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2024-05-28
Il raid a Rafah agita Gerusalemme che ora indaga su 70 azioni militari
Ansa
Le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno confermato di aver attaccato domenica sera nella zona di Tal as Sultan, che si trova a Nordovest di Rafah, precisando di aver mirato una sede di Hamas mentre era in corso una riunione di alto livello. «L’attacco è stato effettuato contro terroristi, che sono un bersaglio in conformità con il diritto internazionale, utilizzando munizioni di precisione e sulla base di informazioni d’intelligence», dice l’Idf, secondo cui l’attacco successivamente avrebbe causato un incendio che si è diffuso in un campo per sfollati palestinesi, causando vittime tra i civili. Quanto accaduto «è ora oggetto di indagini». Avi Hyman, portavoce del governo, ha affermato che «i primi risultati dell’indagine mostrano che l’attacco aereo contro Hamas ha provocato un incendio che ha ucciso civili palestinesi», mentre per il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, che ieri ha avuto un incontro con le famiglie degli ostaggi che lo hanno contestato, quanto accaduto «è un tragico incidente di cui rammaricarsi». L’Onu ha chiesto a Israele «un’inchiesta completa e trasparente sull’attacco».
Il ministero della Sanità di Gaza, controllato dai jihadisti di Hamas, ha dichiarato che 50-60 persone sarebbero morte e decine sono rimaste ferite a seguito degli attacchi aerei su Rafah. Ma quali erano gli obiettivi del raid? In una nota l’Idf ha affermato che «sono stati eliminati il terrorista Yassin Rabia, comandante della leadership di Hamas in Giudea e Samaria, nonché Khaled Nagar, alto funzionario dell’ala di Hamas in Giudea e Samaria». Le vittime al momento sarebbero 45. Contrariamente a quanto sostengono i nemici di Israele, lo Stato ebraico prende molto sul serio le accuse che gli vengono rivolte e lo dimostrano le parole del procuratore generale militare, Yifat Tomer Yerushalmi: «I dettagli del grave incidente sono oggetto d’inchiesta, che ci impegniamo a portare avanti al massimo». Poi la Yerushalmi ha reso noto che «sono aperte 70 inchieste per sospetti incidenti criminali durante la guerra», vedi presunte torture a prigionieri, uccisioni indiscriminate e altri reati. Tra queste c’è anche quella sul centro di detenzione militare di Sde Teiman dove sono rinchiusi i miliziani di Hamas catturati dal 7 ottobre in poi e molte altre vicende. Dettaglio da non trascurare è che la maggior parte delle denunce sono state inoltrate da gruppi israeliani per i diritti umani, poi da Reporter senza frontiere, Amnesty international e altri.
Sempre a proposito di quanto accaduto a Tal as Sultan, domenica sera la Casa Bianca ha fatto sapere di essere a conoscenza dell’attacco israeliano al campo profughi di Rafah e di volere dei chiarimenti: «Stiamo raccogliendo maggiori informazioni». Nessuna inchiesta è invece in corso da parte dell’Autorità nazionale palestinese o dagli Stati arabi in merito agli efferati crimini di Hamas che continua a lanciare missili su Israele anche da Rafah; così come nessuno di questi attori si è mai attivato per chiedere la liberazione degli ostaggi.
Sempre nella notte tra domenica e lunedì, l’Idf ha preso di mira ed eliminato un terrorista che è stato avvistato ad Ainat, nel Sud del Libano, da cui sono state effettuate operazioni di bombardamento verso l’area di Malkiyah. Inoltre, aerei da guerra hanno attaccato un edificio militare appartenente all’organizzazione terroristica Hezbollah nella zona di Aitaroun, nel Sud del Libano. L’esercito israeliano ha annunciato di aver distrutto un tunnel di Hamas nel quartiere Sabra, a Gaza City. Il tunnel, lungo 800 metri e scavato a una profondità di 18 metri, era situato vicino al corridoio Netzarim, che attraversa orizzontalmente la Striscia di Gaza, dove si trovavano truppe israeliane. Questa informazione è stata fornita dal portavoce militare. Sempre nella notte tra domenica e lunedì, gli uomini dell’unità 869 dell’Idf hanno identificato una cellula terroristica che operava in una struttura militare di Hezbollah nella Regione di Yaroun, nel Sud del Libano, che è stata distrutta dai caccia da combattimento israeliani. Inoltre, un aereo dell’Aeronautica militare ha attaccato una cellula terroristica dell’organizzazione, che è stata identificata dalla Brigata Sayeret Golani, operante nella Regione di Hula. Contemporaneamente, caccia da combattimento e aerei dell’Aeronautica militare hanno attaccato altri obiettivi di Hezbollah nel Sud del Libano e tra gli obiettivi attaccati, ci sono un deposito di armi e una struttura militare di Hezbollah nella zona di Mays al-Jabal, insieme a infrastrutture terroristiche nella zona di al-Khiam e altri edifici militari nella zona di Hula.
Infine, le Forze di difesa israeliane hanno confermato «che c’è stata una sparatoria con l’esercito egiziano al valico di Rafah», che ha causato la morte di almeno un soldato egiziano. Secondo il Times of Israel, l’Idf ha spiegato che «c’è stata una sparatoria al confine egiziano, l’incidente è sotto indagine ed è in corso un dialogo con la parte egiziana». Fonti dell’Idf, citate da Ynet, hanno fatto anche sapere che «sono stati i soldati egiziani a iniziare a sparare contro una forza dell’Idf che passava attraverso l’area del valico di Rafah, provocando lo scontro a fuoco». Si tratta di un incidente pericolosissimo che potrebbe infiammare gli animi dei soldati egiziani in un’area come quella di Rafah dove la tensione è da mesi alle stelle.
Crosetto: «Così Israele semina odio»
Su Rafah la maggior parte dei Paesi sembra d’accordo: Israele doveva fermarsi. Da qui parte il ragionamento del ministro della Difesa italiano, Guido Crosetto, che pur confermando il sostegno a Israele decide di esternare un pensiero comune a molti alleati. «Siamo convinti che Israele dovesse risolvere il problema con Hamas, ma fin dal primo giorno abbiamo detto che questa cosa andava affrontata in modo diverso. Tutti gli Stati sono concordi che su Rafah Israele doveva fermarsi. Non siamo stati ascoltati e ora guardiamo con disperazione la situazione». Crosetto dice di avere l’impressione che Israele in questo modo «stia seminando un odio tra la popolazione palestinese che coinvolgerà figli e nipoti»: «Hamas è un conto, il popolo palestinese è un altro. Dovevano discernere tra le due cose e fare una scelta più coraggiosa dal punto di vista democratico». Le sue riflessioni, ha confermato poi il ministro, erano già state condivise con il suo omologo israeliano. Non si tratta di una condanna di Israele quindi, come sottolinea Crosetto, ma anzi del «primo dovere di qualsiasi collega di un Paese amico come sono io ed è l’Italia verso Israele».
Una linea confermata anche dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani: «Bisogna scongiurare l’escalation. Basta guerra. Ora è il momento del dialogo». Poi ha aggiunto: «Siamo contro l’attacco a Rafah e siamo per un cessate il fuoco immediato e ovviamente siamo per la liberazione degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas, come siamo contro gli attacchi di missili di Hamas contro Israele». Una posizione quindi che non vuole tradursi in una rottura con Gerusalemme, ma in un chiarimento, per assumere un atteggiamento più dialogante tra le parti.
Ed è in questo quadro che rientra anche la visita di sabato scorso del premier palestinese, Mohammed Mustafa, a Roma. Va evidenziato che nella sua trasferta estera, quello con Meloni è stato l’unico incontro con un leader europeo. Elemento che porrebbe l’Italia come possibile intermediario per una tregua tra i due Stati. Strategia chiarita dallo stesso premier in un’intervista su Radio 1, quando ha spiegato che «l’Italia ha già dimostrato di poter fare da capofila su molte politiche e fare da apripista su molti dossier». Meloni si riferiva all’Europa, certo, ma questo non esclude che la stessa strategia si possa applicare anche al di fuori dei confini europei. Soprattutto quando bisognerà pensare al dopo guerra a Gaza, l’Italia potrebbe essere presente sul territorio dopo essersi posta come attore super partes.
La condanna dell’operazione a Rafah d’altronde è arrivata da più parti. Gli stessi Stati Uniti più volte hanno avvertito il governo Netanyahu di non andare avanti con il piano. Esiste anche una sentenza della corte internazionale di Giustizia che dice a Israele di fermare immediatamente l’offensiva. Proprio ieri il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha detto: «Esorto a rispettare il diritto internazionale umanitario. Ricordo al governo israeliano che l’accordo di associazione Ue-Israele deve continuare a basarsi sul rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale, in linea con i nostri valori». Mentre l’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, si è detto «inorridito per gli attacchi israeliani». E Madrid è arrivata a richiamare l’ambasciatrice spagnola in Israele, Ana María Salomon, dopo «l’atroce crimine di guerra» commessi con i raid a Rafah.
Le frizioni esterne si ripercuotono inevitabilmente anche all’interno di Israele. Il premier, Benjamin Netanyahu, non gode di consenso e anzi, sono in molti a volerlo fuori dall’esecutivo. Ieri l’ennesimo attacco del leader di opposizione, Yair Lapid, che alla Knesset ha detto: «Perché sei ancora primo ministro? Perché non sali su questo podio, chiedi perdono al popolo d’Israele e non vai a casa? Non hai adempiuto al tuo ruolo, hai fallito e fallito. Un primo ministro illegittimo e questo governo», ha aggiunto, «è illegittimo».
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L’Idf: «Colpiti i capi di Hamas, poi è partito l’incendio». I morti sarebbero 45. Benjamin Netanyahu: «Incidente di cui rammaricarsi». Usa e Onu chiedono chiarimenti. Soldato egiziano muore in uno scontro a fuoco.Il ministro della Difesa Guido Crosetto critica l’alleato: «Doveva fermarsi, non ci ha ascoltato». Antonio Tajani: «Scongiurare l’escalation». Condanne dall’Ue, Madrid richiama la sua ambasciatrice.Lo speciale contiene due articoli.Le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno confermato di aver attaccato domenica sera nella zona di Tal as Sultan, che si trova a Nordovest di Rafah, precisando di aver mirato una sede di Hamas mentre era in corso una riunione di alto livello. «L’attacco è stato effettuato contro terroristi, che sono un bersaglio in conformità con il diritto internazionale, utilizzando munizioni di precisione e sulla base di informazioni d’intelligence», dice l’Idf, secondo cui l’attacco successivamente avrebbe causato un incendio che si è diffuso in un campo per sfollati palestinesi, causando vittime tra i civili. Quanto accaduto «è ora oggetto di indagini». Avi Hyman, portavoce del governo, ha affermato che «i primi risultati dell’indagine mostrano che l’attacco aereo contro Hamas ha provocato un incendio che ha ucciso civili palestinesi», mentre per il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, che ieri ha avuto un incontro con le famiglie degli ostaggi che lo hanno contestato, quanto accaduto «è un tragico incidente di cui rammaricarsi». L’Onu ha chiesto a Israele «un’inchiesta completa e trasparente sull’attacco».Il ministero della Sanità di Gaza, controllato dai jihadisti di Hamas, ha dichiarato che 50-60 persone sarebbero morte e decine sono rimaste ferite a seguito degli attacchi aerei su Rafah. Ma quali erano gli obiettivi del raid? In una nota l’Idf ha affermato che «sono stati eliminati il terrorista Yassin Rabia, comandante della leadership di Hamas in Giudea e Samaria, nonché Khaled Nagar, alto funzionario dell’ala di Hamas in Giudea e Samaria». Le vittime al momento sarebbero 45. Contrariamente a quanto sostengono i nemici di Israele, lo Stato ebraico prende molto sul serio le accuse che gli vengono rivolte e lo dimostrano le parole del procuratore generale militare, Yifat Tomer Yerushalmi: «I dettagli del grave incidente sono oggetto d’inchiesta, che ci impegniamo a portare avanti al massimo». Poi la Yerushalmi ha reso noto che «sono aperte 70 inchieste per sospetti incidenti criminali durante la guerra», vedi presunte torture a prigionieri, uccisioni indiscriminate e altri reati. Tra queste c’è anche quella sul centro di detenzione militare di Sde Teiman dove sono rinchiusi i miliziani di Hamas catturati dal 7 ottobre in poi e molte altre vicende. Dettaglio da non trascurare è che la maggior parte delle denunce sono state inoltrate da gruppi israeliani per i diritti umani, poi da Reporter senza frontiere, Amnesty international e altri. Sempre a proposito di quanto accaduto a Tal as Sultan, domenica sera la Casa Bianca ha fatto sapere di essere a conoscenza dell’attacco israeliano al campo profughi di Rafah e di volere dei chiarimenti: «Stiamo raccogliendo maggiori informazioni». Nessuna inchiesta è invece in corso da parte dell’Autorità nazionale palestinese o dagli Stati arabi in merito agli efferati crimini di Hamas che continua a lanciare missili su Israele anche da Rafah; così come nessuno di questi attori si è mai attivato per chiedere la liberazione degli ostaggi. Sempre nella notte tra domenica e lunedì, l’Idf ha preso di mira ed eliminato un terrorista che è stato avvistato ad Ainat, nel Sud del Libano, da cui sono state effettuate operazioni di bombardamento verso l’area di Malkiyah. Inoltre, aerei da guerra hanno attaccato un edificio militare appartenente all’organizzazione terroristica Hezbollah nella zona di Aitaroun, nel Sud del Libano. L’esercito israeliano ha annunciato di aver distrutto un tunnel di Hamas nel quartiere Sabra, a Gaza City. Il tunnel, lungo 800 metri e scavato a una profondità di 18 metri, era situato vicino al corridoio Netzarim, che attraversa orizzontalmente la Striscia di Gaza, dove si trovavano truppe israeliane. Questa informazione è stata fornita dal portavoce militare. Sempre nella notte tra domenica e lunedì, gli uomini dell’unità 869 dell’Idf hanno identificato una cellula terroristica che operava in una struttura militare di Hezbollah nella Regione di Yaroun, nel Sud del Libano, che è stata distrutta dai caccia da combattimento israeliani. Inoltre, un aereo dell’Aeronautica militare ha attaccato una cellula terroristica dell’organizzazione, che è stata identificata dalla Brigata Sayeret Golani, operante nella Regione di Hula. Contemporaneamente, caccia da combattimento e aerei dell’Aeronautica militare hanno attaccato altri obiettivi di Hezbollah nel Sud del Libano e tra gli obiettivi attaccati, ci sono un deposito di armi e una struttura militare di Hezbollah nella zona di Mays al-Jabal, insieme a infrastrutture terroristiche nella zona di al-Khiam e altri edifici militari nella zona di Hula. Infine, le Forze di difesa israeliane hanno confermato «che c’è stata una sparatoria con l’esercito egiziano al valico di Rafah», che ha causato la morte di almeno un soldato egiziano. Secondo il Times of Israel, l’Idf ha spiegato che «c’è stata una sparatoria al confine egiziano, l’incidente è sotto indagine ed è in corso un dialogo con la parte egiziana». Fonti dell’Idf, citate da Ynet, hanno fatto anche sapere che «sono stati i soldati egiziani a iniziare a sparare contro una forza dell’Idf che passava attraverso l’area del valico di Rafah, provocando lo scontro a fuoco». 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Tutti gli Stati sono concordi che su Rafah Israele doveva fermarsi. Non siamo stati ascoltati e ora guardiamo con disperazione la situazione». Crosetto dice di avere l’impressione che Israele in questo modo «stia seminando un odio tra la popolazione palestinese che coinvolgerà figli e nipoti»: «Hamas è un conto, il popolo palestinese è un altro. Dovevano discernere tra le due cose e fare una scelta più coraggiosa dal punto di vista democratico». Le sue riflessioni, ha confermato poi il ministro, erano già state condivise con il suo omologo israeliano. Non si tratta di una condanna di Israele quindi, come sottolinea Crosetto, ma anzi del «primo dovere di qualsiasi collega di un Paese amico come sono io ed è l’Italia verso Israele». Una linea confermata anche dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani: «Bisogna scongiurare l’escalation. Basta guerra. Ora è il momento del dialogo». Poi ha aggiunto: «Siamo contro l’attacco a Rafah e siamo per un cessate il fuoco immediato e ovviamente siamo per la liberazione degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas, come siamo contro gli attacchi di missili di Hamas contro Israele». Una posizione quindi che non vuole tradursi in una rottura con Gerusalemme, ma in un chiarimento, per assumere un atteggiamento più dialogante tra le parti. Ed è in questo quadro che rientra anche la visita di sabato scorso del premier palestinese, Mohammed Mustafa, a Roma. Va evidenziato che nella sua trasferta estera, quello con Meloni è stato l’unico incontro con un leader europeo. Elemento che porrebbe l’Italia come possibile intermediario per una tregua tra i due Stati. Strategia chiarita dallo stesso premier in un’intervista su Radio 1, quando ha spiegato che «l’Italia ha già dimostrato di poter fare da capofila su molte politiche e fare da apripista su molti dossier». Meloni si riferiva all’Europa, certo, ma questo non esclude che la stessa strategia si possa applicare anche al di fuori dei confini europei. Soprattutto quando bisognerà pensare al dopo guerra a Gaza, l’Italia potrebbe essere presente sul territorio dopo essersi posta come attore super partes. La condanna dell’operazione a Rafah d’altronde è arrivata da più parti. Gli stessi Stati Uniti più volte hanno avvertito il governo Netanyahu di non andare avanti con il piano. Esiste anche una sentenza della corte internazionale di Giustizia che dice a Israele di fermare immediatamente l’offensiva. Proprio ieri il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha detto: «Esorto a rispettare il diritto internazionale umanitario. Ricordo al governo israeliano che l’accordo di associazione Ue-Israele deve continuare a basarsi sul rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale, in linea con i nostri valori». Mentre l’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, si è detto «inorridito per gli attacchi israeliani». E Madrid è arrivata a richiamare l’ambasciatrice spagnola in Israele, Ana María Salomon, dopo «l’atroce crimine di guerra» commessi con i raid a Rafah. Le frizioni esterne si ripercuotono inevitabilmente anche all’interno di Israele. Il premier, Benjamin Netanyahu, non gode di consenso e anzi, sono in molti a volerlo fuori dall’esecutivo. Ieri l’ennesimo attacco del leader di opposizione, Yair Lapid, che alla Knesset ha detto: «Perché sei ancora primo ministro? Perché non sali su questo podio, chiedi perdono al popolo d’Israele e non vai a casa? Non hai adempiuto al tuo ruolo, hai fallito e fallito. Un primo ministro illegittimo e questo governo», ha aggiunto, «è illegittimo».
Sara Kelany
Funzionano i centri?
«Stanno cambiando cose. In meglio. Oggi sono Cpr ordinari. Il nostro obiettivo era ed è quello di renderli centri per l’espletamento delle procedure accelerate di frontiera. Sentenze ideologizzate di alcuni giudici italiani hanno incagliato la dinamica. Col pretesto dei Paesi sicuri. Sottolineo che nessuna delle ordinanze emesse ha trattato la posizione dei singoli migranti rispetto al loro diritto di ottenere protezione. Stabilivano che non è lo Stato che può individuare i Paesi sicuri. Ma può esserlo un giudice. Ritenevano che Egitto e Bangladesh non fossero Paesi sicuri».
Lo sono?
«Premesso che sono anche egiziana, ora in Europa la situazione si è finalmente ribaltata. Optando per accelerare sul Patto per la migrazione e l’asilo. Nel Consiglio dei ministri dell’Interno si è approvato un regolamento. Si è fatta una lista dei Paesi sicuri e, guarda caso, sono ricompresi Egitto e Bangladesh. L’Ue dà ragione alle politiche migratorie del governo Meloni, quindi quando entrerà in vigore questo regolamento i centri potranno ritornare pienamente in attività».
Tempistiche?
«Verosimilmente tra gennaio e febbraio il Parlamento Ue dovrà esprimersi. I regolamenti sono direttamente applicabili dagli Stati membri, non abbiamo bisogno di fare direttive di recepimento».
La parola remigrazione rimane un tema. E il 2023 rimane «annus horribilis» in termini di sbarchi.
«Uso più volentieri il termine “rimpatrio”. Il problema dei rimpatri è diffuso in tutta Europa. Abbiamo aumentato e stiamo aumentando del 100% l’anno i rimpatri forzosi. E abbiamo un grandissimo numero di rimpatri volontari assistiti con l’ausilio di Unhcr. Stanno alleggerendo di molto la posizione italiana. Con riferimento al 2023, i dati erano connessi a motivi esogeni. Il conflitto russo-ucraino, disordini e colpi di Stato nel Sahel, tensioni in Libia e Tunisia. Nel 2024, a seguito anche delle politiche di questo governo, che si basano sui controlli delle frontiere, sulla lotta ai trafficanti e sulla esternalizzazione della gestione dei flussi migratori irregolari in partnership coi Paesi terzi, segnatamente Albania, abbiamo registrato un meno 57% di sbarchi sul territorio nazionale. Sulla base di questi dati l’Europa ha guardato con occhi completamente diversi all’Italia e infatti si sta spostando sulle nostre politiche. Governi anche di estrazione diametralmente opposta a quella italiana ci prendono ad esempio. Vedi la Danimarca. Non parliamo di Ue ma di Europa. La Gran Bretagna è laburista. Starmer è venuto in Italia a chiedere alla Meloni: “Come hai fatto?”».
Come spiegarsi il rapporto speciale che c’è fra Italia e Albania?
«Si fonda su due basi. L’autorevolezza del nostro presidente del Consiglio e la personale empatia tra i due presidenti. Il presidente Rama è un socialista ma indipendentemente dall’estrazione politica, quando un premier è autorevole agli occhi del mondo, non può cambiare un rapporto con lo Stato solo e unicamente perché si viaggia su linee politiche differenti».
Zelensky è andato a Londra e ha incontrato Macron, Starmer e Merz. Dopodiché è venuto a Roma. Quei tre non sono stati in grado di dargli delle garanzie e lui è venuto a chiederle a Giorgia Meloni?
«Per l’Ucraina l’Italia è un partner fondamentale nella risoluzione del conflitto. Siamo sempre stati al suo fianco. Siamo sempre stati convinti che difendere l’Ucraina fosse una questione anche di principio, per la difesa di principi democratici europei. Kyev è vittima di un’orrida guerra di aggressione da parte della Russia. L’Italia, oltre ad avere questo tipo di approccio nei confronti dell’Ucraina, è anche una delle nazioni con il miglior rapporto gli Stati Uniti. Non ci dobbiamo dimenticare che gli Usa sono fondamentali affinché si arrivi a una risoluzione. Ed è ineliminabile l'apporto di Donald Trump in questa faccenda, così come lo è stato e lo sarà nelle questioni mediorientali. Giorgia Meloni è il leader, tra questi che mi hai menzionato, più forte e più stabile in Europa. Macron, Starmer e Merz sono più deboli. La loro debolezza interna si riflette anche in politica estera».
Il documento pubblicato sul sito della Casa Bianca è motivo di imbarazzo o di orgoglio per voi?
«Non è né motivo di imbarazzo né motivo di orgoglio. È una fotografia. Naturalmente la grammatica politica degli Stati Uniti non è la nostra. Noi non possiamo guardare la politica statunitense con i nostri occhi. Non siamo abituati ai loro toni. Ciò non significa che noi non dobbiamo continuare a conservare un rapporto privilegiato. Saldamente ancorato all’Occidente. Perché io mi chiedo e chiedo alle sinistre italiane: l’alternativa qual è? La Cina? Noi non vogliamo avere come alternativa la Cina. Finché ci saremo noi al governo».
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Elly Schlein e Stefano Bonaccini (Ansa)
L’assemblea dem non incorona Schlein come candidata premier Gori si fa portavoce dei riformisti: «Il Green deal va ripensato».
Suggerimento, gratis, per i talk televisivi: si sottopongano Elly Schlein e i dirigenti del Pd, tipo l’economista Francesco Boccia, al test della michetta. Ieri la segretaria che sperava di cambiare lo statuto – tentativo fallito – per farsi incoronare candidata unica alla presidenza del Consiglio e che sta tentando di rinviare il congresso (cade a marzo 2027 e se per caso lo perdesse non riuscirebbe neppure ad avvicinarsi a Palazzo Chigi), se n’è uscita con una battuta alimentare: «Meloni festeggia l’Unesco, ma il frigo degli italiani è sempre più vuoto, la sua calcolatrice è rotta: vada nei supermercati e guardi quanto sono aumentati i prezzi». Chissà se Elly Schlein sa quanto costa il pane al chilo e un etto di mandorle. Lei è vegetariana e chiederle del prosciutto sarebbe indelicato.
L’assemblea del Pd, convocata ieri a Roma in concomitanza con Atreju per non lasciare troppo spazio a Giorgia Meloni, ha ricordato, se ancora ce ne fosse bisogno, che per i dem vale tutto. Ma soprattutto ha lasciato in sospeso le polemiche interne: congelate perché si doveva tentare di offuscare la comunicazione Fdi. La Schlein ha evitato qualsiasi voto e qualsiasi argomento divisivo. Ha fatto un po’ di propaganda e nulla più. Così vale che Stefano Bonaccini, dopo averne dette di ogni contro la segretaria annunci che la sua corrente Energia popolare rientra in maggioranza e porti solidarietà ai giornalisti del gruppo Gedi così come l’hanno data alle vittime ebree di Bondi Beach. A Repubblica e alla Stampa al massimo cambiano padrone, in Australia gli amici di Hamas, non così distanti dai pro Pal e da Francesca Albanese a cui i sindaci Pd consegnano le chiavi delle città, hanno ammazzato. Ma è brutto dirlo nel giorno in cui Elly Schlein s’ingegna a sfidare Giorgia Meloni su tutto. «Anche tanti di coloro che hanno votato per questa destra capiscono che non ha fatto nulla per la crescita; Arianna Meloni ci ha detto che loro priorità sono il premierato e la legge elettorale perché hanno paura di perdere». La Schlein si sente già al governo e annuncia: «Metteremo 3 miliardi in più sulla sanità, faremo il salario minimo a 9 euro, abbatteremo il prezzo dell’energia scollegandolo da quello del gas». Il fatto è che per battere «queste destre che delegittimano l’Onu, il diritto internazionale e facendo i vassalli non difendono l’interesse nazionale» ci vogliono i voti. Elly Schlein azzarda: «I voti assoluti della nostra coalizione e di quella del governo sono sostanzialmente pari ma siamo il primo partito con i voti reali, non nei sondaggi, nei voti veri». A essersi rotta deve essere la sua calcolatrice, non quella della Meloni.
Comunque la prospettiva – anche se Giuseppe Conte proprio da Atreju le ha fatto sapere che i 5 stelle non sono alleati col Pd – è «confrontiamoci anche aspramente, ma costruiamo l’alternativa: è tempo che l’Italia ricominci a sognare e a sperare». Così da gennaio lei parte per un tour programmatico. Doveva andare in giro a parlare del Pd, ma meglio dare addosso alla Meoni che fare i conti con i suoi. Che ieri hanno disertato la direzione nazionale che ha solo votato la relazione della segretaria (225 voti a favore e 36 astenuti) per evitare di palesare le fratture che invece ci sono. L’ala dura dei riformisti ha scelto di rinviare il confronto salvo Giorgio Gori, eurodeputato ex sindaco di Bergamo che all’assemblea ha scandito: «Il Pd ha perso la fiducia, sia della maggioranza degli operai, ma anche degli imprenditori. La sinistra è considerata lontana dal mondo dell’impresa. Serve il riformismo concreto e coraggioso di cui parla Prodi. Il Green deal fatica a tenere insieme obiettivi ambientali e tutele sociali, dobbiamo avere il coraggio di dirlo e promuovere un nuovo e diverso Green deal», ha concluso Gori, «proporre un patto fra istituzioni, imprese e lavoro. La destra porta il Paese al declino, il Pd può presentarsi e vincere le elezioni come partito della crescita e della redistribuzione». La Schlein per ora si occupa dei supermercati, la grande distribuzione.
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Meloni ha poi lanciato un altro attacco all’opposizione a proposito di Abu Mazen, presidente della Palestina: «La sua bella presenza qui ad Atreju fa giustizia delle accuse vergognose di complicità in genocidio che una sinistra imbarazzante ci ha rivolto per mesi». E ancora contro la sinistra: «La buona notizia è che ogni volta che loro parlano male di qualcosa va benissimo. Cioè parlano male di Atreju ed è l’edizione migliore di sempre, parlano male del governo, il governo sale nei sondaggi, hanno tentato di boicottare una casa editrice, è diventata famosissima. Cioè si portano da soli una sfiga che manco quando capita la carta della Pagoda al Mercante in fiera, visto che siamo in clima natalizio. E allora grazie a tutti quelli che hanno fatto le macumbe». L’altra stilettata ironica a proposito del premio dell’Unesco che riconosce la cucina italiana come bene immateriale dell’umanità: «A sinistra non è andato bene manco questo. Loro non sono riusciti a gioire per un riconoscimento che non è al governo ma alle nostre mamme e nonne, alle nostre filiere, alla nostra tradizione, alla nostra identità. Hanno rosicato così tanto che è una settimana che mangiano tutti dal kebabbaro. Veramente roba da matti». Ricordando l’unità della coalizione, Meloni ha sottolineato che questa destra «non è un incidente della storia» rivendicando le iniziative adottate in tre anni di esecutivo. Il premier ha poi toccato i temi di attualità e a proposito dell’equità fiscale rivendicata dall’opposizione ha scandito: «Non accettiamo lezioni da chi fa il comunista con il ceto medio e il turbo capitalista a favore dei potenti. Oggi il Pd si indigna perché gli Elkann vogliono vendere il gruppo Gedi e non ci sarebbero garanzie per i lavoratori però quando chiudevano gli stabilimenti di Stellantis ed erano gli operai a perdere il posto di lavoro, tutti muti. Anche Landini sul tema fischiettava». Non sono mancati i riferimenti ai temi caldi del centrodestra: immigrazione, riforma della giustizia, guerra in Ucraina ed Ue con il disimpegno di Trump e il Green Deal.
Sul palco anche i due vicepremier. «La mia non vuole essere solo una presenza formale, ma una presenza per riconfermare un impegno che tutti noi abbiamo preso nel 1994» ha detto il leader di Fi Antonio Tajani. «Ma gli accordi di alleanze fatte soprattutto di lealtà e impegno, devono essere rinnovati ogni giorno. La ragione di esistere di questa coalizione è fare l’interesse di ciascuno dei 60 milioni di cittadini italiani. E lo possiamo fare garantendo, grazie all’unità di questa coalizione, stabilità politica a questo Paese». Per il leader leghista Matteo Salvini “c’è innanzitutto l’orgoglio di esserci dopo tanti anni. Ci provano in tutti i modi a far litigare me e Giorgia. Ma amici giornalisti, mettetevi l’anima in pace: non ci riuscirete mai». Poi il ministro dei Trasporti ha assicurato che farà «di tutto» per avviare i lavori per il Ponte sullo Stretto, ha rilanciato sull’innalzamento del tetto del contante e sull’impegno anti maranza e infine ricordato come il governo stia facendo un buon lavoro nella tassazione delle banche.
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