
L'ex premier tuona contro questo giornale perché osa criticare le sue politiche sulla giustizia. Esattamente come il dem Franco Roberti.Il primo presidente del Consiglio che minacciò di querelarmi fu Romano Prodi. Era il 1996 e da pochi giorni dirigevo Il Tempo, mentre l'ex capo dell'Iri era premier da qualche mese. Nella mia vita precedente, quella da cronista, nessuno mi aveva mai citato in giudizio, ma in quella da direttore scoprii presto che i politici fanno spesso ricorso ai legali per regolare i conti con i giornalisti. L'ufficio stampa di Palazzo Chigi si premurò di annunciare via Ansa la denuncia di Prodi per un titolo sulla finanziaria, anche se poi quella querela non arrivò mai. Non so che fine farà, invece, la citazione anticipata ieri via agenzia da Matteo Renzi. Forse si perderà per strada come la precedente, che pur essendo stata comunicata con grande enfasi settimane fa, non è ancora giunta in redazione. Comunque, che la causa sia solo annunciata o anche presentata, poco importa. La sostanza è che l'ex presidente del Consiglio pare si sia sentito diffamato dal nostro titolo di ieri, che ricordo qui per chi si fosse perso il numero della Verità: «Il mercato dei giudici? Colpa di Renzi. Noi l'avevamo svelato cinque anni fa». In effetti è un po' fortino, e può essere che l'ex segretario del Pd ci sia rimasto male. Tuttavia, la prima parte, quella in cui abbiamo scritto che il mercato dei giudici è colpa di Renzi, è la sintesi di ciò che ha detto l'ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, uno che dopo aver appeso al chiodo la toga - per raggiunti limiti di età - è stato eletto all'europarlamento nelle liste del Pd. In sintesi, un collega, oltre che un compagno del senatore semplice di Scandicci. Rileggiamo con attenzione le parole scritte in un post su Facebook dal magistrato che fino a pochi mesi fa combatteva la mafia. «Nel 2014 il governo Renzi, all'apice del suo effimero potere, con decreto legge, abbassò improvvisamente, e senza alcuna apparente necessità e urgenza (i decreti legge sono uno strumento che dovrebbe essere usato dal governo in caso di emergenza, ndr) l'età pensionabile dei magistrati da 75 a 70 anni. Quella sciagurata iniziativa era dettata da un duplice interesse». Nel breve intervento via social, l'ex procuratore spiega quali fossero questi interessi, e cioè la voglia di prepensionare i magistrati più anziani e dunque più esperti per sostituirli con altri «ritenuti (a torto o ragione) più “sensibili" di alcuni loro arcigni predecessori verso il sistema politica». Insomma, Roberti sostiene che quanto è successo lo si deve al decreto Renzi e dice anche che quel decreto fu fatto senza urgenza e apparente necessità. Abbiamo dunque travisato il pensiero dell'illustre pubblico ministero e ora onorevole del Pd? A prima vista non parrebbe. Ma alla seconda, dopo aver letto l'intervista che lo stesso Roberti ha rilasciato ieri a Repubblica, mi convinco ancora di più di quello che abbiamo scritto. Domanda il giornalista: «In un post su Facebook lei è stato molto duro con la decisione del governo Renzi di anticipare l'età pensionabile dei magistrati». Risposta dell'ex procuratore: «Fu la rottamazione di un'intera generazione di magistrati. Che incrociava due esigenze: quella, legittima, dei miei colleghi più giovani che volevano vedere sbloccata la carriera. E quella di un pezzo della politica che pensò, con le assegnazioni, di poterne approfittare per controllare la magistratura. Qui viene fuori l'intreccio correntistico tra esponenti del Csm ed esponenti politici. Quella scelta aprì la strada alla corsa sfrenata ai direttivi. E quindi al correntismo più deteriore». Il capo dei pm antimafia, dunque, reitera l'accusa lanciata via Facebook. «Questa storia», dice l'ex magistrato, «apre una questione morale, di etica della responsabilità, che riguarda i magistrati, ma anche la politica. A partire dal Pd». E tanto per essere chiaro, quando parla di questione etica il neo onorevole addirittura evoca la P2.Dunque, se l'ex premier deve prendersela con qualcuno, se cioè vuole fare causa a chi lo tira in ballo, il primo da mettere in cima alla lista è Roberti, che non si nasconde dietro a un dito. Ma denunciare l'ex capo della Procura nazionale antimafia e ora compagno di partito è dura anche per un ganassa come Renzi, che perciò preferisce sparare contro di noi piuttosto di mirare al bersaglio grosso.Peraltro, come abbiamo raccontato ieri, noi già cinque anni fa, nel silenzio più totale della stampa, avevamo descritto ciò che stava accadendo, e cioè le mani della politica sui vertici della magistratura, parlando addirittura di un potere giudiziario che sarebbe stato agli ordini del governo, proprio per via dei prepensionamenti, delle nomine nel Csm e dello stop ai ricorsi al Tar dei magistrati che si fossero sentiti estromessi o scavalcati. Cioè, quello per cui ora Renzi si indigna, lo scrivemmo quando lui era a Palazzo Chigi e comandava l'Italia con piglio di ferro. Per dirla in altre parole: di lui non avevamo paura allora, figuratevi se ci fa paura ora con le sue cause.
Antonio Filosa (Stellantis)
La batteria elettrica è difettosa. La casa automobilistica consiglia addirittura di parcheggiare le auto lontano dalle case.
Mentre infuria la battaglia mondiale dell’automobile, con la Cina rampante all’attacco delle posizioni delle case occidentali e l’Europa impegnata a suicidarsi industrialmente, per Stellantis le magagne non finiscono mai. La casa automobilistica franco-olandese-americana (difficile ormai definirla italiana) ha dovuto infatti diramare un avviso di richiamo di ben 375.000 automobili ibride plug-in a causa dei ripetuti guasti alle batterie. Si tratta dei Suv ibridi plug-in Jeep Wrangler e Grand Cherokee in tutto il mondo (circa 320.000 nei soli Stati Uniti, secondo l’agenzia Reuters), costruiti tra il 2020 e il 2025. Il richiamo nasce dopo che si sono verificati 19 casi di incendi della batteria, che su quei veicoli è fornita dalla assai nota produttrice coreana Samsung (uno dei colossi del settore).
Lucetta Scaraffia (Ansa)
In questo clima di violenza a cui la sinistra si ispira, le studiose Concia e Scaraffia scrivono un libro ostile al pensiero dominante. Nel paradosso woke, il movimento, nato per difendere i diritti delle donne finisce per teorizzare la scomparsa delle medesime.
A uno sguardo superficiale, viene da pensare che il bilancio non sia positivo, anzi. Le lotte femministe per la dignità e l’eguaglianza tramontano nei patetici casi delle attiviste da social pronte a ribadire luoghi comuni in video salvo poi dedicarsi a offendere e minacciare a telecamere spente. Si spengono, queste lotte antiche, nella sottomissione all’ideologia trans, con riviste patinate che sbattono in copertina maschi biologici appellandoli «donne dell’anno». Il femminismo sembra divenuto una caricatura, nella migliore delle ipotesi, o una forma di intolleranza particolarmente violenta nella peggiore. Ecco perché sul tema era necessaria una riflessione profonda come quella portata avanti nel volume Quel che resta del femminismo, curato per Liberilibri da Anna Paola Concia e Lucetta Scaraffia. È un libro ostile alla corrente e al pensiero dominante, che scardina i concetti preconfezionati e procede tetragono, armato del coraggio della verità. Che cosa resta, oggi, delle lotte femministe?
Federica Picchi (Ansa)
Il sottosegretario di Fratelli d’Italia è stato sfiduciato per aver condiviso un post della Casa Bianca sull’eccesso di vaccinazioni nei bimbi. Più che la reazione dei compagni, stupiscono i 20 voti a favore tra azzurri e leghisti.
Al Pirellone martedì pomeriggio è andata in scena una vergognosa farsa. Per aver condiviso a settembre, nelle storie di Instagram (che dopo 24 ore spariscono), un video della Casa Bianca di pochi minuti, è stata sfiduciata la sottosegretaria allo Sport Federica Picchi, in quota Fratelli d’Italia. A far sobbalzare lorsignori consiglieri non è stato il proclama terroristico di un lupo solitario o una sequela di insulti al governo della Lombardia, bensì una riflessione del presidente americano Donald Trump sull’eccessiva somministrazione di vaccini ai bambini piccoli. Nessuno, peraltro, ha visto quel video ripostato da Picchi, come hanno confermato gli stessi eletti al Pirellone, eppure è stata montata ad arte la storia grottesca di un Consiglio regionale vilipeso e infangato.
Jannik Sinner (Ansa)
Alle Atp Finals di Torino, in programma dal 9 al 16 novembre, il campione in carica Jannik Sinner trova Zverev, Shelton e uno tra Musetti e Auger-Aliassime. Nel gruppo opposto Alcaraz e Djokovic: il duello per il numero 1 mondiale passa dall'Inalpi Arena.
Il 24enne di Sesto Pusteria, campione in carica e in corsa per chiudere l’anno da numero 1 al mondo, è stato inserito nel gruppo Bjorn Borg insieme ad Alexander Zverev, Ben Shelton e uno tra Felix Auger-Aliassime e Lorenzo Musetti. Il toscano, infatti, saprà soltanto dopo l’Atp 250 di Atene - in corso in questi giorni in Grecia - se riuscirà a strappare l’ultimo pass utile per entrare nel tabellone principale o se resterà la prima riserva.






