «È controproducente allontanare i soldati di esperienza».
In alto a sinistra una «Rettungsboje» tedesca. Sotto, la boa Asr-10 inglese e i rispettivi esplosi
Nei mesi della Battaglia di Inghilterra, iniziata nel luglio 1940 dopo la rapida caduta della Francia, la guerra aerea fu l’essenza della strategia da entrambe le parti. La Luftwaffe, con i suoi 2.500 velivoli in condizioni operative, superò inizialmente la Royal Air Force, che in quel periodo iniziò un enorme sforzo industriale per cercare di ridurre il «gap» numerico e tecnologico (nacquero in quel periodo i fortissimi caccia Hawker «Hurricane» e Supermarine «Spitfire» che saranno decisivi per l’esito finale della battaglia). Se le fabbriche sfornavano centinaia di velivoli al mese (i tedeschi con i Messerschmitt Bf 109, gli Heinkel 111 e i Dornier Do17), i comandi delle due aviazioni non potevano formare altrettanti piloti in così poco tempo, rendendo la figura dell’aviatore un bene preziosissimo da preservare il più possibile viste le ingenti perdite in battaglia. Un aspetto così delicato in un momento così drammatico per l’esito della guerra fu affrontato per primo dagli alti comandi della Luftwaffe. La necessità era quella di salvare il più alto numero di equipaggi in un teatro di operazioni principalmente localizzato nello specchio di mare della Manica, sopra il quale nel picco dei combattimenti dell’agosto 1940 volavano quotidianamente oltre 1.500 aerei.
La soluzione per il salvataggio degli aviatori in caso di ammaraggio con sopravvissuti venne da un ex asso della Grande Guerra, il generale di squadra aerea Ernst Udet. L’ufficiale, secondo solamente al «Barone Rosso» Manfred von Richtofen per numero di abbattimenti, era stato da poco nominato responsabile per la logistica e gli appalti della forza aerea del Terzo Reich. Fu nel picco delle operazioni dell’estate 1940 che Udet sviluppò la sua idea: una boa «abitabile», posizionata nei tratti di mare statisticamente più soggetti agli ammaraggi e ancorata al fondale. I piloti potevano leggerne la posizione sulle carte aeronautiche in dotazione. Di forma esagonale, la «Rettungsboje» (letteralmente boa di soccorso) aveva una superficie abitabile di 4 metri quadrati. Lo scafo aveva un’altezza di 2.5 metri ed era sovrastato da una torretta finestrata di ulteriori 1,8 metri. Verniciata in giallo, presentava una visibile croce rossa (standard della Convenzione di Ginevra) sui lati della torretta. All’interno dello scafo potevano trovare alloggio sicuro quattro aviatori, con due cuccette a castello ancorate alla struttura per rimanere stabili nel mare agitato. Riscaldata da una stufa ad alcool, la boa offriva razioni d’emergenza e acqua ma anche cognac, sigarette e carte da gioco. Negli armadi erano presenti il kit di primo soccorso ed abiti asciutti, mentre le comunicazioni erano fornite da una radio ricetrasmittente. All’interno c’erano anche una pompa per eventuali falle e un canotto per raggiungere i soccorsi una volta giunti nei pressi della boa. Completavano l’equipaggiamento razzi di segnalazione e una macchina per i fumogeni di emergenza. Il personale ospitato dalle boe poteva resistere protetto dall’ipotermia e dai marosi anche per una settimana nell’attesa che un idrovolante di soccorso o una nave li raggiungesse.
Circa 50 furono le «Rettungsbuoje» dislocate nella Manica, contribuendo al salvataggio di un numero imprecisato di aviatori. Gli inglesi realizzarono un mezzo simile nello stesso periodo, seppure molto differente nella forma. La boa ASR-10 (Air Sea Rescue Float) assomigliava molto ad un motoscafo, seppur priva di propulsore. Era studiata per facilitare l’accesso da parte dei naufraghi in balia delle onde, con la poppa digradante verso l’acqua. L’equipaggiamento era molto simile a quello della boa tedesca. Dipinta in rosso e arancio vivaci, fu realizzata in 16 esemplari ancorati nel braccio di mare tra Inghilterra e Francia tra il 1940 ed il 1941. Oggi un esemplare è conservato presso lo Scottish Maritime Museum.
Le boe tedesche, dopo la fine della Battaglia di Inghilterra, furono spostate presso le Channel Islands, il piccolo arcipelago occupato temporaneamente dai tedeschi e utilizzate come punti di vedetta o di difesa dopo essere state munite di una mitragliatrice. A causa della loro vulnerabilità furono quasi tutte affondate dagli aerei della Raf. Un esemplare recuperato nel 2020 dopo essere rimasto per decenni arenato e insabbiato a Terschelling nelle isole Frisone occidentali è conservato al «Bunkermuseum» dell’isola olandese.
Ernst Udet, dopo l’esito infausto della Battaglia d’Inghilterra per la Luftwaffe, già in preda all’alcolismo cadde in depressione. Si tolse la vita a Berlino il 17 novembre 1941, forse anche per le conseguenze della pressione psicologica che Hermann Göring esercitò sull’ufficiale dell’aeronautica addossandogli la responsabilità della sconfitta.
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Stanno comparendo in diverse città italiane, graditi soprattutto alle giunte di centro sinistra e in particolare ai fanatici delle zone con limitazione di traffico a 30kmh. Basta una nottata e grazie a una serie di tasselli inseriti nell’asfalto l’installazione è fatta. Tutto bello? Non proprio: a ben guardare la normativa riguardante tale soluzione è Incompleta, poiché In Italia non sono previsti nel dettaglio dal Codice della Strada e questo rende la loro adozione più complicata sul pano della burocrazia. In pratica, per ora la loro installazione avviene solo tramite sperimentazione autorizzata dal Ministero dei Trasporti. Ci sono poi alcune questioni tecniche: andrebbero installati soltanto sulle strade con bassa densità di traffico e, appunto, laddove il limite è già 30 km/h, e questo giocoforza li rende una soluzione praticabile soltanto in alcune zone. Inoltre, i cuscini berlinesi devono essere posizionati a una distanza tale da curve e incroci per permettere ai veicoli più grandi di potersi raddrizzare completamente dopo aver effettuato la svolta prima di valicarli. Il peggio però è altro: se chi è distratto da aver superato di poco il limite, finendoci sopra rischia di danneggiare la vettura e ciò accadrà ancora di più se essa è poco rialzata da terra. Ma se la distrazione o le condizioni psicofisiche del conducente sono alterate al punto che egli non si sta rendendo conto della sua velocità, e questa è elevata, egli può facilmente perdere il controllo, ad andare bene finendo per sbattere contro altri mezzi, peggio finendo per travolgere delle persone. E non mancano neppure i problemi di manutenzione, poiché nel tempo si usurano a causa delle pressioni ma anche dell’irraggiamento solare e degli sbalzi di temperatura. Laddove sono stati applicati in modo diffuso è in Francia e nel Regno Unito, nazioni che ne hanno definito le specifiche riprendendo a loro volta quelle tedesche. Il Dipartimento per i trasporti del Regno Unito già nel 1984 aveva fissato la pendenza massima degli elementi al 12,5% per le rampe longitudinali di ingresso e di uscita dai cuscini, ed il rapporto del 25% per le rampe trasversali laterali. Stando a quanto si trova online, la Francia prevede rampe longitudinali con pendenze molto più elevate: le rampe devono essere lunghe 20 cm per cuscini alti 5 cm (con una pendenza del 25%), 25 cm per cuscini alti 7 cm (con una pendenza del 28%). Rampe così ripide devono essere adottate con cautela: indagini condotte dal Dipartimento dei trasporti britannico hanno mostrato che, con rampe longitudinali dalla pendenza maggiore del 17%, i veicoli rischiavano di toccare il con il fondo riportando seri danni: dalla distruzione dell’impianto di scarico fino alla rottura della coppa dell’olio con annesso sversamento del fluido e inquinamento. Di conseguenza essi devono essere particolarmente ben segnalati – tipicamente con verniciature gialle – ma anche tale caratteristica tende ovviamente a degradarsi con il tempo. E stante il livello di manutenzione delle nostre strade è facile prevedere che dovremo confidare nell’attenzione di chi guida e nell’illuminazione pubblica. Una delle questioni è anche come gli automobilisti reagiscono quando si accorgono in ritardo della loro presenza: frenate improvvise e repentine deviazioni di traiettoria sono all’ordine del giorno. Stando ai dati raccolti dalle municipalità che in Europa li stanno utilizzando da tempo la velocità media di superamento dei cuscini berlinesi di è di poco superiore ai 22 km/h per larghezze di 1,9 metri, mentre sale a 30 km/h per quelli più stretti, che quindi provocano nei conducenti meno apprensione per l’impatto sotto gli pneumatici. E di conseguenza illudono che l’effetto di un attraversamento accelerato sia inferiore. Invece il botto è garantito. Pur sapendo che taluni lettori non saranno d’accordo, chi scrive pensa che la sicurezza (stradale in primis), nasca dalla cultura della consapevolezza e non dalle costrizioni. E che più una strada è sgombra, più ridotto è il rischio di fare incidenti.
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Giovanni Malagò (Getty Images)
Adesso si trova in Campania, dopo esser passata tra Lazio, Umbria Toscana, Sardegna, Sicilia e Calabria. Molte regioni verranno ripercorse di nuovo, in lungo e in largo. Il 26 gennaio tornerà invece, dopo 70 anni esatti dalla Cerimonia d’Apertura dei Giochi, a Cortina d’Ampezzo e concluderà il suo tragitto a Milano facendo il suo ingresso allo Stadio di San Siro, la sera di venerdì 6 febbraio 2026. 10.000 tedofori la stanno conducendo tra volti noti e persone comuni. I primi volti noti dello spettacolo e dello sport sono il cantante Achille Lauro, Flavia Pennetta, icona del nostro tennis, vincitrice degli US Open 2015 e di 4 Billie Jean King Cup e Francesco Bagnaia, due volte campione del mondo di MotoGP e una in Moto2. Tantissimi altri ancora e altri ce ne saranno. Anche perché la storia del Viaggio della Fiamma è piena di leggende, come Muhammad Alì ad Atlanta 1996, Cathy Freeman a Sydney 2000 e poi ancora la fondista Stefania Belmondo, ultima tedofora di Torino 2006 vent’anni fa nell’ultima edizione invernale italiana, dopo le frazioni di altri campioni olimpici azzurri come Alberto Tomba, Manuela Di Centa, Silvio Fauner e Deborah Compagnoni (nella foto di copertina). Quattro anni prima, invece, l’intera squadra statunitense di hockey maschile del “Miracolo sul ghiaccio” di Lake Placid 1980 che accese il braciere di Salt Lake City 2002 tra la commozione del pubblico statunitense.
La fiamma olimpica nasce con le prime olimpiadi nell'antica Grecia, dove il fuoco sacro ardeva in onore degli dèi durante i Giochi originali. La tradizione moderna è stata reintrodotta con l'accensione del braciere ai Giochi Olimpici di Amsterdam nel 1928 e la prima staffetta della torcia a Berlino nel 1936. Le torce di #MilanoCortina2026 sono un omaggio al design italiano con uno stile che mette al centro la fiamma. Eleganti. Iconiche. Sostenibili. Si chiamano Essential e portano con sé lo spirito dei Giochi che verranno.
La fiamma paralimpica partirà invece il 24 febbraio 2026 e si concluderà il 6 marzo 2026, giorno della cerimonia di apertura dei Giochi paralimpici all’Arena di Verona. Sfilerà nelle mani di 501 tedofori per 2.000 chilometri in 11 giorni. “La fiamma paralimpica verrà accesa il 24 febbraio a Stoke Mandeville in Inghilterra, storico luogo di nascita dello sport Paralitico - dichiara Maria Laura Iascone, Ceremonies Director di Fondazione Milano Cortina 2026 -. L’arrivo in Italia coinciderà con l’inizio di un viaggio che focalizzerà l’attenzione e l’entusiasmo verso le Paralimpiadi, amplificandone i messaggi di rispetto e inclusività, e generando un volano di entusiasmo, attesa e partecipazione intorno agli atleti paralimpici”. Dopo l'accensione nel Regno Unito, la fiamma paralimpica animerà 5 Flame Festival dal 24 febbraio al 2 marzo a Milano, Torino, Bolzano, Trento e Trieste, con la cerimonia di unione delle Fiamme il 3 marzo a Cortina d’Ampezzo. Dal 4 marzo, la fiamma raggiungerà Venezia e Padova, per fare il suo ingresso il 6 marzo all’Arena di Verona per la cerimonia di apertura dei Giochi paralimpici.
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Tra Natale ed Epifania il turismo italiano supera i 7 miliardi di euro di giro d’affari. Crescono presenze, viaggi interni ed esperienze artigianali, con città d’arte e montagne in testa alle preferenze.
Le settimane comprese tra il Natale e l’Epifania si confermano uno dei momenti più redditizi dell’anno per il turismo italiano. Secondo le stime di Cna Turismo e Commercio, il giro d’affari generato tra feste, fine anno e Befana supera i 7 miliardi di euro. Un risultato che non fotografa soltanto l’andamento economico del settore, ma racconta anche un’evoluzione nelle scelte e nelle aspettative dei viaggiatori.
Nel periodo festivo sono attesi oltre 5 milioni di turisti che trascorreranno almeno una notte in una struttura ricettiva: circa 3,7 milioni sono italiani, mentre 1,3 milioni arrivano dall’estero. A questi si aggiunge una platea ben più ampia di persone in movimento: oltre 20 milioni di individui si sposteranno per escursioni giornaliere, soggiorni nelle seconde case o visite a parenti e amici.
Per quanto riguarda i flussi internazionali, la componente europea resta prevalente, con arrivi soprattutto da Francia, Germania, Spagna e Regno Unito. Fuori dal continente, si segnalano presenze significative da Stati Uniti, Canada e Cina. Le preferenze delle destinazioni confermano una tendenza ormai consolidata. In cima alle scelte ci sono le città e i borghi d’arte, seguiti dalle località di montagna. Due modi diversi di vivere le vacanze natalizie: da un lato l’attrazione per il patrimonio culturale, i mercatini e le atmosfere urbane illuminate dalle feste; dall’altro la ricerca della neve, degli sport invernali e di un contatto più diretto con l’ambiente naturale.
Alla base di questo successo concorrono diversi fattori. L’Italia continua a esercitare un forte richiamo quando si parla di tradizioni natalizie: dai presepi, in particolare quelli napoletani, ai mercatini dell’arco alpino, passando per i centri storici addobbati e le celebrazioni religiose che trovano a Roma uno dei loro punti centrali. Un insieme di elementi che costruisce un’offerta culturale difficilmente replicabile. Proprio la dimensione religiosa e identitaria del Natale italiano rappresenta un elemento di attrazione per molti visitatori nordamericani e per i turisti provenienti da Paesi di tradizione cattolica, spesso alla ricerca di un’esperienza percepita come più autentica rispetto a celebrazioni considerate eccessivamente commerciali. A questo si aggiunge la varietà climatica del Paese: temperature più miti al Sud e nelle isole per chi vuole evitare il freddo, condizioni ideali sulle Alpi per gli amanti dello sci e della montagna. Un segnale particolarmente rilevante arriva dalla crescita delle cosiddette esperienze, soprattutto quelle legate all’artigianato. Sempre più viaggiatori scelgono di affiancare alla visita dei luoghi la partecipazione diretta ad attività tradizionali: dalla preparazione della pasta fresca alle lavorazioni del vetro di Murano, fino alla ceramica umbra e toscana. È un approccio che indica un cambiamento nel modo di viaggiare, meno orientato alla semplice osservazione e più alla partecipazione.
Questo interesse incrocia diverse tendenze attuali: il bisogno di autenticità in un contesto sempre più standardizzato, la volontà di riportare a casa un’esperienza che vada oltre il souvenir e l’attenzione verso il “saper fare” italiano, riconosciuto come patrimonio immateriale di valore internazionale.
Sul piano economico incidono anche fattori più generali. La ripresa del potere d’acquisto delle classi medie in Europa e negli Stati Uniti, dopo anni di incertezza, ha sostenuto la propensione alla spesa per le vacanze. Il rafforzamento del dollaro favorisce i turisti statunitensi, mentre la fase di stabilizzazione successiva alla pandemia ha contribuito a ricostruire la fiducia nei viaggi. Il periodo natalizio rappresenta inoltre uno degli esempi più riusciti di destagionalizzazione, obiettivo perseguito da tempo dagli operatori del settore. Le strutture ricettive registrano livelli di occupazione elevati in settimane che in passato erano considerate marginali. Anche i collegamenti giocano un ruolo chiave: l’espansione dei voli low cost e il miglioramento dell’offerta ferroviaria rendono più accessibili non solo le grandi città, ma anche destinazioni meno centrali, favorendo una distribuzione più ampia dei flussi.
Accanto ai dati positivi emergono però alcune criticità. La concentrazione dei visitatori rischia di mettere sotto pressione alcune mete, mentre altre restano ai margini. Il turismo di prossimità, rappresentato dai milioni di italiani che si spostano senza pernottare in alberghi o strutture ricettive, costituisce un bacino ancora parzialmente inesplorato. Allo stesso tempo, la crescente domanda di esperienze personalizzate richiede investimenti in formazione e una maggiore integrazione tra operatori locali.
Le festività di fine anno restano comunque un motore fondamentale per l’economia del turismo, in grado di coinvolgere l’intera filiera: ristorazione, artigianato, trasporti e offerta culturale. Un patrimonio che, per continuare a produrre risultati nel tempo, richiede una strategia capace di innovare senza snaturare quell’autenticità che rappresenta il vero punto di forza del sistema italiano.
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