
I soliti esperti sui giornali di sinistra le difendono parlando di «legge del mare» e convenzioni. Ma hanno torto.Da quando, con il nuovo governo, si è tentato di porre un freno all’attività delle Ong che, per il solo fatto di aver soccorso dei «migranti» in zone marittime non comprese nella giurisdizione italiana, pretendono poi di avere il diritto di condurli e farli sbarcare in Italia, si susseguono, sulle colonne dei maggiori giornali italiani, gli interventi dei più prestigiosi giuristi (da ultimo, Vladimiro Zagrebelski e Giovanni Maria Flick, rispettivamente su La Stampa e su La Repubblica dell’8 novembre).I quali ripetono sempre, ossessivamente, presentandolo come indiscussa verità di fede, lo stesso identico concetto: quello, cioè, che, in base alla cosiddetta «legge del mare», come pure alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e alle direttive europee in materia di asilo politico e protezione internazionale, la pretesa delle Ong sarebbe da ritenere pienamente fondata e sarebbe quindi illegittimo ogni provvedimento e ogni comportamento con il quale la si volesse contrastare. Peccato, però, che a un’analisi appena appena più approfondita (che i suddetti luminari del diritto, tuttavia, si guardano bene dall’operare), le basi giuridiche del concetto in questione si rivelino tutt’altro che solide, per non dire del tutto inesistenti.Cominciando dalla «legge del mare», va chiarito, ancora una volta (è stato già fatto in precedenza su questo giornale, senza incontrare obiezione alcuna), che essa, costituita fondamentalmente dalla Convenzione di Amburgo del 1979, come integrata dalle linee guida elaborate nel 2004 dall’Imo (International maritime organization), non riguarda affatto i «migranti» in quanto tali ma, per quanto qui interessa, si occupa soltanto del soccorso in mare di tutti coloro i quali (definibili, per brevità, come «naufraghi») si trovino, per qualsiasi ragione, in situazione di pericolo. Secondo quanto previsto da detta Convenzione, il comandante della nave che effettua il soccorso ha l’obbligo di condurre poi i naufraghi in un «porto sicuro» (più esattamente un «place of safety») che deve essergli indicato dalle competenti autorità dello Stato responsabile della zona Sar («Search and rescue») in cui il salvataggio è avvenuto. Ove il comandante non riceva tale indicazione o a essa, per qualsiasi ragione, non voglia attenersi, la Convenzione non gli riconosce, però, il diritto di scegliere a sua discrezione un altro Stato al quale rivolgersi per ottenere a forza l’assegnazione di un diverso «porto sicuro». Ne deriva che egli può soltanto, in dette ipotesi, rivolgersi alle autorità del proprio Stato di bandiera, rappresentando la situazione e chiedendo le opportune istruzioni.Del tutto priva di fondamento, sotto il profilo giuridico, risulta pertanto la ricorrente affermazione secondo cui, quando il soccorso sia stato effettuato (come avviene nella maggior parte dei casi) nella zona Sar assegnata alla Libia, il comandante della nave soccorritrice possa pretendere dalle autorità di altri Stati, in particolare da quelle dello Stato italiano, l’assegnazione di un «porto sicuro» diverso da quelli eventualmente indicati dalle autorità libiche e ritenuti, a torto o a ragione, «non sicuri». A fronte di una tale pretesa, quindi, sarebbe del tutto legittimo opporre un rifiuto senza altra motivazione se non quella che lo sbarco dei naufraghi in un porto italiano, previa prestazione di garanzie circa la loro futura destinazione, potrebbe essere consentito a discrezione delle nostre autorità soltanto se la relativa richiesta provenisse dalle autorità dello Stato di bandiera, a tal fine interessate dal comandante della nave.Resta salva, naturalmente, l’ipotesi della segnalazione da parte del comandante che qualcuno fra coloro che si trovano a bordo abbia urgente necessità di assistenza sanitaria. Nel qual caso, ovviamente, si dovrebbero adottare gli opportuni provvedimenti ivi compreso, se indispensabile, anche il prelevamento e il trasferimento dell’interessato presso un presidio sanitario sito in Italia. Ma ciò al solo ed esclusivo fine che lo stesso possa fruire delle cure di cui ha bisogno.Eccettuata tale ipotesi, ogni e qualsiasi altra problematica nascente dalla presenza a bordo delle persone cui è stato prestato soccorso in mare non potrebbe che rientrare nella esclusiva competenza delle autorità dello Stato di bandiera, essendo la nave da considerare in tutto e per tutto come territorio dello stesso Stato, salva soltanto la concorrente competenza delle autorità italiane quando, trovandosi la nave nelle nostre acque territoriali, siano stati commessi a bordo di essa dei reati.E non vale neppure invocare in contrario (come invece si fa, tra gli altri, da Zegrebelski nell’articolo sopraricordato) il precedente costituto dalla sentenza «Hirsi» della Corte europea dei diritti dell’uomo con la quale, nel 2012, l’Italia venne condannata per aver effettuato un respingimento collettivo di «migranti» provenienti dalla Libia.Al riguardo, è sufficiente osservare che in quel caso si era trattato non di un rifiuto alla richiesta di sbarco in Italia di «migranti» soccorsi da una nave battente bandiera straniera ma - cosa ben diversa - dell’intercettazione degli stessi «migranti» da parte di navi militari italiane che li avevano poi ricondotti, manu militari, senza provvedere neppure alla loro identificazione, sulle coste libiche dalle quali erano partiti.Quanto, infine, alle direttive europee, anch’esse sono richiamate del tutto a sproposito, dal momento che in nessuna di tali direttive (con particolare riguardo a quella numero 604/2013, attuativa dell’accordo di Dublino) si prevede che uno Stato membro dell’Unione abbia l’obbligo di accogliere nel proprio territorio, per consentire la presentazione di richieste di asilo o di protezione internazionale, soggetti che, a qualsiasi titolo, si trovino a bordo di navi battenti la bandiera di un altro Stato, indipendentemente dalla circostanza che quest’ultimo sia o no membro della stessa Unione. Ovviamente, le considerazioni che precedono faranno la stessa fine che fecero le parole di quel San Giovanni Battista che, come si riferisce nei Vangeli, predicava al deserto. Ma se di quella predica è rimasta traccia nella storia, si potrebbe anche credere che essa sia comunque servita a qualcosa.Pietro Dubolino, Presidente di sezione a riposo della Corte di cassazione
Avete aperto la prima casella del calendario dell’avvento? Speriamo di sì! Si percepisce aria di festa ed ecco una ricettina sfiziosa per anticipare con queste ghirlande ghiotte le celebrazioni gastronomiche. Voi non lo sapete ma con questa preparazione abbiamo “inventato” una nuova sostanza: la “melatomina”. Il come lo scoprirete leggendo gli ingredienti. Anche la nostra particella come quelle seria la melatonina che aiuta il riposo, dà armonia se non altro al gusto.
Matteo Piantedosi (Ansa)
Il capo del Viminale: «L’apertura indiscriminata a flussi gestiti da trafficanti non è la via». Poi invita a mettere un freno alle Ong.
Se il «provvidenziale scossone» invocato dal consigliere del Quirinale Francesco Saverio Garofani per disarcionare Giorgia Meloni avesse un’onda d’urto di ritorno provocata, 45 anni dopo, dal terremoto dell’Irpinia? È da Avellino che il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha preso la rincorsa per piazzare uno stop a Sergio Matterella, ansioso di accogliere quanti più migranti possibile per riempire le culle e i paesi. Venerdì, parlando della sua terra - Piantedosi è campano - che si è rialzata con fatica ha detto: «La priorità ora è fermare lo spopolamento che ha un combinato disposto, come ha ricordato il presidente della Repubblica, con la denatalità e la fuga dei giovani: è un problema molto serio che va affrontato a livello nazionale».
Il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa (Ansa)
Il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, insiste sulla rischiosa strategia di usare gli asset russi congelati. Il Belgio, tuttavia, resta contrario e chiede garanzie economiche agli altri Stati membri. Il che si traduce in nuove stangate sui contribuenti.
Il conto alla rovescia che ci separa dal Consiglio europeo del 18 dicembre prosegue inesorabilmente e le idee su come e quando finanziare le esauste casse di Kiev continuano ad essere poche e tutte altamente divisive.
A confermare la delicatezza del momento, ieri sono arrivate le dichiarazioni, quasi da ventiquattresima ora, del presidente del Consiglio europeo, António Costa, al settimanale portoghese Expresso: «Posso garantire che il Consiglio europeo di dicembre non si concluderà senza l’approvazione dei finanziamenti all’Ucraina per il 2026 e il 2027, indipendentemente dalla modalità su cui si baseranno tali finanziamenti. Ho già informato i miei colleghi che questa volta dovranno prepararsi, se necessario, a un Consiglio europeo più lungo».
Rame, filiere e prezzi in altalena. Congo, il cobalto resta limitato e la pace non si vede. In India arriva la prima gigafactory cinese. I ricambi auto cinesi invadono la Germania.






