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2021-08-22
C’è la rete Obama-Clinton dietro il disastro afgano
Barack Obama e Joe Biden (Ansa)
L'arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca fu da molti salutato come il ritorno della competenza ai vertici del governo statunitense. Addirittura, lo scorso 24 novembre, la rivista Vogue pubblicò un articolo intitolato: «Le scelte del gabinetto di Joe Biden inviano un messaggio chiaro: gli adulti sono tornati al comando». In particolare, si elogiava il nuovo presidente per aver nominato nella sua nascente amministrazione figure dal curriculum impeccabile: gente formatasi all'Ivy League e con importanti esperienze negli apparati governativi. L'esatto opposto - si disse - degli «scappati di casa» di cui si era attorniato Donald Trump.
Eppure oggi vediamo che le cose si sono rivelate più complicate del previsto. Perché, dietro il disastro operativo e strategico della ritirata afghana (operazione che anche Trump avrebbe effettuato), si celano gli errori di questa classe dirigente tanto lodata. Oltre all'inverecondo caos delle evacuazioni, il Pentagono si sta poco elegantemente rimpallando le responsabilità della Caporetto con i servizi segreti, mentre il Wall Street Journal ha rivelato che, il 13 luglio, l'ambasciata americana di Kabul avesse avvertito il segretario di Stato, Tony Blinken, di un possibile imminente crollo del governo afghano. Ecco che quindi si ravvisano notevoli responsabilità ai più alti livelli dell'attuale amministrazione americana. Un elemento che certifica il fallimento di una classe dirigente forgiata negli anni all'ombra dei potenti network di Barack Obama e della famiglia Clinton.
Blinken, per esempio, è stato membro del National security council durante la presidenza di Bill Clinton. Sotto Obama, ha invece servito prima come vice consigliere per la sicurezza nazionale e successivamente come vicesegretario di Stato. Non solo: nel 2017 ha fondato la società di consulenza WestExec, insieme a Michèle Flournoy: ex sottosegretaria alla Difesa di Obama, che aveva già ricoperto alcuni incarichi nell'amministrazione Clinton. Ancora più vicino ai Clinton è poi l'attuale consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, che fu vice capo dello staff di Hillary Clinton, durante il servizio di quest'ultima come segretario di Stato. Sullivan sarebbe poi diventato consigliere dell'ex first lady ai tempi della sua (sfortunata) candidatura alla Casa Bianca nel 2016. Saldi agganci nell'establishment democratico sono poi ravvisabili anche nel curriculum dell'attuale capo del Pentagono, l'ex generale Lloyd Austin. Nominato comandante di Centcom da Obama nel 2012, ha fatto successivamente parte di Pine Island: società in cui era presente lo stesso Blinken e di cui fa ancora oggi parte la Flournoy.
Insomma, tre dei principali responsabili di quanto sta accadendo in Afghanistan - Austin, Sullivan e Blinken - intrattengono strettissimi e storici legami con i network di Obama e dei Clinton. Eppure gli «adulti» celebrati da Vogue non sembra stiano esattamente svolgendo un gran lavoro (andrebbe forse a tal proposito ricordato che la direttrice della ben nota rivista patinata, Anna Wintour, sia amica e sostenitrice di Hillary Clinton). D'altronde, al di là di Vogue, anche molta altra stampa si impegnò in un'operazione simpatia per sostenere i «competenti» di Biden: ci fu per esempio chi rimarcò come Blinken avesse un autografo di John Lennon. Eppure, se anziché parlare di gusti musicali si fosse andati a scandagliare le carriere pregresse di questi signori, sarebbero forse emersi sin da subito dei campanelli d'allarme. Eh sì, perché Blinken e Sullivan (insieme alla Flournoy e alla Clinton) furono per esempio tra i principali fautori del disastroso intervento bellico in Libia del 2011. Proprio Sullivan, tra l'altro, rimase coinvolto - insieme alla sua principale di allora - nella malagestione che avrebbe portato alla crisi di Bengasi l'anno successivo. Tutto questo, mentre, da comandante di Centcom, Austin fu messo sotto torchio dal Senato nel 2015 per il fallimentare addestramento delle forze di combattimento contro l'Isis in Siria. Ecco che allora il collasso afghano è qualcosa che va ben oltre le pur gravi responsabilità personali di Biden. È qualcosa semmai che affonda le proprie radici in una rete di potere e alleanze principalmente riconducibile ai Clinton: una rete che, da almeno due decenni, ha consolidato la propria influenza all'interno del Partito democratico. Con i risultati che stiamo vedendo in questi giorni. E per favore: non si venga a dire che l'accordo per il ritiro l'ha fatto Trump. Primo: sulla disastrosa evacuazione l'ex presidente repubblicano non c'entra nulla. Era l'attuale amministrazione che avrebbe semmai dovuto organizzarsi per tempo. Secondo: la storia non si fa coi i se e con i ma. Non sapremo mai pertanto come, in un eventuale secondo mandato, Trump avrebbe gestito il ritiro. Terzo: se Biden considerava quell'accordo sbagliato, avrebbe potuto sconfessarlo (così come ha fatto con altre eredità trumpiane). La retorica della «competenza» ci aveva garantito che l'attuale amministrazione dem avrebbe risollevato l'America. Oggi, invece, non ci resta che stendere un velo pietoso.
Università vietata alle studentesse. La resistenza riconquista tre città
Da Herat, la provincia dell'ovest dell'Afghanistan dove fino a giugno il contingente italiano aveva il suo quartier generale, ieri è arrivata una di quelle notizie da lasciare ammutoliti anche coloro che con maggior ottimismo hanno ascoltato gli iniziali appelli e promesse presuntivamente moderati lanciati dai talebani. A darla è stata l'agenzia di stampa Khaama. Sono state abolite le classi miste perché «questo sistema è la radice di tutti i mali della società», ha spiegato l'Emirato islamico. Tradotto: le ragazze non potranno accedere alle classi miste delle università pubbliche e private. Secondo l'agenzia, si tratta della prima fatwa emessa da quando, ormai una settimana fa, i talebani hanno conquistato Kabul e l'intero Paese ricostituendo l'Emirato islamico dell'Afghanistan.
Tra venerdì e ieri è arrivato a Kabul il mullah Abdul Ghani Baradar, cofondatore dei talebani, arrestato in Pakistan nel 2010 e liberato nel 2018 sotto spinta statunitense, da allora capo dell'ufficio politico del movimento, incaricato dei colloquio di Doha in Qatar. Il suo arrivo conferma che le trattative per la creazione di un nuovo governo, che i talebani hanno annunciato sarà «inclusivo», proseguono. Il leader è nella capitale per incontri governativi, ma fonti afghane vicine ai colloqui, hanno affermato all'Associated Press che finché gli Stati Uniti non si ritireranno definitivamente, il 31 agosto, l'Emirato non farà alcuna dichiarazione sul nuovo governo.
Se il camaleontico ex presidente Hamid Karzai sta tessendo la sua tela da dietro le quinte per entrare anche nel prossimo governo, diverso è la situazione che riguarda il suo successore, Ashraf Ghani. Un ex suo consigliere ha raccontato che sarebbe fuggito la scorsa settimana da Kabul solamente con i vestiti che aveva indosso e «letteralmente senza denaro», per fare tappa per una notte a Termez, in Uzbekistan, e poi direttamente negli Emirati arabi uniti, dove si trova. Una versione che non risponde a quella precedente, diffusa dal governo russo, secondo cui Ghani sarebbe fuggito a bordo di un elicottero carico di contanti.
Ma la famiglia Ghani si è spaccata. Hashmat Ghani, fratello dell'ex presidente, ha giurato fedeltà ai talebani. In un video si vede l'uomo, attualmente capo del Gran consiglio dei Kuchi (nomadi), che celebra il sodalizio con i miliziani davanti al leader talebano Khalil Haqqani, il riferimento della cosiddetta Rete Haqqani, con presunti legami con Al Qaeda, sulla cui testa pende una taglia di 5 milioni di dollari messa dagli Stati Uniti.
E non è un caso che John Kirby, portavoce del Pentagono, abbia dichiarato che «Al Qaeda e l'Isis sono ancora presenti in Afghanistan». Il numero delle unità «non è esorbitante, ma non abbiamo una cifra esatta perché la nostra capacità di raccolta di informazioni in Afghanistan non è più quella di una volta», ha aggiunto con parole che confermano le difficoltà per l'intelligence americana in questa fase post ritiro.
Se del giuramento del fratello dell'ex presidente esiste un video a conferma, diverso è il discorso che riguarda la presunta trattativa tra i talebani e Ahmad Massud, leader della resistenza nel Panshir, riportata da fonti di Al Jazeera. Secondo uno dei leader dei talebani, il figlio del «leone del Panshir» si sarebbe addirittura arreso.
Indiscrezioni che però sembrano scontrarsi con quanto dichiarazioni poche ore prima delle forze di Massud che, guidate dal comandante Abdul Hameed Dadgar, hanno annunciato la riconquista dei distretti di Pule Hisar, Deh Saleh e Banu nella provincia di Baghlan, a Nord della capitale dell'Afghanistan. Secondo la resistenza, sarebbero stati uccisi almeno 20 talebani.
È possibile che gli «studenti coranici» abbiano scelto di far filtrare quella dichiarazione con due obiettivi. Primo: contare chi sta con loro e chi no. Secondo: mettere pressione su Massud, l'uomo attorno al quale si sta compattando la resistenza nel Nord.
Intanto, la situazione all'aeroporto di Kabul è ancora critica. Sky News ha parlato di una situazione peggiorata nelle ultime ore, un «pandemonio assoluto» in cui tre persone almeno avrebbero perso la vita. L'ambasciata statunitense ha avvertito di «potenziali minacce alla sicurezza» e ha consigliato «ai cittadini statunitensi di evitare di recarsi in aeroporto e di evitare gli ingressi» allo scalo dove migliaia di persone, molte famiglie con i figli, continuano ad accorre nella speranza i fuggire dall'Emirato.
Tra chi ha lasciato Kabul nelle ultime ore c'è anche Clarissa Ward, la corrispondente della Cnn che ha continuato per diversi giorni a raccontare gli eventi in Afghanistan anche dopo l'arrivo dei talebani.
Dagli Stati Uniti, due notizie positive: il neonato sollevato sul filo spinato, il cui video ha fatto il giro del mondo, è tornato dal padre, ha annunciato il Pentagono; sono 13 i Paesi che finora hanno accettato, almeno temporaneamente, di ospitare gli afghani a rischio evacuati dal Paese, ha annunciato il dipartimento di Stato americano ringraziando diversi Stati, tra cui l'Italia, per le operazioni di evacuazione.
Caccia agli esperti per l’arsenale Usa
Sono ore impegnative per il mullah Abdul Ghani Baradar, il cofondatore dei talebani e capo dell'Ufficio politico del movimento che deve trovare la quadra nei colloqui dedicati alla formazione di un nuovo governo, mentre i suoi miliziani girano casa per casa alla ricerca di coloro che sono presenti negli elenchi dei «collaborazionisti» e mentre si spara per le strade e all'aeroporto di Kabul. Una buona notizia per lui è arrivata ieri mattina dal fratello dell'ex presidente afghano Ashraf Ghani che ha giurato fedeltà ai talebani: un chiaro segnale di che aria tiri a Kabul anche tra le famiglie che contano. Giornate impegnative anche per i capi militari dei talebani che oltre a bastonare chiunque esponga la bandiera afghana e a giustiziare sul posto piccoli delinquenti, stanno facendo incetta dei sistemi d'arma abbandonati in maniera scriteriata dalle truppe americane; la stima è che 600.000 fucili d'assalto, migliaia di casse di munizioni, 75.000 veicoli tra i quali molti blindati, elicotteri, alcuni aerei e droni siano finiti nelle mani dei talebani. Il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha confermato ieri che i miliziani «hanno preso possesso di un enorme arsenale del valore di miliardi di dollari: dai veicoli militari Humvee ai fucili M4 e M16, fino a elicotteri Black Hawk e aerei A-29».
Tutto facile per i talebani? Non proprio perché non è da tutti saper pilotare l'aereo da attacco leggero A-29 Super Tucano costruito dalla brasiliana Embraer e modificato per i militari Usa con sensori e armi delle quali si sa pochissimo, o l'elicottero militare leggero Md-530F. In tal senso la ricerca è a tutto campo in Pakistan, in Iran, in Russia, nelle ex Repubbliche sovietiche, nei Balcani e tra i molti jihadisti che stanno arrivando in Afghanistan in questi giorni. Nell'immediato serve chi sappia pilotare questi mezzi ma occorre anche chi in futuro possa formare le milizie talebane.
In ogni caso il danno è gravissimo ma probabilmente inevitabile in questo contesto come ci conferma l'analista strategico Franco Iacch: «Secondo procedura standard, ogni asset militare logisticamente impossibile da riportare in patria durante crisi improvvise e potenzialmente sfruttabile da attori ostili è reso inutilizzabile. Non importa quali siano le priorità: le vite e l'equipaggiamento più avanzato contano di più. È quello che sta avvenendo durante la Non combatant evacuation operation attualmente in corso a Kabul. Questo il destino della flotta Ch-46E Sea Knight del dipartimento di Stato schierata in Afghanistan a supporto del Programma Embassy air. I sette Sea Knight implementavano capacità di autodifesa. Diverso il destino dei 211 velivoli (167 dei quali immediatamente utilizzabili) che componevano l'Afghan air force che gli Stati Uniti crearono a partire dal 2008. Dopo l'11 settembre, il Pentagono ha costruito da zero l'intero apparato di sicurezza afghano con armi prodotte negli Stati Uniti. Otto miliardi di dollari sono stati investiti per creare la forza aerea dell'Afghanistan».
Decisamente più complesso sarà saper utilizzare i dispositivi biometrici meglio noti come Handheld interagency identity detection equipment asset che si interfacciano con i database centralizzati del Pentagono e che custodiscono i dati di milioni di persone. Questi sistemi che erano stati dati in uso all'Esercito afghano ora sono finiti in mani talebane e se è vero che questi non li sanno utilizzare, un aiuto potrebbe arrivare, ad esempio, da qualche uomo dell'Inter services intelligence il sulfureo servizio segreto pakistano che con i talebani ha da sempre relazioni a dir poco pericolose.
Uno scenario che Franco Iacch non esclude: «I dispositivi biometrici sono stati utilizzati dalle forze armate statunitensi per tenere traccia di potenziali terroristi o criminali. Il dipartimento della Difesa, secondo procedura, ha certamente attivato i protocolli di sicurezza per impedire che una tecnologia sensibile possa cadere in mano nemica. Nel caso specifico di Hiide, è improbabile che i talebani possano estrarre o sfruttare la tecnologia dai dispositivi. Verosimile, invece, la vendita (o il dono) ad intelligence straniere».
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Riduci
La fallimentare gestione del ritiro è solo in parte colpa di Joe Biden che ha pescato, per i ruoli chiave, nel «vivaio» dem. Il segretario di Stato, il consigliere per la sicurezza e il capo del Pentagono sono legati ai network di potere degli ex presidenti.Prima fatwa del regime talebano contro le donne, abolite le classi miste: «Sono il male della società». Ancora scontri all'aeroporto, tre morti. Controffensiva a nord della capitale, ammazzati 20 estremisti.I «barbuti» sono entrati in possesso di 600.000 fucili, aerei, droni e veicoli blindati. L'unico problema è che non sanno come utilizzarli. E per questo cercano «docenti».Lo speciale contiene tre articoli.L'arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca fu da molti salutato come il ritorno della competenza ai vertici del governo statunitense. Addirittura, lo scorso 24 novembre, la rivista Vogue pubblicò un articolo intitolato: «Le scelte del gabinetto di Joe Biden inviano un messaggio chiaro: gli adulti sono tornati al comando». In particolare, si elogiava il nuovo presidente per aver nominato nella sua nascente amministrazione figure dal curriculum impeccabile: gente formatasi all'Ivy League e con importanti esperienze negli apparati governativi. L'esatto opposto - si disse - degli «scappati di casa» di cui si era attorniato Donald Trump.Eppure oggi vediamo che le cose si sono rivelate più complicate del previsto. Perché, dietro il disastro operativo e strategico della ritirata afghana (operazione che anche Trump avrebbe effettuato), si celano gli errori di questa classe dirigente tanto lodata. Oltre all'inverecondo caos delle evacuazioni, il Pentagono si sta poco elegantemente rimpallando le responsabilità della Caporetto con i servizi segreti, mentre il Wall Street Journal ha rivelato che, il 13 luglio, l'ambasciata americana di Kabul avesse avvertito il segretario di Stato, Tony Blinken, di un possibile imminente crollo del governo afghano. Ecco che quindi si ravvisano notevoli responsabilità ai più alti livelli dell'attuale amministrazione americana. Un elemento che certifica il fallimento di una classe dirigente forgiata negli anni all'ombra dei potenti network di Barack Obama e della famiglia Clinton.Blinken, per esempio, è stato membro del National security council durante la presidenza di Bill Clinton. Sotto Obama, ha invece servito prima come vice consigliere per la sicurezza nazionale e successivamente come vicesegretario di Stato. Non solo: nel 2017 ha fondato la società di consulenza WestExec, insieme a Michèle Flournoy: ex sottosegretaria alla Difesa di Obama, che aveva già ricoperto alcuni incarichi nell'amministrazione Clinton. Ancora più vicino ai Clinton è poi l'attuale consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, che fu vice capo dello staff di Hillary Clinton, durante il servizio di quest'ultima come segretario di Stato. Sullivan sarebbe poi diventato consigliere dell'ex first lady ai tempi della sua (sfortunata) candidatura alla Casa Bianca nel 2016. Saldi agganci nell'establishment democratico sono poi ravvisabili anche nel curriculum dell'attuale capo del Pentagono, l'ex generale Lloyd Austin. Nominato comandante di Centcom da Obama nel 2012, ha fatto successivamente parte di Pine Island: società in cui era presente lo stesso Blinken e di cui fa ancora oggi parte la Flournoy.Insomma, tre dei principali responsabili di quanto sta accadendo in Afghanistan - Austin, Sullivan e Blinken - intrattengono strettissimi e storici legami con i network di Obama e dei Clinton. Eppure gli «adulti» celebrati da Vogue non sembra stiano esattamente svolgendo un gran lavoro (andrebbe forse a tal proposito ricordato che la direttrice della ben nota rivista patinata, Anna Wintour, sia amica e sostenitrice di Hillary Clinton). D'altronde, al di là di Vogue, anche molta altra stampa si impegnò in un'operazione simpatia per sostenere i «competenti» di Biden: ci fu per esempio chi rimarcò come Blinken avesse un autografo di John Lennon. Eppure, se anziché parlare di gusti musicali si fosse andati a scandagliare le carriere pregresse di questi signori, sarebbero forse emersi sin da subito dei campanelli d'allarme. Eh sì, perché Blinken e Sullivan (insieme alla Flournoy e alla Clinton) furono per esempio tra i principali fautori del disastroso intervento bellico in Libia del 2011. Proprio Sullivan, tra l'altro, rimase coinvolto - insieme alla sua principale di allora - nella malagestione che avrebbe portato alla crisi di Bengasi l'anno successivo. Tutto questo, mentre, da comandante di Centcom, Austin fu messo sotto torchio dal Senato nel 2015 per il fallimentare addestramento delle forze di combattimento contro l'Isis in Siria. Ecco che allora il collasso afghano è qualcosa che va ben oltre le pur gravi responsabilità personali di Biden. È qualcosa semmai che affonda le proprie radici in una rete di potere e alleanze principalmente riconducibile ai Clinton: una rete che, da almeno due decenni, ha consolidato la propria influenza all'interno del Partito democratico. Con i risultati che stiamo vedendo in questi giorni. E per favore: non si venga a dire che l'accordo per il ritiro l'ha fatto Trump. Primo: sulla disastrosa evacuazione l'ex presidente repubblicano non c'entra nulla. Era l'attuale amministrazione che avrebbe semmai dovuto organizzarsi per tempo. Secondo: la storia non si fa coi i se e con i ma. Non sapremo mai pertanto come, in un eventuale secondo mandato, Trump avrebbe gestito il ritiro. Terzo: se Biden considerava quell'accordo sbagliato, avrebbe potuto sconfessarlo (così come ha fatto con altre eredità trumpiane). 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A darla è stata l'agenzia di stampa Khaama. Sono state abolite le classi miste perché «questo sistema è la radice di tutti i mali della società», ha spiegato l'Emirato islamico. Tradotto: le ragazze non potranno accedere alle classi miste delle università pubbliche e private. Secondo l'agenzia, si tratta della prima fatwa emessa da quando, ormai una settimana fa, i talebani hanno conquistato Kabul e l'intero Paese ricostituendo l'Emirato islamico dell'Afghanistan. Tra venerdì e ieri è arrivato a Kabul il mullah Abdul Ghani Baradar, cofondatore dei talebani, arrestato in Pakistan nel 2010 e liberato nel 2018 sotto spinta statunitense, da allora capo dell'ufficio politico del movimento, incaricato dei colloquio di Doha in Qatar. Il suo arrivo conferma che le trattative per la creazione di un nuovo governo, che i talebani hanno annunciato sarà «inclusivo», proseguono. Il leader è nella capitale per incontri governativi, ma fonti afghane vicine ai colloqui, hanno affermato all'Associated Press che finché gli Stati Uniti non si ritireranno definitivamente, il 31 agosto, l'Emirato non farà alcuna dichiarazione sul nuovo governo. Se il camaleontico ex presidente Hamid Karzai sta tessendo la sua tela da dietro le quinte per entrare anche nel prossimo governo, diverso è la situazione che riguarda il suo successore, Ashraf Ghani. Un ex suo consigliere ha raccontato che sarebbe fuggito la scorsa settimana da Kabul solamente con i vestiti che aveva indosso e «letteralmente senza denaro», per fare tappa per una notte a Termez, in Uzbekistan, e poi direttamente negli Emirati arabi uniti, dove si trova. Una versione che non risponde a quella precedente, diffusa dal governo russo, secondo cui Ghani sarebbe fuggito a bordo di un elicottero carico di contanti. Ma la famiglia Ghani si è spaccata. Hashmat Ghani, fratello dell'ex presidente, ha giurato fedeltà ai talebani. In un video si vede l'uomo, attualmente capo del Gran consiglio dei Kuchi (nomadi), che celebra il sodalizio con i miliziani davanti al leader talebano Khalil Haqqani, il riferimento della cosiddetta Rete Haqqani, con presunti legami con Al Qaeda, sulla cui testa pende una taglia di 5 milioni di dollari messa dagli Stati Uniti. E non è un caso che John Kirby, portavoce del Pentagono, abbia dichiarato che «Al Qaeda e l'Isis sono ancora presenti in Afghanistan». Il numero delle unità «non è esorbitante, ma non abbiamo una cifra esatta perché la nostra capacità di raccolta di informazioni in Afghanistan non è più quella di una volta», ha aggiunto con parole che confermano le difficoltà per l'intelligence americana in questa fase post ritiro. Se del giuramento del fratello dell'ex presidente esiste un video a conferma, diverso è il discorso che riguarda la presunta trattativa tra i talebani e Ahmad Massud, leader della resistenza nel Panshir, riportata da fonti di Al Jazeera. Secondo uno dei leader dei talebani, il figlio del «leone del Panshir» si sarebbe addirittura arreso. Indiscrezioni che però sembrano scontrarsi con quanto dichiarazioni poche ore prima delle forze di Massud che, guidate dal comandante Abdul Hameed Dadgar, hanno annunciato la riconquista dei distretti di Pule Hisar, Deh Saleh e Banu nella provincia di Baghlan, a Nord della capitale dell'Afghanistan. Secondo la resistenza, sarebbero stati uccisi almeno 20 talebani. È possibile che gli «studenti coranici» abbiano scelto di far filtrare quella dichiarazione con due obiettivi. Primo: contare chi sta con loro e chi no. Secondo: mettere pressione su Massud, l'uomo attorno al quale si sta compattando la resistenza nel Nord. Intanto, la situazione all'aeroporto di Kabul è ancora critica. Sky News ha parlato di una situazione peggiorata nelle ultime ore, un «pandemonio assoluto» in cui tre persone almeno avrebbero perso la vita. L'ambasciata statunitense ha avvertito di «potenziali minacce alla sicurezza» e ha consigliato «ai cittadini statunitensi di evitare di recarsi in aeroporto e di evitare gli ingressi» allo scalo dove migliaia di persone, molte famiglie con i figli, continuano ad accorre nella speranza i fuggire dall'Emirato. Tra chi ha lasciato Kabul nelle ultime ore c'è anche Clarissa Ward, la corrispondente della Cnn che ha continuato per diversi giorni a raccontare gli eventi in Afghanistan anche dopo l'arrivo dei talebani. Dagli Stati Uniti, due notizie positive: il neonato sollevato sul filo spinato, il cui video ha fatto il giro del mondo, è tornato dal padre, ha annunciato il Pentagono; sono 13 i Paesi che finora hanno accettato, almeno temporaneamente, di ospitare gli afghani a rischio evacuati dal Paese, ha annunciato il dipartimento di Stato americano ringraziando diversi Stati, tra cui l'Italia, per le operazioni di evacuazione. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/rete-obama-clinton-disastro-afgano-2654750134.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="caccia-agli-esperti-per-larsenale-usa" data-post-id="2654750134" data-published-at="1629616191" data-use-pagination="False"> Caccia agli esperti per l’arsenale Usa Sono ore impegnative per il mullah Abdul Ghani Baradar, il cofondatore dei talebani e capo dell'Ufficio politico del movimento che deve trovare la quadra nei colloqui dedicati alla formazione di un nuovo governo, mentre i suoi miliziani girano casa per casa alla ricerca di coloro che sono presenti negli elenchi dei «collaborazionisti» e mentre si spara per le strade e all'aeroporto di Kabul. Una buona notizia per lui è arrivata ieri mattina dal fratello dell'ex presidente afghano Ashraf Ghani che ha giurato fedeltà ai talebani: un chiaro segnale di che aria tiri a Kabul anche tra le famiglie che contano. Giornate impegnative anche per i capi militari dei talebani che oltre a bastonare chiunque esponga la bandiera afghana e a giustiziare sul posto piccoli delinquenti, stanno facendo incetta dei sistemi d'arma abbandonati in maniera scriteriata dalle truppe americane; la stima è che 600.000 fucili d'assalto, migliaia di casse di munizioni, 75.000 veicoli tra i quali molti blindati, elicotteri, alcuni aerei e droni siano finiti nelle mani dei talebani. Il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha confermato ieri che i miliziani «hanno preso possesso di un enorme arsenale del valore di miliardi di dollari: dai veicoli militari Humvee ai fucili M4 e M16, fino a elicotteri Black Hawk e aerei A-29». Tutto facile per i talebani? Non proprio perché non è da tutti saper pilotare l'aereo da attacco leggero A-29 Super Tucano costruito dalla brasiliana Embraer e modificato per i militari Usa con sensori e armi delle quali si sa pochissimo, o l'elicottero militare leggero Md-530F. In tal senso la ricerca è a tutto campo in Pakistan, in Iran, in Russia, nelle ex Repubbliche sovietiche, nei Balcani e tra i molti jihadisti che stanno arrivando in Afghanistan in questi giorni. Nell'immediato serve chi sappia pilotare questi mezzi ma occorre anche chi in futuro possa formare le milizie talebane. In ogni caso il danno è gravissimo ma probabilmente inevitabile in questo contesto come ci conferma l'analista strategico Franco Iacch: «Secondo procedura standard, ogni asset militare logisticamente impossibile da riportare in patria durante crisi improvvise e potenzialmente sfruttabile da attori ostili è reso inutilizzabile. Non importa quali siano le priorità: le vite e l'equipaggiamento più avanzato contano di più. È quello che sta avvenendo durante la Non combatant evacuation operation attualmente in corso a Kabul. Questo il destino della flotta Ch-46E Sea Knight del dipartimento di Stato schierata in Afghanistan a supporto del Programma Embassy air. I sette Sea Knight implementavano capacità di autodifesa. Diverso il destino dei 211 velivoli (167 dei quali immediatamente utilizzabili) che componevano l'Afghan air force che gli Stati Uniti crearono a partire dal 2008. Dopo l'11 settembre, il Pentagono ha costruito da zero l'intero apparato di sicurezza afghano con armi prodotte negli Stati Uniti. Otto miliardi di dollari sono stati investiti per creare la forza aerea dell'Afghanistan». Decisamente più complesso sarà saper utilizzare i dispositivi biometrici meglio noti come Handheld interagency identity detection equipment asset che si interfacciano con i database centralizzati del Pentagono e che custodiscono i dati di milioni di persone. Questi sistemi che erano stati dati in uso all'Esercito afghano ora sono finiti in mani talebane e se è vero che questi non li sanno utilizzare, un aiuto potrebbe arrivare, ad esempio, da qualche uomo dell'Inter services intelligence il sulfureo servizio segreto pakistano che con i talebani ha da sempre relazioni a dir poco pericolose. Uno scenario che Franco Iacch non esclude: «I dispositivi biometrici sono stati utilizzati dalle forze armate statunitensi per tenere traccia di potenziali terroristi o criminali. Il dipartimento della Difesa, secondo procedura, ha certamente attivato i protocolli di sicurezza per impedire che una tecnologia sensibile possa cadere in mano nemica. Nel caso specifico di Hiide, è improbabile che i talebani possano estrarre o sfruttare la tecnologia dai dispositivi. Verosimile, invece, la vendita (o il dono) ad intelligence straniere».
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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Ecco #DimmiLaVerità del 10 dicembre 2025. Con il nostro Alessandro Rico analizziamo gli ostacoli che molti leader europei mettono sulla strada della pace in Ucraina.