Raul Cremona: «In Italia nemmeno le risate sono uguali dal Nord al Sud»

Studiare la meraviglia. Più parli con Raul Cremona e più sembra che il suo lavoro e la sua «libidine» sia quello di capire come riuscire a suscitare quel «ooh» che il pubblico non riesce a trattenere di fronte a una magia, a un «miracolo». Lui ha deciso di aggiungerci la risata: è stato il primo ad aver fuso cabaret e prestigiazione in Italia, spezzando «le catene che ci tenevano legati al mago impostato e con la dizione perfetta». Non sono personaggi improvvisati, né il mago Oronzo né Silvano il mago di Milano. «Ho voluto abbattere la quarta parete e dialogare con l’ilarità del pubblico senza sacrificare il mio voler giocare con i miracoli della magia», ci racconta con quel pizzico di megalomania senza la quale un mago difficilmente esisterebbe. Riuscire a essere divertenti e insieme far pescare dal mazzo una carta inaspettata, che vuoi che sia? E invece no, se ci son dentro le maschere della Commedia dell’arte e pure la volontà di rivelare il grottesco del presente, e quel cinismo tutto milanese con sotto un cuore. E poi Cremona stupisce - e non si sa se fa davvero sul serio ma sembrerebbe di sì - quando dopo un po’ di chiacchiere butta lì un «ma lo sa che sono un discendente di Napoleone IIII?».
Il nipote di Bonaparte? Che fu imperatore?
«Proprio lui: era il mio quartavolo. Deve sapere che con gli anni mi sono ammalato di storia e mi sono incaponito di verificare quel che diceva mia nonna. Sosteneva che suo nonno fosse figlio illegittimo del fratello di Napoleone».
E sarebbe vero?
«Pare di sì. Qualche anno fa ho cercato fino a Pietra Ligure, avevo bisogno di capire se c’era da fidarsi di questi racconti. All’ufficio anagrafe sono stati gentilissimi, mi avevano riconosciuto e forse un po’ questo ha aiutato. Cercavo la mia trisavola come Severina, e invece era Florinda, e poi la scoperta: suo padre era Felice Merzet, nato a Châlons-en-Champagne, una dépendance dei regnanti francesi dell’epoca».
Come mai questa passione per lo studio sulle sue origini?
«Non saprei, forse è il senso della perdita, a farmi soffrire. Il tempo che scorre, i ricordi che spariscono. Ma io la ricordo bene, la mia prima scatola di magia».
Oggi di anni ne ha 66. Allora erano…
«Era un Natale degli anni ’60, di noi baby boomer che trovavamo sotto l’albero cose che mai, prima, i nostri genitori si sarebbero potuti permettere. La bicicletta, il fortino con gli indiani e i cowboy, e quelle scatole di giochi di prestigio. Oggi è roba da tutti i giorni, una volta era qualcosa di davvero speciale».
Che cosa la affascinò della scatola?
«Ricordo che la vendevano all’Upim, era tutta nera e aveva un mazzo di carte tutte uguali e tutte in fila: mi ci appassionai subito. Sarà che il nonno e il papà con gli scherzi ci lavoravano».
Erano venditori in piazza Duomo. Imbonitori, li chiamavano.
«Maestri dell’arte istrionica. Intrattenevano. Di papà ricordo il mazzo truccato che si chiama “Svengali”, un nome preso da un film degli anni ’30, neorealista: la storia di un ipnotista che soggioga una fanciulla. Ma questo l’ho scoperto dopo. Ricordo che le carte di mio padre diventavano tutte uguali: il miracolo».
E poi c’era il bisnonno clown.
«Sì, sono andato a Caravaggio, nella bergamasca, per cercare da un cugino un suo manifesto di quando girava il mondo con il circo. Me lo ha lasciato in eredità, quel poster. Gliene sono grato. Altrimenti i ricordi si perdono».
Il salto verso il professionismo?
«A 17 anni mi avventurai da solo al circolo dei prestigiatori di Milano. Non era mica come oggi, che i genitori portano i figli a destra e a manca. Chiedevi al papà di accompagnarti e ti rispondeva che di tempo “ghe n’era minga”, non ce n’era. Fu un’avventura. Oggi abito in Porta Romana, e allora stavamo vicino a piazzale Corvetto. Si viveva il quartiere, e ci si spostava poco e si consumava la vita al suo interno».
E quando entrò in quel circolo?
«Semplice: vidi i giochi di un paio di soci del circolo e capii che volevo fare solo quello nella vita. Pensi che sono ancora oggi presidente onorario di quel circolo».
Il suo accento è forte, spesso volutamente marcato. Si sente un «milanese imbruttito»?
«Imbruttito no, ma cinico sì. Gli “imbruttiti” sono oggi quelli all’ultima sponda del cinismo intrinseco di noi milanesi. Ci raccontano persino nelle barzellette. Le conosce?».
Neanche una, purtroppo.
«C’è quella del bambino che viene salvato perché stava affogando nel Naviglio. Arriva il padre, e si dirige verso l’uomo che si è tuffato e l’ha tirato fuori, e gli domanda: “Sei tu che hai salvato mio figlio? Dov’è il cappellino?”. Siamo sempre sul pezzo, noi. Sarà la discendenza austriaca. C’è poi quella che dice che l’ottimista vede la luce in fondo al tunnel, il pessimista non vede nulla e il realista vede il treno…».
E il milanese?
«Guida il treno e si chiede chi siano quei tre pirla sui binari».
Riesce a far ridere anche al Sud?
«L’umorismo lombardo è molto diverso da altre comicità italiane. Il romano è più aggressivo, il milanese è più “british”. Vediamo il bicchiere mezzo vuoto e ridimensioniamo tutto. Sempre pronti al peggio. C’è molto di questo nella mia comicità. Una battuta che faccio spesso, per capirci, è: “I bambini sono il sale della vita. Quando l’acqua bolle, buttali dentro”».
Come fa tutto questo che lei racconta a stare insieme alla magia.
«In un certo senso sono l’anti-mago. È come se la magia avvenisse malgrado me. Mai una volta che sono entrato in scena a dire “eccomi, pubblico straordinario”. Piuttosto, all’applauso dico “basta, basta, che ho mal di testa”».
Non si offende nessuno?
«Se succede ci vuole mestiere, improvvisare e sentire come respira chi ti guarda. Qualche giorno fa ad Aosta mi son reso conto che 40 anni di esperienza contano per far ridere la gente. Ricordo un aneddoto su Totò, capace di suscitare a seconda della battuta un “ahah”, un “uhuh”, un “hihi” nei suoi spettatori. Ma il “ooh” di meraviglia è la libidine propria solo del mago».
Tanti i suoi personaggi. Diventati noti soprattutto Mai dire gol.
«E pensi che son già passati trent’anni. I personaggi che ho creato alla fine sono un po’ degli archetipi».
Farebbe ridere ancora quella trasmissione?
«Sicuro. Anche se la comicità è davvero cambiata moltissimo. Si basa oggi sui monologhi, più che altro».
Stand up commedy. Ce n’è un po’ anche nello show Only fun a cui partecipa sul Nove, con Elettra Lamborghini.
«Bellissima esperienza, mi insegna a capire questa generazione. La comicità dei miei tempi si ispirava alla commedia dell’arte. Totò e Peppino, Aldo Fabrizi».
Si sente un «animale» in via d’estinzione?
«Beh, io poi ci ho messo la prestigiazione, dentro la comicità. Che ha tempi lunghi di esposizione. Nel mio mestiere sono i gesti, la mimica, il legame con il territorio d’origine… non è una battuta di pochi secondi che si scorre su un cellulare».
Chi le piace?
«A me piaceva Jerry Lewis. Ho apprezzato la fisicità in scena di Walter Chiari e di Totò. Con Aldo, Giovanni e Giacomo siamo amici. Una volta son salito sulla macchina di Giovanni e gli ho chiesto come mai avesse una Cinquecento. Mi ha risposto che la Porsche era dal meccanico».
E non c’era nessuno da far ridere se non lei.
«Siamo fatti così. E forse rimiamo ormai solo noi e pochi altri».
La gente ha però sempre voglia di ridere, no?
«Sempre. E pure di magia. Organizzo a gennaio uno spettacolo con maghi che vengono da tutto il mondo a mostrare i loro trucchi al teatro Manzoni, dal vivo. Il prestigiatore è sul palcoscenico che brilla. Non in uno schermo. Questa kermesse è un po’ il mio regalo a Milano. Facciamo sempre il pienone e nel 2024 torniamo».
Quindi pure il milanese si vuole meravigliare, nonostante il cinismo. E lei?
«La vita è una cosa seria. Mi piace prenderla in giro. Perché altrimenti ti seppelliscono i problemi, le ansie e le tristezze. Il mago è colui che ti dà la carta per uscirne. Per me, è un mestiere che mi impedisce di essere quel che forse naturalmente sarei: malinconico e incazzato. Alla fine, è un regalo anche per me».





