
Parla il sindaco di Bergamo, ex habitué della Leopolda: «Renzi preparava da tempo la scissione. Se ora i dem puntano tutto sullo statalismo e snobbano il Nord, lui guadagnerà consensi. Però tutti i sindaci sono rimasti: significa che il riformismo è nel Pd».«No, non mi ha tentato». Seduto alla scrivania più nobile di Bergamo, sotto lo sguardo severo e vigile di Torquato Tasso, Giacomo Quarenghi, Caravaggio, Palma il Vecchio, Bartolomeo Colleoni (altro che polenta) raffigurati nella stupenda sala del Consiglio comunale, il signor sindaco non può dire che la verità. Matteo Renzi non lo ha tentato, non gli ha chiesto di uscire dalla finestra del Pd e fuggire con lui. Con un modellino di Ferrari di Formula 1 alle spalle e ancora un'ombra di amarezza per la scoppola dell'Atalanta a Zagabria, Giorgio Gori parla volentieri di politica al culmine della stagione dei colpi di scena. «Qualcuno per strada mi ha detto: sindaco, adesso sei nel partito sbagliato. Invece sono convinto che il Pd sia ancora il partito giusto».Che senso ha, per un politico di prima fila già top manager, la scissione di Renzi?«Vedo due livelli, uno tattico e uno strategico. Quello tattico è lampante: con una rappresentanza parlamentare significativa, Renzi è in grado di condizionare il governo e di sedersi al tavolo delle nomine. Il senatore Renzi da solo non si sarebbe potuto sedere ad alcun tavolo».Quindi potrebbe anche far saltare il banco.«Se ha consentito di far partire il governo, non credo che lo metta in crisi dopo qualche mese; vedo una deadline più avanti, magari nel 2022 dopo l'elezione del capo dello Stato. Anche a Renzi serve tempo per strutturarsi, la mossa di Matteo Salvini lo ha costretto ad accelerare i tempi. Senza contare che il condizionamento può essere positivo; per esempio quota 100 non va mandata in esaurimento, ma andrebbe chiusa subito. Non serve, è un provvedimento ingiusto per i giovani e molto costoso».E il livello strategico del gran distacco?«Renzi preparava da tempo questa mossa. Con i comitati civici non me la raccontava giusta: era chiaro che dietro c'era la nascita di una corrente o di un nuovo partito. Dal punto di vista strategico, scommette sul declino del Pd. È convinto che, svuotato del suo stesso contributo, il partito prenda una direzione più a sinistra e tornino a galla clichè ideologici come lo statalismo, l'assistenzialismo, il baricentro al Sud, il protezionismo statale contro la globalizzazione che anche grazie a lui si erano superati».Con il rientro di Roberto Speranza e Massimo D'Alema, fa bene a prefigurare questo scenario?«Io dico che il Pd è padrone del proprio destino e che la sterzata non ci sarà. Ho incontrato Nicola Zingaretti e l'ho trovato molto lucido, consapevole del rischio. Se il Pd prende la strada battuta dai socialisti francesi o dai laburisti di Jeremy Corbyn, Renzi avrà successo. L'esempio non può essere Bernie Sanders, ma Barack Obama».In che senso?«Se vince l'anima statalista, quella che esalta tutto ciò che è pubblico (dall'acqua all'Alitalia) e diffida del privato, avrà buon gioco Renzi a intestarsi il riformismo, a pigiare sull'acceleratore del lavoro, della competitività, della meritocrazia, dell'industria 4.0, della riduzione della pressione fiscale. E a dire: quello è il vecchio, la bad company, venite da noi. Confido che possa avere torto».Eppure nel dna di molto Pd e di tutto il Movimento 5 stelle c'è il primato dello Stato.«Non si tratta di essere contro lo Stato, ma di non immaginare solo risposte di carattere assistenzialistico. Accompagnare all'uscita i riformisti - come è sembrato augurarsi Bettini -, prefigurare un'alleanza strategica con i 5 stelle, sarebbe per noi esiziale. Zingaretti ha chiaro uno scenario: o il governo porta a cose utili per il Paese, provvedimenti tangibili che la gente vede, oppure tutto ciò si ritorce contro il Pd. Galleggiare non basta».Il Ceo di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, ha detto che sarebbe un errore andare contro il Nord.«Condivido il suo pensiero. Dimenticare le istanze del Nord, legate in primo luogo all'innovazione, alla produttività e alla sburocratizzazione, sarebbe un boomerang per il Paese - anche per il Sud - e per il Pd. Ma dico di più: guai a lasciar cadere il discorso delle autonomie».Giuseppe Conte le ha dimenticate, stracciate, azzerate.«Non bisogna mettere in discussione la coesione nazionale, e alcune pretese dei governatori leghisti sono irricevibili. Ma anch'io ho votato sì per l'autonomia, nel senso di maggiore responsabilità e possibilità di decidere. Il trasferimento di competenze e risorse deve però arrivare ai Comuni, non fermarsi alle Regioni: serve un'operazione di sussidiarietà che coinvolga gli enti locali». Si parla più facilmente di redistribuzione.«La redistribuzione va bene, le famiglie in difficoltà economica sono tante. Ma può avvenire solo se c'è creazione di valore, e quindi crescita, produttività, innovazione, valorizzazione del capitale umano. Sono concetti importanti per l'Italia, ma vitali per il Nord. E Renzi cercherà di appropriarsene. Noi dobbiamo fare come nel judo, usare la spinta dell'avversario per cercare di batterlo».È vero che Renzi ha la sindrome da Emmanuel Macron?«La scommessa è analoga, punta sul declino del principale partito del centrosinistra. In Francia ha funzionato per diversi motivi, non tutti replicabili: 1) Il sistema elettorale. Con il nostro, difficilmente Macron sarebbe diventato presidente. 2) Macron era nuovo, Renzi è giovane ma non è nuovo. Nei sondaggi paga più gli errori delle cose buone fatte. 3) Macron ha creato En Marche con uno straordinario lavoro di organizzazione. Renzi lo vedo più... situazionista. 4) I socialisti francesi si sono suicidati rinchiudendosi nell'orticello di sinistra. Ecco, confido che il Pd non commetta questo errore».Giorgio Gori, perché non se l'è sentita di fare il salto?«Perché il partito di Renzi è, appunto, il partito di Renzi. Costruito intorno a una persona, per definizione non contendibile. È possibile che la politica di oggi richieda questo: un capo e un popolo che lo segue. Ma non è la mia idea, preferisco stare in una comunità. Magari imperfetta, ma plurale e contendibile».Molti sono frenati dalla tendenza del leader di stancarsi in fretta dei fedelissimi.«Non mi pare, le persone più vicine a Matteo sono stabilmente le stesse, quelle di cui si fida. Non lo ha seguito Luca Lotti, ma gli altri sì. Per ottenere successo gli sarà però utile allargarlo, quel gruppo».Perché ha proposto un congresso straordinario sei mesi dopo l'ultimo?«Perché è cambiato il quadro politico. Allora le mozioni dei tre candidati, Maurizio Martina, Nicola Zingaretti e Roberto Giachetti, pur con diverse sfumature, contenevano lo stesso concetto: siamo alternativi ai 5 stelle. Oggi siamo al governo con loro e abbiamo subìto una scissione. Non penso a nuove primarie, ma bisogna decidere in che direzione andare».Sarà alla Leopolda?«No, per la prima volta dopo molti anni» (sorride).Senza Matteo Renzi e Carlo Calenda il riformismo Pd è meno credibile.«Sono due personalità importanti. Ma attenzione, non c'è un solo sindaco del Pd ad avere dichiarato: me ne vado. Significa che i riformisti ci sono, sono numerosi e determinati a far valere i loro argomenti. Forse oggi con un problema di leadership, perché i leader non sono sufficienti ma sono necessari».Ci sarebbe lei.«Grazie, ma i sindaci devono fare i sindaci».
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».
Antonio Scoppetta (Ansa)
- Nell’inchiesta spunta Alberto Marchesi, dal passato turbolento e gran frequentatore di sale da gioco con toghe e carabinieri
- Ora i loro legali meditano di denunciare la Procura per possibile falso ideologico.
Lo speciale contiene due articoli
92 giorni di cella insieme con Cleo Stefanescu, nipote di uno dei personaggi tornati di moda intorno all’omicidio di Garlasco: Flavius Savu, il rumeno che avrebbe ricattato il vicerettore del santuario della Bozzola accusato di molestie.
Marchesi ha vissuto in bilico tra l’abisso e la resurrezione, tra campi agricoli e casinò, dove, tra un processo e l’altro, si recava con magistrati e carabinieri. Sostiene di essere in cura per ludopatia dal 1987, ma resta un gran frequentatore di case da gioco, a partire da quella di Campione d’Italia, dove l’ex procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti è stato presidente fino a settembre.
Dopo i problemi con la droga si è reinventato agricoltore, ha creato un’azienda ed è diventato presidente del Consorzio forestale di Pavia, un mondo su cui vegliano i carabinieri della Forestale, quelli da cui provenivano alcuni dei militari finiti sotto inchiesta per svariati reati, come il maresciallo Antonio Scoppetta (Marchesi lo conosce da almeno vent’anni).
Mucche (iStock)
In Danimarca è obbligatorio per legge un additivo al mangime che riduce la CO2. Allevatori furiosi perché si munge di meno, la qualità cala e i capi stanno morendo.
«L’errore? Il delirio di onnipotenza per avere tutto e subito: lo dico mentre a Belém aprono la Cop30, ma gli effetti sul clima partendo dalle stalle non si bloccano per decreto». Chi parla è il professor Giuseppe Pulina, uno dei massimi scienziati sulle produzioni animali, presidente di Carni sostenibili. Il caso scoppia in Danimarca; gli allevatori sono sul piede di guerra - per dirla con la famosissima lettera di Totò e Peppino - «specie quest’anno che c’è stata la grande moria delle vacche». Come voi ben sapete, hanno aggiunto al loro governo (primo al mondo a inventarsi una tassa sui «peti» di bovini e maiali), che gli impone per legge di alimentare le vacche con un additivo, il Bovaer del colosso chimico svizzero-olandese Dsm-Firmenich (13 miliardi di fatturato 30.000 dipendenti), capace di ridurre le flatulenze animali del 40%.





