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2022-06-26
Proteste nelle grandi città. I pro aborto vanno a caccia delle abitazioni delle toghe
Ansa
La tensione è salita alle stelle negli Stati Uniti dopo il pronunciamento della Corte suprema. A lanciare l’allarme in materia di ordine pubblico è stato il Dipartimento per la sicurezza interna che, in un memorandum ottenuto da alcune testate americane, ha reso noto che sarebbe «probabile» l’esplosione di violenza estremista. In particolare, sono definiti a rischio soprattutto i giudici della stessa Corte suprema, mentre altri probabili bersagli sono le strutture sanitarie pro life e le organizzazioni religiose.
Proteste sono, nel frattempo, esplose in varie città statunitensi: da Atlanta a Seattle, passando per New York, Detroit e Los Angeles. Venerdì sera, a Phoenix la polizia ha dovuto usare i lacrimogeni per disperdere una folla di facinorosi, che aveva ripetutamente colpito le porte dell’edificio che ospita il senato dell’Arizona. Dall’altra parte, un suv ha ferito un pedone a Cedar Rapids (in Iowa) durante una manifestazione. Ma la situazione resta maggiormente preoccupante a Washington. Ieri, tra la tarda mattinata e il primo pomeriggio, centinaia di manifestanti si sono radunati davanti alla Corte suprema. L’entità delle proteste dovrebbe accrescersi nel corso del fine settimana. Tra l’altro, Newsweek riferiva che venerdì vari attivisti pro aborto hanno ripreso a pubblicare sui social network gli indirizzi delle abitazioni private dei supremi togati. Ricordiamo che, nelle scorse settimane, si erano già tenute delle proteste davanti a queste case e che, di recente, uno squilibrato aveva cercato di uccidere il giudice, Brett Kavanaugh.
Ad alimentare il fuoco della tensione ci sta pensando il Partito democratico americano. L’altro ieri, dopo le dure parole di Nancy Pelosi che aveva bollato la Corte suprema come «radicale», un gruppo di deputati dem ha chiesto a Joe Biden di decretare un’emergenza sanitaria nazionale. La deputata Val Demings, attualmente candidata alla poltrona senatoriale della Florida, ha detto di essere «pronta a combattere» per la libertà riproduttiva. «Non avete ancora visto niente. Le donne controlleranno i loro corpi, non importa come cercheranno di fermarci. Al diavolo la Corte suprema. Ci opporremo», ha tuonato un’altra deputata dem, Maxine Waters. Tutto questo, mentre la sua collega Alexandria Ocasio Cortez ha definito la sentenza «illegittima», esortando inoltre le persone a «scendere in strada» e aggiungendo: «In questo momento le elezioni non bastano». Insomma, le parole di molti esponenti dem si stanno rivelando particolarmente violente e prive di senso delle istituzioni. Il grande rischio è che quindi contribuiscano a gettare benzina sul fuoco. «Penso che la Corte suprema abbia preso alcune decisioni terribili», ha dichiarato dal canto suo ieri Biden, che già venerdì aveva criticato la sentenza.
L’amministrazione americana ha comunque reso noto, sempre ieri, di non essere d’accordo con le richieste di riforma avanzate da quanti vorrebbero (soprattutto a sinistra) un aumento del numero dei supremi giudici, per annacquare il peso dei togati di nomina repubblicana. «Questo è qualcosa su cui il presidente non è d’accordo. Non è qualcosa che vuole fare», ha dichiarato la portavoce della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre. Si tratta di una notizia non di poco conto. Va riconosciuto che Biden non è mai stato un fautore di un allargamento della Corte. Eppure, spinto da alcuni settori del suo partito, aveva avviato una commissione che studiasse una simile eventualità. Ora, il presidente sembra aver chiuso definitivamente a tale ipotesi: il che, va detto, evita il rischio di una politicizzazione del massimo organo giudiziario statunitense.
Ricordiamo sempre che la Corte suprema non ha reso l’aborto illegale. Ha semmai riassegnato ai parlamenti dei singoli Stati l’autorità di decidere su questa materia. In tale quadro, almeno 13 Stati sono pronti ad emanare divieti per quanto riguarda l’interruzione di gravidanza: si tratterebbe in particolare di Arkansas, Idaho, Kentucky, Louisiana, Mississippi, Missouri, North Dakota, Oklahoma, South Dakota, Tennessee, Texas, Utah e Wyoming. Di contro, sono 14 gli Stati che hanno codificato l’aborto a livello legislativo: parliamo di Washington, Oregon, California, Nevada, Colorado, New Mexico, Illinois, New York, New Jersey, Delaware, Maryland, Massachusetts, Maine e Vermont.
Va da sé che la questione è destinata a rivelarsi dirimente in vista delle prossime elezioni di metà mandato. Resta, tuttavia, il fatto che gli attacchi violenti e il discredito gettati da molti dem sulla Corte suprema rischiano di produrre delle conseguenze istituzionali devastanti negli Stati Uniti. Segno di come una certa sinistra non sia capace di distinguere il dissenso dalla delegittimazione. E questo è un problema enorme.
Il nuovo fronte legale è sulla pillola
Dopo la sentenza della Corte suprema che ha ribaltato il giudizio del 1973, in America si preannuncia già una nuova battaglia legale sullo stesso tema. E lo scontro, che riguarda l’accesso all’aborto farmacologico, potrebbe alla fine erodere il potere del governo federale di decidere quali farmaci sono sicuri ed efficaci, oltre a trasformarsi in un altro fronte politico per l’amministrazione Biden, a ridosso delle elezioni di midterm che si terranno a novembre.
Ieri il presidente Usa, commentando la sentenza della Corte, ha dichiarato che cercherà di impedire ai singoli Stati di vietare la vendita delle pillole abortive, che a seguito della sentenza, è schizzata. Solo le richieste ad Aid Access sono passate da un giorno all’altro da 1.200 a 38.000. L’aborto medico (medication abortion) negli Usa è noto come «piano C» (il «piano B» è la pillola del giorno dopo) e costa tra i 300 dollari fino a un massimo di 750. In America costituisce il 54% degli aborti su un volume di affari totale dell’«industria dell’aborto» pari a circa 831 milioni di dollari l’anno, e rappresenta la strada più comune per interrompere una gravidanza (dal 1973 a oggi negli Usa ci sono stati più di 50 milioni di aborti). È stato approvato nel 2000 dalla Food and drug administration (Fda), è consentito fino alla decima settimana di gravidanza (poco più del terzo mese) e comporta l’assunzione di due farmaci a 24-48 ore di distanza. Il primo, chiamato RU 486 o mifepristone, è un ormone che blocca il progesterone e impedisce alla gravidanza di andare avanti. In America è commercializzato con il nome di Mifeprex ed è prodotto dalla Danco Laboratories, società privata che ha sede a New York, nel cuore di Manhattan, che non ha mai voluto rivelare i nomi dei suoi investitori. Il secondo farmaco previsto per realizzare l’aborto medico è il misoprostolo, medicinale che provoca contrazioni e sanguinamento che svuotano l’utero.
Secondo gli analisti giuridici che hanno commentato le dichiarazioni di Joe Biden, l’amministrazione potrebbe appellarsi alla cosiddetta «clausola di supremazia» della Costituzione degli Stati Uniti, sostenendo in tribunale che l’approvazione del mifepristone da parte della Food and drug administration, che è un’Agenzia federale (dunque nazionale), è gerarchicamente superiore a qualsiasi eventuale restrizione da parte dei singoli Stati, perché l’autorità federale è giuridicamente prevalente rispetto a qualsiasi legge statale.
Se prevarranno i sostenitori pro-choice, l’accesso all’aborto farmacologico potrebbe essere protetto in tutti i 50 Stati americani. Ma attualmente non è così: già 19 Stati hanno posto restrizioni sull’aborto farmacologico, richiedendo la presenza fisica di un medico quando il farmaco viene somministrato. Non solo: diversi Stati hanno anche espressamente vietato l’invio per posta delle pillole, che era stato preventivamente (e propedeuticamente) autorizzato da Fda pochi mesi fa, nel dicembre del 2021. La decisione della Fda aveva facilitato l’accesso all’aborto medico alle donne che avevano difficoltà a procurarsi il Mifeprex di persona e preferivano interrompere la gravidanza a casa. La decisione di Fda aveva quindi consentito alle pazienti di ottenere la prescrizione della pillola attraverso una visita online (telemedicine visits), ricevendo in seguito il farmaco per posta, in genere entro due settimane.
Le prossime battaglie sul mifepristone stanno entrando in un territorio legale in gran parte inesplorato. Gli Stati americani, infatti, non possono autorizzare farmaci che la Fda non abbia approvato, ma è meno chiaro se possano regolamentare i farmaci in maniera più restrittiva di quanto faccia la Fda. Si tratta, dunque, di una controversia molto scivolosa, che non riguarda «soltanto», si fa per dire, i diritti delle donne, ma anche i poteri dell’amministrazione federale rispetto ai singoli Stati americani e perfino l’autorevolezza delle decisioni di Fda, messa potenzialmente in discussione da 50 diversi standard (uno per ogni Stato) per qualsiasi farmaco. Politica, salute e diritti civili: ci sono tutti gli ingredienti per consegnare l’America a un futuro estremamente conflittuale.
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Riduci
Gli indirizzi sono stati resi pubblici dagli attivisti. Washington è in massima allerta. A Phoenix la polizia ha disperso violenti che avevano assaltato il Senato dell’Arizona.Il nuovo fronte legale è sulla pillola. Joe Biden vuole impedire ai singoli Stati di vietare la vendita dei farmaci che interrompono una gravidanza. E può riuscirci perché approvati dalla Food and drug administration.Lo speciale comprende due articoli. La tensione è salita alle stelle negli Stati Uniti dopo il pronunciamento della Corte suprema. A lanciare l’allarme in materia di ordine pubblico è stato il Dipartimento per la sicurezza interna che, in un memorandum ottenuto da alcune testate americane, ha reso noto che sarebbe «probabile» l’esplosione di violenza estremista. In particolare, sono definiti a rischio soprattutto i giudici della stessa Corte suprema, mentre altri probabili bersagli sono le strutture sanitarie pro life e le organizzazioni religiose. Proteste sono, nel frattempo, esplose in varie città statunitensi: da Atlanta a Seattle, passando per New York, Detroit e Los Angeles. Venerdì sera, a Phoenix la polizia ha dovuto usare i lacrimogeni per disperdere una folla di facinorosi, che aveva ripetutamente colpito le porte dell’edificio che ospita il senato dell’Arizona. Dall’altra parte, un suv ha ferito un pedone a Cedar Rapids (in Iowa) durante una manifestazione. Ma la situazione resta maggiormente preoccupante a Washington. Ieri, tra la tarda mattinata e il primo pomeriggio, centinaia di manifestanti si sono radunati davanti alla Corte suprema. L’entità delle proteste dovrebbe accrescersi nel corso del fine settimana. Tra l’altro, Newsweek riferiva che venerdì vari attivisti pro aborto hanno ripreso a pubblicare sui social network gli indirizzi delle abitazioni private dei supremi togati. Ricordiamo che, nelle scorse settimane, si erano già tenute delle proteste davanti a queste case e che, di recente, uno squilibrato aveva cercato di uccidere il giudice, Brett Kavanaugh.Ad alimentare il fuoco della tensione ci sta pensando il Partito democratico americano. L’altro ieri, dopo le dure parole di Nancy Pelosi che aveva bollato la Corte suprema come «radicale», un gruppo di deputati dem ha chiesto a Joe Biden di decretare un’emergenza sanitaria nazionale. La deputata Val Demings, attualmente candidata alla poltrona senatoriale della Florida, ha detto di essere «pronta a combattere» per la libertà riproduttiva. «Non avete ancora visto niente. Le donne controlleranno i loro corpi, non importa come cercheranno di fermarci. Al diavolo la Corte suprema. Ci opporremo», ha tuonato un’altra deputata dem, Maxine Waters. Tutto questo, mentre la sua collega Alexandria Ocasio Cortez ha definito la sentenza «illegittima», esortando inoltre le persone a «scendere in strada» e aggiungendo: «In questo momento le elezioni non bastano». Insomma, le parole di molti esponenti dem si stanno rivelando particolarmente violente e prive di senso delle istituzioni. Il grande rischio è che quindi contribuiscano a gettare benzina sul fuoco. «Penso che la Corte suprema abbia preso alcune decisioni terribili», ha dichiarato dal canto suo ieri Biden, che già venerdì aveva criticato la sentenza. L’amministrazione americana ha comunque reso noto, sempre ieri, di non essere d’accordo con le richieste di riforma avanzate da quanti vorrebbero (soprattutto a sinistra) un aumento del numero dei supremi giudici, per annacquare il peso dei togati di nomina repubblicana. «Questo è qualcosa su cui il presidente non è d’accordo. Non è qualcosa che vuole fare», ha dichiarato la portavoce della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre. Si tratta di una notizia non di poco conto. Va riconosciuto che Biden non è mai stato un fautore di un allargamento della Corte. Eppure, spinto da alcuni settori del suo partito, aveva avviato una commissione che studiasse una simile eventualità. Ora, il presidente sembra aver chiuso definitivamente a tale ipotesi: il che, va detto, evita il rischio di una politicizzazione del massimo organo giudiziario statunitense. Ricordiamo sempre che la Corte suprema non ha reso l’aborto illegale. Ha semmai riassegnato ai parlamenti dei singoli Stati l’autorità di decidere su questa materia. In tale quadro, almeno 13 Stati sono pronti ad emanare divieti per quanto riguarda l’interruzione di gravidanza: si tratterebbe in particolare di Arkansas, Idaho, Kentucky, Louisiana, Mississippi, Missouri, North Dakota, Oklahoma, South Dakota, Tennessee, Texas, Utah e Wyoming. Di contro, sono 14 gli Stati che hanno codificato l’aborto a livello legislativo: parliamo di Washington, Oregon, California, Nevada, Colorado, New Mexico, Illinois, New York, New Jersey, Delaware, Maryland, Massachusetts, Maine e Vermont. Va da sé che la questione è destinata a rivelarsi dirimente in vista delle prossime elezioni di metà mandato. Resta, tuttavia, il fatto che gli attacchi violenti e il discredito gettati da molti dem sulla Corte suprema rischiano di produrre delle conseguenze istituzionali devastanti negli Stati Uniti. Segno di come una certa sinistra non sia capace di distinguere il dissenso dalla delegittimazione. 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Ieri il presidente Usa, commentando la sentenza della Corte, ha dichiarato che cercherà di impedire ai singoli Stati di vietare la vendita delle pillole abortive, che a seguito della sentenza, è schizzata. Solo le richieste ad Aid Access sono passate da un giorno all’altro da 1.200 a 38.000. L’aborto medico (medication abortion) negli Usa è noto come «piano C» (il «piano B» è la pillola del giorno dopo) e costa tra i 300 dollari fino a un massimo di 750. In America costituisce il 54% degli aborti su un volume di affari totale dell’«industria dell’aborto» pari a circa 831 milioni di dollari l’anno, e rappresenta la strada più comune per interrompere una gravidanza (dal 1973 a oggi negli Usa ci sono stati più di 50 milioni di aborti). È stato approvato nel 2000 dalla Food and drug administration (Fda), è consentito fino alla decima settimana di gravidanza (poco più del terzo mese) e comporta l’assunzione di due farmaci a 24-48 ore di distanza. Il primo, chiamato RU 486 o mifepristone, è un ormone che blocca il progesterone e impedisce alla gravidanza di andare avanti. In America è commercializzato con il nome di Mifeprex ed è prodotto dalla Danco Laboratories, società privata che ha sede a New York, nel cuore di Manhattan, che non ha mai voluto rivelare i nomi dei suoi investitori. Il secondo farmaco previsto per realizzare l’aborto medico è il misoprostolo, medicinale che provoca contrazioni e sanguinamento che svuotano l’utero. Secondo gli analisti giuridici che hanno commentato le dichiarazioni di Joe Biden, l’amministrazione potrebbe appellarsi alla cosiddetta «clausola di supremazia» della Costituzione degli Stati Uniti, sostenendo in tribunale che l’approvazione del mifepristone da parte della Food and drug administration, che è un’Agenzia federale (dunque nazionale), è gerarchicamente superiore a qualsiasi eventuale restrizione da parte dei singoli Stati, perché l’autorità federale è giuridicamente prevalente rispetto a qualsiasi legge statale. Se prevarranno i sostenitori pro-choice, l’accesso all’aborto farmacologico potrebbe essere protetto in tutti i 50 Stati americani. Ma attualmente non è così: già 19 Stati hanno posto restrizioni sull’aborto farmacologico, richiedendo la presenza fisica di un medico quando il farmaco viene somministrato. Non solo: diversi Stati hanno anche espressamente vietato l’invio per posta delle pillole, che era stato preventivamente (e propedeuticamente) autorizzato da Fda pochi mesi fa, nel dicembre del 2021. La decisione della Fda aveva facilitato l’accesso all’aborto medico alle donne che avevano difficoltà a procurarsi il Mifeprex di persona e preferivano interrompere la gravidanza a casa. La decisione di Fda aveva quindi consentito alle pazienti di ottenere la prescrizione della pillola attraverso una visita online (telemedicine visits), ricevendo in seguito il farmaco per posta, in genere entro due settimane. Le prossime battaglie sul mifepristone stanno entrando in un territorio legale in gran parte inesplorato. Gli Stati americani, infatti, non possono autorizzare farmaci che la Fda non abbia approvato, ma è meno chiaro se possano regolamentare i farmaci in maniera più restrittiva di quanto faccia la Fda. Si tratta, dunque, di una controversia molto scivolosa, che non riguarda «soltanto», si fa per dire, i diritti delle donne, ma anche i poteri dell’amministrazione federale rispetto ai singoli Stati americani e perfino l’autorevolezza delle decisioni di Fda, messa potenzialmente in discussione da 50 diversi standard (uno per ogni Stato) per qualsiasi farmaco. Politica, salute e diritti civili: ci sono tutti gli ingredienti per consegnare l’America a un futuro estremamente conflittuale.
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Attualmente gli Stati Uniti mantengono 84.000 militari in Europa, dislocati in circa cinquanta basi. I principali snodi si trovano in Germania, Italia e Regno Unito, mentre la Francia non ospita alcuna base americana permanente. Il quartier generale del comando statunitense in Europa è situato a Stoccarda, da dove viene coordinata una forza che, secondo un rapporto del Congresso, risulta «strettamente integrata nelle attività e negli obiettivi della Nato».
Sul piano strategico-nucleare, sei basi Nato, distribuite in cinque Paesi membri – Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia – custodiscono circa 100 ordigni nucleari statunitensi. Si tratta delle bombe tattiche B61, concepite esclusivamente per l’impiego da parte di bombardieri o caccia americani o alleati certificati. Dalla sua istituzione nel 1949, con il Trattato di Washington, la Nato è stata il perno della sicurezza americana in Europa, come ricorda il Center for Strategic and International Studies. L’articolo 5 garantisce che un attacco contro uno solo dei membri venga considerato un’aggressione contro tutti, estendendo di fatto l’ombrello militare statunitense all’intero continente.
Questo impianto, rimasto sostanzialmente invariato dalla fine della Seconda guerra mondiale, oggi appare messo in discussione. Il discorso del vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, i segnali di dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin sull’Ucraina e la diffusione di una dottrina strategica definita «aggressiva» da più capitali europee hanno alimentato il timore di un possibile ridimensionamento dell’impegno americano.
Sul fronte finanziario, Washington ha alzato ulteriormente l’asticella chiedendo agli alleati di destinare il 5% del Pil alla difesa. Un obiettivo giudicato irrealistico nel breve termine dalla maggior parte degli Stati membri. Nel 2014, solo tre Paesi – Stati Uniti, Regno Unito e Grecia – avevano raggiunto la soglia minima del 2%. Oggi 23 Paesi Nato superano quel livello, e 16 di essi lo hanno fatto soltanto dopo il 2022, sotto la spinta del conflitto ucraino. La guerra in Ucraina resta infatti il contesto determinante. La Russia controlla quasi il 20% del territorio ucraino. Già dopo l’annessione della Crimea nel 2014, la Nato aveva rafforzato il fianco orientale schierando quattro gruppi di battaglia nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e in Polonia. Dopo il 24 febbraio 2022, altri quattro battlegroup sono stati dispiegati in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia.
Queste forze contano complessivamente circa 10.000 soldati, tra cui 770 militari francesi – 550 in Romania e 220 in Estonia – e si aggiungono al vasto sistema di basi navali, aeree e terrestri già presenti sul continente. Nonostante questi numeri, la capacità reale dell’Europa rimane limitata. Come osserva Camille Grand, ex vicesegretario generale della Nato, molti eserciti europei, protetti per decenni dall’ombrello americano e frenati da bilanci contenuti, si sono trasformati in «eserciti bonsai»: strutture ridotte, con capacità parziali ma prive di profondità operativa. I dati confermano il quadro: 12 Paesi europei non dispongono di carri armati, mentre 14 Stati non possiedono aerei da combattimento. In molti casi, i mezzi disponibili non sono sufficientemente moderni o pronti all’impiego.
La dipendenza diventa totale nelle capacità strategiche. Intelligence, sorveglianza e ricognizione, così come droni, satelliti, aerei da rifornimento e da trasporto, restano largamente insufficienti senza il supporto statunitense. L’operazione francese in Mali nel 2013 richiese l’intervento di aerei americani per il rifornimento in volo, mentre durante la guerra in Libia nel 2011 le scorte di bombe a guida laser si esaurirono rapidamente. Secondo le stime del Bruegel Institute, riprese da Le Figaro, per garantire una sicurezza credibile senza l’appoggio degli Stati Uniti l’Europa dovrebbe investire almeno 250 miliardi di euro all’anno. Una cifra che fotografa con precisione il divario accumulato e pone una domanda politica inevitabile: il Vecchio Continente è disposto a sostenere un simile sforzo, o continuerà ad affidare la propria difesa a un alleato sempre meno disposto a farsene carico?
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Riduci
(Totaleu)
Lo ha detto il Ministro per gli Affari europei in un’intervista margine degli Ecr Study Days a Roma.
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Ed è quel che ha pensato il gran capo della Fifa, l’imbarazzante Infantino, dopo aver intestato a Trump un neonato riconoscimento Fifa. Solo che stavolta lo show diventa un caso diplomatico e rischia di diventare imbarazzante e difficile da gestire perché, come dicevamo, la partita celebrativa dell’orgoglio Lgbtq+ sarà Egitto contro Iran, due Paesi dove gay, lesbiche e trans finiscono in carcere o addirittura condannate a morte.
Ora, delle due l’una: o censuri chi non si adegua a certe regole oppure imporre le proprie regole diventa ingerenza negli affari altrui. E non si può. Com’è noto il match del 26 giugno a Seattle, una delle città in cui la cultura Lgbtq+ è più radicata, era stata scelto da tempo come pride match, visto che si giocherà di venerdì, alle porte del nel weekend dell’orgoglio gay. Diciamo che la sorte ha deciso di farsi beffa di Infantino e del politically correct. Infatti le due nazioni hanno immediatamente protestato: che c’entriamo noi con queste convenzioni occidentali? Del resto la protesta ha un senso: se nessuno boicotta gli Stati dove l’omosessualità è reato, perché poi dovrebbero partecipare ad un rito occidentale? Per loro la scelta è «inappropriata e politicamente connotata». Così Iran ed Egitto hanno presentato un’obiezione formale, tant’è che Mehdi Taj, presidente della Federcalcio iraniana, ha spiegato la posizione del governo iraniano e della sua federazione: «Sia noi che l’Egitto abbiamo protestato. È stata una decisione irragionevole che sembrava favorire un gruppo particolare. Affronteremo sicuramente la questione». Se le Federcalcio di Iran ed Egitto non hanno intenzione di cedere a una pressione internazionale che ingerisce negli affari interni, nemmeno la Fifa ha intenzione di fare marcia indietro. Secondo Eric Wahl, membro del Pride match advisory committee, «La partita Egitto-Iran a Seattle in giugno capita proprio come pride match, e credo che sia un bene, in realtà. Persone Lgbtq+ esistono ovunque. Qui a Seattle tutti sono liberi di essere se stessi». Certo, lì a Seattle sarà così ma il rischio che la Fifa non considera è quello di esporre gli atleti egiziani e soprattutto iraniani a ritorsioni interne. Andremo al Var? Meglio di no, perché altrimenti dovremmo rivedere certi errori macroscopici su altri diritti dei quali nessun pride si era occupato organizzando partite ad hoc. Per esempio sui diritti dei lavoratori; eppure non pochi operai nei cantieri degli stadi ci hanno lasciato le penne. Ma evidentemente la fretta di rispettare i tempi di consegna fa chiudere entrambi gli occhi. Oppure degli operai non importa nulla. E qui tutto il mondo è Paese.
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