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2020-07-22
Prestiti e sussidi arriveranno nel 2021. Ma l’Italia pagherà più di quel che riceve
Ormai da 48 ore si sprecano gli aggettivi per magnificare ed esaltare i risultati conseguiti dal premier Giuseppe Conte al termine della estenuante quattro giorni di Bruxelles.
L'attenzione si è comprensibilmente concentrata sul fondo aggiuntivo Next generation Eu, «mirato e limitato nel tempo», secondo le parole del presidente Charles Michel. Ma non bisogna perdere però di vista l'intera prospettiva dei nostri rapporti finanziari con la Ue, e qui la parte del padrone è recitata dal Quadro finanziario pluriennale 2021-2027 (Qfp) da 1.074 miliardi, ridottosi dai 1.100 iniziali.
Il Next generation Eu prevede di assumere il 70% degli impegni finanziari, cosa ben diversa dagli effettivi pagamenti, nel biennio 2021-2022, lasciando il residuo 30% al 2023, da ripartirsi peraltro con criteri diversi che tengano conto della caduta del Pil nel 2020-2021. Il Qfp invece impegnerà i suoi stanziamenti nell'arco del settennio, con effetti finanziari anche oltre il 2027, come ben sanno tutti coloro che lavorano con i progetti comunitari e che vedono arrivare i pagamenti anche due anni dopo la fine del ciclo.
I due pilastri della manovra sono profondamente intrecciati: ben 77,5 miliardi di sussidi, frazionati in sei programmi diversi, del Next generation Eu sono aggiuntivi rispetto a specifici capitoli di spesa già preesistenti e autonomamente finanziati nel Qfp.
Allora diventa fondamentale capire i meccanismi di funzionamento del Qfp, al quale non a caso il documento conclusivo del Consiglio europeo dedica ben 58 pagine su 67 totali. Non si potrà mai fare un bilancio degli effetti del recente accordo, se non si tiene conto del punto di partenza e, da lì, si fa la differenza rispetto a quello di arrivo.
Anche in questo caso, il diavolo si nasconde nei dettagli: secondo la Corte dei conti, che riprende i dati della Commissione, nel 2018 il nostro Paese è stato contribuente netto per circa 7 miliardi, con incassi per 10 miliardi e versamenti per 17 miliardi. Invece secondo la Commissione, il saldo è stato di soli 5 miliardi. I 2 miliardi di differenza sono dazi doganali che la Commissione considera risorse proprie e non contributi nazionali, come se - qualora l'Italia fosse fuori dalla Ue – il nostro Paese potesse rinunciare a quelle entrate. Già questo ci deve far riflettere sulla difficoltà di determinare il saldo netto finanziario dei nostri rapporti con l'Europa. Sappiamo per certo che quel saldo negativo non potrà che peggiorare per effetto dell'uscita del Regno Unito e il conseguente aumento della nostra quota sul reddito nazionale lordo dell'Ue a 27, che salirà dall'11% al 13% circa. Ma non aumenta solo la percentuale di contribuzione alla torta: aumenta anche la torta e, per chi è contribuente netto come noi, giocoforza peggiora il saldo.
Ora, è ragionevole ipotizzare che con un Qfp che prevede stanziamenti di spesa annui medi per circa 153 miliardi, in netto incremento rispetto ai 120/130 medi del precedente settennio (quindi 30 miliardi annui in più), l'Italia debba versare una contribuzione aggiuntiva per circa 27 miliardi in sette anni (13% di 210) e riceverne 16 (considerando lo stesso rapporto versamenti/contributi del 2018). Avremmo quindi un peggioramento del saldo negativo per circa 11 miliardi, da aggiungersi ai prevedibili 36 che avremmo comunque pagato se fosse stato confermato lo stesso bilancio del precedente settennio.
L'altro aspetto da tenere in evidenza è l'effetto finanziario sul 2021, anno in cui il nostro Paese ha bisogno di fondi per sostenere la ripresa. Il Next generation Eu prevede un prefinanziamento per il 10% dell'importo del Recovery resilience fund (Rrf). Per l'Italia si tratta quindi di ricevere circa 7 miliardi, oltre a una quota non stimabile di eventuali prestiti, in ogni caso per un totale complessivo non superiore ai 20 miliardi. Non è infatti stimabile quanta parte dei 69 miliardi del Rrf si tradurrà in erogazioni da parte dell'Ue. Sarà inoltre possibile ricevere anche dei prefinanziamenti su tutti i programmi del Qfp, ma in misura poco significativa.
Penultimo addendo di questa complessa operazione è costituito dalla Bei (Banca Europea per gli Investimenti), che è pronta a battere cassa. Infatti, nella proposta del presidente Michel del 10 luglio era previsto un aumento di capitale per 175 miliardi, di cui 17,5 versati. Nelle conclusioni del Consiglio tali cifre sono scomparse e sostituite da un generico impegno per il 2020. In ogni caso, l'Italia contribuisce per il 19% e quindi sono altri miliardi che volano via. Infine, le tasse. Il bilancio Ue prevede di aumentare le risorse proprie fino al 1,4% del Gni, che, per rimborsare i prestiti di 750 miliardi, diventa eccezionalmente 2%. Ai commissari basterà decidere cosa tassare (e la plastica non riciclabile è già in pista dal gennaio 2021 con 0,80 euro al chilo) e bisognerà solo pagare.
Per riassumere, incasseremo in tutto 7 miliardi in meno di quanti ne verseremo nel 2021. Ancora convinti che il saldo sia ampiamente positivo per l'Italia?
I tanto strombazzati fondi residui finiranno per essere un miraggio
Accade con una certa frequenza che, se si entra in un negoziato considerando soddisfacente la base negoziale di partenza, quest'ultima diventa inevitabilmente la soglia per un compromesso al ribasso. Già all'indomani del 27 maggio, quando sia il presidente Giuseppe Conte sia il ministro Roberto Gualtieri espressero valutazioni positive sulla proposta della Commissione mentre il blocco nordico faceva circolare dichiarazioni di fuoco, apparve chiara la china discendente su cui era avviata la trattativa tra i 27 Stati membri.
E così è stato. Il Next generation Eu da 750 miliardi ha visto nettamente tagliata la componente sussidi a favore della componente prestiti per ben 110 miliardi.
Ma, tutto sommato, all'Italia non è poi andata così male. Infatti i sussidi, pari a iniziali 500 miliardi, erano a loro volta divisi in 310 miliardi previsti dal Recovery resilience fund (Rrf) e 190 miliardi frazionati in nove altri diversi fondi, aggiuntivi rispetto a specifiche misure di spesa già previste dal bilancio pluriennale. E sono stati soprattutto questi fondi a subire un taglio deciso, da 190 a 77,5 miliardi, mentre il Rrf ha beneficiato di un leggero ritocco al rialzo, attestandosi a 312,5 miliardi.
La quota inizialmente spettante all'Italia nel Rrf era il 20,4% (pari quindi a 68,4 miliardi di 334 miliardi a prezzi correnti) e si stima quindi abbia subito un lieve incremento. I residui 77,5 miliardi di sussidi sono invece destinati a essere ripartiti secondo i criteri propri di ciascuna misura del bilancio a cui sono stati aggiunti. Poiché questo bilancio ci vede contribuenti netti, qui i conti sono più complessi. Infatti l'Italia contribuisce in proporzione al proprio reddito nazionale lordo (13% circa dopo l'uscita del Regno Unito, in precedenza era l'11,2%) e beneficia di aiuti in misura inferiore. È quindi ragionevole stimare che, nel migliore dei casi, altri 13 miliardi si aggiungano ai 68 del Rrf, ma non è detto che l'Italia riesca a ottenerli.
Per quanto riguarda i prestiti, stimati pari a 127,4 miliardi (da iniziali 84) la grancassa della propaganda non ha esitato a darli come cifre già nelle nostre tasche. Con ciò sottovalutando due aspetti. Il primo: la crescita deriva dall'aumento del limite massimo disponibile per ciascuno Stato pari al 6,8% del Gni (reddito nazionale lordo), dall'iniziale 4,7% della proposta del presidente del Consiglio europeo Charles Michel. Avendo l'Italia un Gni di 1.780 miliardi, ecco spiegato l'aumento dei prestiti potenzialmente disponibili. Ma ciò che in molti trascurano di aggiungere è che se tutti gli Stati membri chiedessero prestiti nell'ambito del Rrf fino al limite massimo disponibile, sarebbero necessari ben 920 miliardi di prestiti (il 6,8% del Gni della Ue a 27), altro che i 360 miliardi previsti dall'accordo del 21 luglio. Quindi la disponibilità dei 121 miliardi per l'Italia si basa sul presupposto, francamente ottimistico, che molti Paesi non attingano al prestito e l'Italia riesca a prendersi quasi il 34% del plafond disponibile. Sognare è legittimo, ma poi ci si sveglia in modo brusco.
Ma vi è di più. Il considerando 29 della proposta di regolamento del Rrf, formulata dalla Commissione lo scorso 29 maggio, stabilisce chiaramente che la richiesta di un prestito si giustifica solo alla luce di ulteriori investimenti e riforme che contribuiscono a rendere il fabbisogno finanziario del piano di ripresa più elevato dei sussidi disponibili. Quindi, il prestito arriverà solo nel caso in cui ci siano fabbisogni aggiuntivi, non sarà autonomamente attingibile. Pare superfluo aggiungere che anche tali prestiti saranno erogati per stati di avanzamento, in relazione al conseguimento dei risultati previsti dal piano di ripresa.
In definitiva, come era logico attendersi, considerata l'evoluzione storica dei nostri rapporti con la Ue, appena si solleva il fumo della propaganda, l'arrosto si rivela molto meno consistente.
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L'anno prossimo incasseremo circa 20 miliardi dal nuovo fondo. Dentro un bilancio totale che ci vede sempre contribuenti netti.Divisi in nove capitoli di spesa, sono il frutto di una stima ottimista di Palazzo Chigi.Lo speciale contiene due articoli.Ormai da 48 ore si sprecano gli aggettivi per magnificare ed esaltare i risultati conseguiti dal premier Giuseppe Conte al termine della estenuante quattro giorni di Bruxelles.L'attenzione si è comprensibilmente concentrata sul fondo aggiuntivo Next generation Eu, «mirato e limitato nel tempo», secondo le parole del presidente Charles Michel. Ma non bisogna perdere però di vista l'intera prospettiva dei nostri rapporti finanziari con la Ue, e qui la parte del padrone è recitata dal Quadro finanziario pluriennale 2021-2027 (Qfp) da 1.074 miliardi, ridottosi dai 1.100 iniziali.Il Next generation Eu prevede di assumere il 70% degli impegni finanziari, cosa ben diversa dagli effettivi pagamenti, nel biennio 2021-2022, lasciando il residuo 30% al 2023, da ripartirsi peraltro con criteri diversi che tengano conto della caduta del Pil nel 2020-2021. Il Qfp invece impegnerà i suoi stanziamenti nell'arco del settennio, con effetti finanziari anche oltre il 2027, come ben sanno tutti coloro che lavorano con i progetti comunitari e che vedono arrivare i pagamenti anche due anni dopo la fine del ciclo.I due pilastri della manovra sono profondamente intrecciati: ben 77,5 miliardi di sussidi, frazionati in sei programmi diversi, del Next generation Eu sono aggiuntivi rispetto a specifici capitoli di spesa già preesistenti e autonomamente finanziati nel Qfp.Allora diventa fondamentale capire i meccanismi di funzionamento del Qfp, al quale non a caso il documento conclusivo del Consiglio europeo dedica ben 58 pagine su 67 totali. Non si potrà mai fare un bilancio degli effetti del recente accordo, se non si tiene conto del punto di partenza e, da lì, si fa la differenza rispetto a quello di arrivo.Anche in questo caso, il diavolo si nasconde nei dettagli: secondo la Corte dei conti, che riprende i dati della Commissione, nel 2018 il nostro Paese è stato contribuente netto per circa 7 miliardi, con incassi per 10 miliardi e versamenti per 17 miliardi. Invece secondo la Commissione, il saldo è stato di soli 5 miliardi. I 2 miliardi di differenza sono dazi doganali che la Commissione considera risorse proprie e non contributi nazionali, come se - qualora l'Italia fosse fuori dalla Ue – il nostro Paese potesse rinunciare a quelle entrate. Già questo ci deve far riflettere sulla difficoltà di determinare il saldo netto finanziario dei nostri rapporti con l'Europa. Sappiamo per certo che quel saldo negativo non potrà che peggiorare per effetto dell'uscita del Regno Unito e il conseguente aumento della nostra quota sul reddito nazionale lordo dell'Ue a 27, che salirà dall'11% al 13% circa. Ma non aumenta solo la percentuale di contribuzione alla torta: aumenta anche la torta e, per chi è contribuente netto come noi, giocoforza peggiora il saldo.Ora, è ragionevole ipotizzare che con un Qfp che prevede stanziamenti di spesa annui medi per circa 153 miliardi, in netto incremento rispetto ai 120/130 medi del precedente settennio (quindi 30 miliardi annui in più), l'Italia debba versare una contribuzione aggiuntiva per circa 27 miliardi in sette anni (13% di 210) e riceverne 16 (considerando lo stesso rapporto versamenti/contributi del 2018). Avremmo quindi un peggioramento del saldo negativo per circa 11 miliardi, da aggiungersi ai prevedibili 36 che avremmo comunque pagato se fosse stato confermato lo stesso bilancio del precedente settennio.L'altro aspetto da tenere in evidenza è l'effetto finanziario sul 2021, anno in cui il nostro Paese ha bisogno di fondi per sostenere la ripresa. Il Next generation Eu prevede un prefinanziamento per il 10% dell'importo del Recovery resilience fund (Rrf). Per l'Italia si tratta quindi di ricevere circa 7 miliardi, oltre a una quota non stimabile di eventuali prestiti, in ogni caso per un totale complessivo non superiore ai 20 miliardi. Non è infatti stimabile quanta parte dei 69 miliardi del Rrf si tradurrà in erogazioni da parte dell'Ue. Sarà inoltre possibile ricevere anche dei prefinanziamenti su tutti i programmi del Qfp, ma in misura poco significativa.Penultimo addendo di questa complessa operazione è costituito dalla Bei (Banca Europea per gli Investimenti), che è pronta a battere cassa. Infatti, nella proposta del presidente Michel del 10 luglio era previsto un aumento di capitale per 175 miliardi, di cui 17,5 versati. Nelle conclusioni del Consiglio tali cifre sono scomparse e sostituite da un generico impegno per il 2020. In ogni caso, l'Italia contribuisce per il 19% e quindi sono altri miliardi che volano via. Infine, le tasse. Il bilancio Ue prevede di aumentare le risorse proprie fino al 1,4% del Gni, che, per rimborsare i prestiti di 750 miliardi, diventa eccezionalmente 2%. Ai commissari basterà decidere cosa tassare (e la plastica non riciclabile è già in pista dal gennaio 2021 con 0,80 euro al chilo) e bisognerà solo pagare.Per riassumere, incasseremo in tutto 7 miliardi in meno di quanti ne verseremo nel 2021. Ancora convinti che il saldo sia ampiamente positivo per l'Italia?<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/prestiti-e-sussidi-arriveranno-nel-2021-ma-litalia-paghera-piu-di-quel-che-riceve-2646447473.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-tanto-strombazzati-fondi-residui-finiranno-per-essere-un-miraggio" data-post-id="2646447473" data-published-at="1595368270" data-use-pagination="False"> I tanto strombazzati fondi residui finiranno per essere un miraggio Accade con una certa frequenza che, se si entra in un negoziato considerando soddisfacente la base negoziale di partenza, quest'ultima diventa inevitabilmente la soglia per un compromesso al ribasso. Già all'indomani del 27 maggio, quando sia il presidente Giuseppe Conte sia il ministro Roberto Gualtieri espressero valutazioni positive sulla proposta della Commissione mentre il blocco nordico faceva circolare dichiarazioni di fuoco, apparve chiara la china discendente su cui era avviata la trattativa tra i 27 Stati membri. E così è stato. Il Next generation Eu da 750 miliardi ha visto nettamente tagliata la componente sussidi a favore della componente prestiti per ben 110 miliardi. Ma, tutto sommato, all'Italia non è poi andata così male. Infatti i sussidi, pari a iniziali 500 miliardi, erano a loro volta divisi in 310 miliardi previsti dal Recovery resilience fund (Rrf) e 190 miliardi frazionati in nove altri diversi fondi, aggiuntivi rispetto a specifiche misure di spesa già previste dal bilancio pluriennale. E sono stati soprattutto questi fondi a subire un taglio deciso, da 190 a 77,5 miliardi, mentre il Rrf ha beneficiato di un leggero ritocco al rialzo, attestandosi a 312,5 miliardi. La quota inizialmente spettante all'Italia nel Rrf era il 20,4% (pari quindi a 68,4 miliardi di 334 miliardi a prezzi correnti) e si stima quindi abbia subito un lieve incremento. I residui 77,5 miliardi di sussidi sono invece destinati a essere ripartiti secondo i criteri propri di ciascuna misura del bilancio a cui sono stati aggiunti. Poiché questo bilancio ci vede contribuenti netti, qui i conti sono più complessi. Infatti l'Italia contribuisce in proporzione al proprio reddito nazionale lordo (13% circa dopo l'uscita del Regno Unito, in precedenza era l'11,2%) e beneficia di aiuti in misura inferiore. È quindi ragionevole stimare che, nel migliore dei casi, altri 13 miliardi si aggiungano ai 68 del Rrf, ma non è detto che l'Italia riesca a ottenerli. Per quanto riguarda i prestiti, stimati pari a 127,4 miliardi (da iniziali 84) la grancassa della propaganda non ha esitato a darli come cifre già nelle nostre tasche. Con ciò sottovalutando due aspetti. Il primo: la crescita deriva dall'aumento del limite massimo disponibile per ciascuno Stato pari al 6,8% del Gni (reddito nazionale lordo), dall'iniziale 4,7% della proposta del presidente del Consiglio europeo Charles Michel. Avendo l'Italia un Gni di 1.780 miliardi, ecco spiegato l'aumento dei prestiti potenzialmente disponibili. Ma ciò che in molti trascurano di aggiungere è che se tutti gli Stati membri chiedessero prestiti nell'ambito del Rrf fino al limite massimo disponibile, sarebbero necessari ben 920 miliardi di prestiti (il 6,8% del Gni della Ue a 27), altro che i 360 miliardi previsti dall'accordo del 21 luglio. Quindi la disponibilità dei 121 miliardi per l'Italia si basa sul presupposto, francamente ottimistico, che molti Paesi non attingano al prestito e l'Italia riesca a prendersi quasi il 34% del plafond disponibile. Sognare è legittimo, ma poi ci si sveglia in modo brusco. Ma vi è di più. Il considerando 29 della proposta di regolamento del Rrf, formulata dalla Commissione lo scorso 29 maggio, stabilisce chiaramente che la richiesta di un prestito si giustifica solo alla luce di ulteriori investimenti e riforme che contribuiscono a rendere il fabbisogno finanziario del piano di ripresa più elevato dei sussidi disponibili. Quindi, il prestito arriverà solo nel caso in cui ci siano fabbisogni aggiuntivi, non sarà autonomamente attingibile. Pare superfluo aggiungere che anche tali prestiti saranno erogati per stati di avanzamento, in relazione al conseguimento dei risultati previsti dal piano di ripresa. In definitiva, come era logico attendersi, considerata l'evoluzione storica dei nostri rapporti con la Ue, appena si solleva il fumo della propaganda, l'arrosto si rivela molto meno consistente.
Il meccanismo si applica guardando non a quando è stato pagato il riscatto, ma a quando si maturano i requisiti per l’uscita anticipata: nel 2031 non concorrono 6 mesi tra quelli riscattati; nel 2032 diventano 12; poi 18 nel 2033, 24 nel 2034, fino ad arrivare a 30 mesi nel 2035. La platea indicata è quella del riscatto della «laurea breve», richiamata anche come diplomi universitari della legge 341/1990. La conseguenza pratica è che il riscatto continua a «esistere» come contribuzione accreditata, ma diventa progressivamente molto meno efficace come acceleratore del requisito contributivo. Con una triennale piena (36 mesi) il taglio a regime dal 2035 (30 mesi) lascia, per l’anticipo del diritto, un vantaggio residuo di appena 6 mesi; nel 2031, invece, la sterilizzazione è limitata a 6 mesi e, quindi, restano utilizzabili 30 mesi su 36 per raggiungere prima la soglia. Il punto che rende la stretta economicamente esplosiva è che il costo del riscatto non viene rimodulato. Nel 2025, per il riscatto a costo agevolato, l’Inps indica come base il reddito minimo annuo di 18.555 euro e l’aliquota del 33%, da cui deriva un onere pari a 6.123,15 euro per ogni anno di corso riscattato (per le domande presentate nel 2025).
In altri termini: si continua a pagare secondo i parametri ordinari dell’istituto, ma una fetta crescente di quel «tempo comprato» smette di essere spendibile per andare prima in pensione con l’anticipata. La contestazione più immediata riguarda l’effetto «a scadenza»: chi ha già riscattato oggi, ma maturerà i requisiti dopo il 2030, potrebbe scoprire che una parte dei mesi riscattati non vale più come si aspettava per centrare prima l’uscita dalla vita lavorativa.
La norma, in realtà, è destinata a creare dibattito politico. «Non c’è nessunissima intenzione di alzare l’età pensionabile», ha detto il senatore della Lega. Claudio Borghi, «e meno che mai di scippare il riscatto della laurea. Le voci scritte in legge di bilancio sono semplici clausole di salvaguardia che qualche tecnico troppo zelante ha inserito per compensare un possibile futuro aumento dei pensionamenti anticipati, che la norma incentiva sfruttando la possibilità data dal sistema 64 anni più 25 di contributi inclusa la previdenza complementare. Quello che succederà in futuro verrà monitorato di anno in anno ma posso dire con assoluta certezza che non ci sarà mai alcun aumento delle finestre di uscita o alcuno scippo dei riscatti della laurea a seguito di questa norma». «In assenza di intervento immediato del governo, noi sicuramente presenteremo emendamenti», conclude il leghista. A spazzare via ogni dubbio ci ha pensato il premier, Giorgia Meloni: «Nessuno che abbia riscattato la laurea vedra’ cambiata la sua situazione, la modifica varra’ per il futuro, in questo senso l’emendamento deve essere corretto» a detto in Senato.
Dal canto suo, il segretario del Pd, Elly Schlein, alla Camera, ha subito dichiarato la sua contrarietà all’emendamento. «Ieri (due giorni fa, ndr) avete riscritto la manovra e con una sola mossa fate una stangata sulle pensioni che è un furto sia ai giovani che agli anziani. È una vergogna prendervi i soldi di chi ha già pagato per riscattare la laurea: è un’altra manovra di promesse tradite. Dovevate abolire la Fornero e invece allungate l’età pensionabile a tutti. Non ci provate, non ve lo permetteremo».
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(IStock)
Novità anche per l’attività delle forze dell’ordine. Un emendamento riformulato dal governo prevede che anche gli interventi di soccorso promossi da polizia e carabinieri, a partire dal prossimo anno, andranno «rimborsati» se risulteranno non «giustificati», ovvero se dietro sarà rinvenuta l’ombra del dolo o della colpa grave di chi è stato soccorso. La stretta era stata già prevista nel testo uscito dal Consiglio dei ministri il 17 ottobre ma era limitata a uomini e mezzi della Guardia di finanza, ora con questa proposta di modifica viene estesa agli interventi effettuati dagli altri due corpi. Dal 2026 la richiesta di aiuto che verrà rivolta a polizia di Stato e Arma dei carabinieri, impegnati nel soccorso alpino e in quello in mare, andrà giustificata e motivata. E se non ci sarà una motivazione adeguata e reale la ricerca, il soccorso e il salvataggio in montagna o in mare diventeranno tutte operazioni a pagamento. Non solo. Il contributo sarà dovuto anche da chi procura, per dolo o colpa grave, un incidente o un evento che richiede l’impiego di uomini e mezzi appartenenti alla polizia di Stato e all’Arma. L’importo sarà stabilito con decreti dal ministro dell’Interno e da quello della Difesa, di concerto con l’Economia. L’emendamento precisa, infine, che «il corrispettivo è dovuto qualora l’evento per il quale è stato effettuato l’intervento sia imputabile a dolo o colpa grave dell’agente».
Nessuna novità, invece, per maggiori fondi, che restano rinviati a quando il Paese uscirà dalla procedura d’infrazione. I sindacati di polizia continuano a martellare l’esecutivo dicendo che «per il governo la sicurezza è uno slogan adatto ai discorsi pubblici ma non è una priorità quando si tratta di mettere in campo risorse concrete». In una lettera inviata da Sap, Coisp-Mosap, Fsp Polizia, Silp-Cgil al presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, si attacca «l’ipotesi di un innalzamento dell’età pensionabile, inaccettabile per chi ha trascorso una vita professionale tra rischi e responsabilità enormi e si pretende di allungare ulteriormente la carriera dei poliziotti senza alcun confronto con i sindacati». Per i sindacati è anche «grave, lo stanziamento simbolico di appena 20 milioni di euro per la previdenza dedicata. Una cifra che condanna molti a pensioni indegne dopo una vita spesa al servizio dello Stato».
Intanto hanno avuto il via libera in commissione Bilancio una serie di modifiche alla manovra sui temi di interesse comune alla maggioranza e all’opposizione in materia di enti locali e calamità naturali. In totale sono 64 gli emendamenti. Tra questi, la possibilità di assumere a tempo indeterminato il personale in servizio presso gli Uffici speciali per la ricostruzione e che abbia maturato almeno tre anni di servizio. Arriva anche un contributo di 2,5 milioni per il 2026 per il disagio abitativo finalizzato alla ricostruzione per i territori colpiti dai terremoti in Marche e Umbria.
Il ministro della Salute, Orazio Schillaci, ha sottolineato i maggiori fondi per la sanità. «Sul fronte del personale», ha detto, ci sono degli aumenti importanti e delle assunzioni aggiuntive. Le Regioni possono assumere con il Fondo sanitario nazionale che viene ripartito tra di loro».
Soddisfatto il presidente di Farmindustria, Marcello Cattani. La manovra, infatti, contiene +7,4 miliardi per il Fondo sanitario nazionale e un ulteriore +0,1% che consente di far scendere il payback a carico delle aziende farmaceutiche. «Il segnale è ampiamente positivo», ha commentato Cattani.
Intanto ieri alla Camera, nel dibattito sulle comunicazioni alla vigilia del Consiglio europeo, c’è stato un botta e risposta tra la segretaria del Pd, Elly Schlein, e Meloni. Tema: le tasse e la manovra. «La pressione fiscale sale perché sale il gettito fiscale certo anche grazie al fatto che oggi lavora un milione di persone in più che pagano le tasse», ha detto il premier. E a fronte del rumoreggiamento dell’Aula, ha incalzato: «Se volete facciamo un simposio ma siccome siamo in Parlamento le cose o si dicono come stanno o si studia».
Ma per Schlein «le tasse aumentano per il drenaggio fiscale». Il premier ha, poi, ribadito che la manovra «è seria» e che «l’Italia ha ampiamente pagato in termini reputazionali, e non solo, le allegre politiche degli anni passati».
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Il direttore di Limes, Lucio Caracciolo (Imagoeconomica)
«A tutto c’è un Limes». E i professoroni se ne sono andati sbattendo la porta, accompagnati dal generale con le stellette e dall’eco della marcetta militare mediatica tutta grancassa e tromboni, a sottolineare come fosse democratica e dixie la ritirata strategica da quel covo di «putiniani sfegatati». La vicenda con al centro la guerra in Ucraina merita un approfondimento perché è paradigmatica di una polarizzazione che non lascia scampo a chi semplicemente intende approfondire i fatti. Nell’era del pensiero igienista, ogni contatto con il nemico e ogni lettura (anche critica) dei testi che egli produce sono considerati contaminanti.
Già la narrazione lascia perplessi e l’uscita dei martiri da un consiglio scientifico che vede nelle sue file Enrico Letta, Romano Prodi, Andrea Riccardi, Angelo Panebianco, Federico Fubini (atlantisti di ferro più che compagni di merende dello zar) indebolisce le ragioni dei transfughi. Se poi si aggiunge che in cima al comitato dei saggi della rivista campeggia il nome di Rosario Aitala - il giudice della Corte penale internazionale che due anni fa firmò un mandato di cattura per Vladimir Putin - ecco che le motivazioni del commando in doppiopetto si scaricano in fretta come le batterie dell’auto full electric guidata da Ursula von der Leyen.
Eppure Federico Argentieri (studioso di affari europei), Franz Gustincich (giornalista e fotografo), Giorgio Arfaras (economista) e Vincenzo Camporini (ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica) hanno preso la porta e hanno salutato Lucio Caracciolo con parole stizzite per «incompatibilità con la linea politica». Avvertivano una «nube tossica» aleggiare su Limes. Evidentemente non sopportavano che ogni dieci analisi filo-occidentali ce ne fossero un paio dedicate alle ragioni russe. Un’accusa pretestuosa al mensile di geopolitica più importante d’Italia e a uno storico direttore che in 30 anni si è guadagnato prestigio e indipendenza pur rimanendo nell’alveo del grande fiume navigabile (e spesso limaccioso) della sinistra culturale.
«Io quelli che se ne sono andati non li ho mai visti. Chi ci accusa di essere filorusso non ha mai sfogliato la rivista», ha dichiarato il giornalista Mirko Mussetti a Radio Cusano Campus. Dietro le rumorose dimissioni ci sarebbero cause tutt’altro che culturali, forse di opportunità. Arfaras è marito della giornalista russa naturalizzata italiana Anna Zafesova, studiosa del putinismo, firma della Stampa e voce di Radio Radicale. Il generale Camporini ha solidi interessi politici: già candidato di + Europa, è passato con Carlo Calenda e ha tentato invano la scalata all’Europarlamento. Oggi è responsabile della difesa dell’eurolirica Azione. La tempistica della fibrillazione è sospetta e chiama in causa anche le strategie editoriali. Limes fa parte del gruppo Gedi messo in vendita (in blocco o come spezzatino) da John Elkann; la rivista è solida, quindi obiettivo di qualcuno che potrebbe avere interesse a destabilizzarne la catena di comando.
Ieri Caracciolo ha replicato ai transfughi sottolineando che «la notizia è largamente sopravvalutata». Lo è anche in chiave numerica, visto che i consiglieri (fra scientifici e redazionali) sono un esercito: 106, ben più dei giornalisti che lavorano. Parlando con Il Fatto Quotidiano, il direttore ha aggiunto: «Noi siamo una rivista di geopolitica. Occorre analizzare i conflitti e ascoltare tutte le voci, anche le più lontane. Non possiamo metterci da una parte contro l’altra ma essere aperti a punti di vista diversi. Pubblicare non significa condividere il punto di vista dell’uno o dell’altro».
Argentieri lo ha messo sulla graticola con un paio di motivazioni surreali: avrebbe sbagliato a prevedere l’invasione russa nel febbraio 2022 («Non la faranno mai») e continua a colorare la Crimea come territorio russo sulle mappe, firmate dalla formidabile Laura Canali. Caracciolo non si scompone: «Avevo detto che se Putin avesse invaso l’Ucraina avrebbe fatto una follia. Pensavo che non l’avrebbe fatta, ho sbagliato, mi succede. Non capisco perché a distanza di tempo questo debba provocare le dimissioni». Capitolo cartina: «Chiunque sbarchi a Sebastopoli si accorge che si trova in Russia e non in Ucraina; per dichiarazione dello stesso Zelensky gli ucraini non sono in grado di recuperare quei territori».
Gli analisti lavorano sullo stato di fatto, non sui desiderata dei «Volenterosi» guidati da Bruxelles, ai quali i media italiani hanno srotolato i tradizionali tappetini. E ancora convinti come Napoleone e Hitler che la Russia vada sconfitta sul campo. Se Limes non ha creduto che Putin si curava con il sangue di bue; che uno degli eserciti più potenti del mondo combatteva con le pale; che Mosca era ridotta a usare i microchip delle lavatrici per far volare i missili, il problema non è suo ma di chi si è appiattito sulla retorica dopo aver studiato la Storia sui «Classici Audacia» a fumetti. Nel febbraio del 2024 Limes titolava: «Stiamo perdendo la guerra». Aveva ragione, notizia ruvidamente fattuale. La disinformazione da nube tossica aleggia altrove.
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