
Atti trasmessi alla Procura di Catania: il premier, Danilo Toninelli e Luigi Di Maio potrebbero essere iscritti nel registro degli indagati insieme con Matteo Salvini. Questa mossa può spingere i 5 stelle verso il no all'autorizzazione a procedere contro il leader della Lega.Uno, due-tre-quattro, e mezzo governo può finire sotto accusa. C'è qualcosa di incredibile e anche paradossale nell'ennesima collisione tra magistratura e politica sul caso Diciotti, un esito del tutto imprevedibile: per il M5s sarebbe una catastrofe inquisitiva (con tre ministri potenzialmente coinvolti nelle indagini), che però - allo stesso tempo - sta anche diventando una manna, il cilindro del cappello che ti toglie da un guaio politico grosso.Proviamo a spiegare perché, partendo dalla notizia, battuta ieri dall'Adnkronos che ha rivelato come la Procura di Catania stia valutando l'iscrizione nel registro degli indagati del premier Giuseppe Conte e dei ministri Danilo Toninelli e Luigi Di Maio nell'ambito dell'inchiesta sul «caso Diciotti». C'è di più: il tema è che l'iscrizione a registro dei tre esponenti del governo gialloblù potrebbe diventare automatica - recitano le fonti giudiziarie - dopo le memorie difensive di Matteo Salvini e dei suoi colleghi. Una chiamata di correo: il ministro dell'Interno, per discolparsi, spiegava infatti che nell'estate scorsa anche i suoi tre colleghi pentastellati (le cui parole sono riportate nella memoria difensiva) in quei giorni di polemiche al vetriolo sostenevano la sua scelta di bloccare l'equipaggio e i migranti a bordo della nave. Non era stato interesse personale, quello del leader leghista dunque, secondo Salvini, non era stato un gesto di arbitrio, ma il prodotto inevitabile di una legittima, ragionata e condivisa linea di governo. Questo comporta il fatto che anche questo fascicolo, se fosse aperto con l'iscrizione dei due ministri del premier, sarebbe inviato al tribunale dei Ministri. Seguirebbe lo stesso iter dell'altro, e anche per Conte, Toninelli e Di Maio si dovrebbe quindi valutare se archiviare o procedere. Anche per loro - ovviamente solo nel secondo caso - con un voto in Parlamento. Il primo problema che questo scenario pone è la stessa agibilità del governo: perché un'eventuale condanna di Salvini, a questo punto, si trascinerebbe dietro, in automatico (e soltanto differito nella scansione temporale) anche un procedimento parallelo, sia sul premier sia suoi due ministri. Il che significa - portando alle estreme conseguenze questo complesso ma inesorabile congegno giudiziario, che tre ministri (di cui due vicepremier!) e un premier potrebbero essere costretti alla decadenza in caso di condanna. E questo è l'innegabile problema di agibilità che si pone sul piano giudiziario. Una condanna equivarrebbe a una caduta, che non potrebbe produrre altro scenario che il voto. Ma proprio questo scenario così drammatico, allo stesso tempo sul piano politico cambia totalmente la prospettiva politica del dibattito nei 5 stelle. A Di Maio e compagni - probabilmente seguendo una loro logica - i magistrati stanno facendo un incredibile regalo politico. Infatti l'ipotesi del voto favorevole a Salvini cambia totalmente di segno dopo questa iscrizione. Fino a ieri - infatti - un pronunciamento a favore del leader leghista era destinato a diventare un atto di solidarietà politica con cui il Movimento 5 stelle salvava un alleato dal giudizio (e per giunta sottraendolo al normale iter per mezzo di un voto politico). Questo sarebbe stato un voto che diventava inevitabile, per le logiche di solidarietà della maggioranza, ma che sarebbe diventato assai indigesto per la base grillina, da sempre ostile a tutti gli atti di garanzia parlamentare: si tratta di un pezzo di opinione pubblica da sempre favorevole alle autorizzazioni a procedere e contrario a chi le negava, figuriamoci quanto ostile a quelle imposte dalle logiche della realpolitik autoconservativa. Ecco invece che la possibile iscrizione nel registro degli indagati di mezzo governo muta totalmente il segno di questo voto, che adesso diventa un atto di tutela dovuto per i quattro esponenti su cui si è abbattuta un'offensiva giudiziaria. Quando la questione viene posta in questi termini non è più il nuovo (il M5s) che salva il vecchio (la Lega) per un vincolo di solidarietà politica, ma «il nuovo» (in questo caso Salvini e Di Maio) che si difende da un'offensiva giudiziaria che oggettivamente gli impedirebbe di proseguire nella sua attività. Forse i magistrati non avevano messo in conto questo esito, forse non lo hanno nemmeno immaginato, seguendo una logica prettamente giudiziaria. Ma l'effetto che producono è questo: cambiano il colore del racconto, legittimano un riflesso difensivo che non è più una levata di scudi «ad personam», ma una forma di autotutela collettiva che appare inevitabile, anche agli elettori più intransigenti. Infine ecco l'ultimo paradosso con cui l'approccio «giudiziarista» perde il contatto con la realtà. Chi ha seguito la cronaca di quelle ore ricorda benissimo il conflitto nel governo, e addirittura l'intervento di moral suasion del Quirinale, che aveva fatto pressioni informali su Conte per favorire lo sbarco e la risoluzione della crisi. Era evidente che se la cronaca era questa si poteva provare a sostenere giuridicamente un atto di accusa contro Salvini. Ma - e questo è il punto più importante - sembra che i magistrati non si rendano conto che imputando sia il premier sia i due vicepremier finirebbero per smontare la loro stessa teoria accusatoria. Se Conte e Salvini non erano duellanti ma complici, il blocco della Diciotti era un atto politico del governo. Un curioso epilogo per una Procura che voleva isolare Salvini, e che con i suoi atti ha finito per inverare la tesi di fondo della sua memoria difensiva.
Mattia Furlani (Ansa)
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