2021-04-29
Presi 7 ex «compagni che sbagliano». Parigi non è più l’eden dei terroristi
Giorgio Pietrostefani (Ansa)
Gli ex brigatisti arrestati dopo l'ok dell'Eliseo, fra loro anche Giorgio Pietrostefani. Altri tre sono sfuggiti alla cattura. Finisce una stagione che ha visto la sinistra colta coccolare gli assassini. Ma per l'estradizione ci vorrà tempo.«Questo Stato mi deve delle scuse». La storia ha la memoria lunga. E torna a un giorno di agosto di 22 anni fa, quando Giorgio Pietrostefani, alla notizia della revisione del processo per l'assassinio del commissario Pietro Calabresi, si affacciò a una finestra della questura di Pisa, mimò il gesto di gettarsi di sotto (in un macabro replay del volo di Giuseppe Pinelli) e pronunciò la frase. Aveva 56 anni. Era sarcastico, sprezzante, circondato dal grande abbraccio affettuoso della sinistra dei «compagni che sbagliano». Sicuro che comunque sarebbe rientrato a Parigi, quartiere Montmartre, protetto dall'impunità della dottrina Mitterrand: chi aveva lasciato la lotta armata meritava protezione.Ieri la fuga è finita, niente scuse, il passato lo ha raggiunto. Accade quasi sempre. «Pietrostalin» (era il suo soprannome nell'ambientino per la nota intransigenza) è stato arrestato con altri sei ex terroristi sui quali pendono pesanti condanne maturate negli anni di piombo; altri tre sono ancora latitanti. L'operazione Ombre Rosse, autorizzata personalmente da Emmanuel Macron su pressione di Mario Draghi, chiude i conti con la giustizia e apre la botola scricchiolante che porta alla cantina degli orrori degli anni Settanta. Le richieste di arresto erano per 200 persone, poi i servizi francesi hanno concordato un blitz contro gli autori dei reati più pesanti. Prima di rivederli in Italia passerà del tempo; le procedure di estradizione potrebbero durare due anni ma il primo passo è compiuto e i figli delle vittime possono tornare a credere nella giustizia. La notizia è un tuffo nella notte della Repubblica. Dall'antro della storia tornano a uscire immagini, connivenze e quel puzzolente brodo di coltura che per decenni ha fatto da collante della sinistra più ambigua, quella che non ha mai fatto i conti con il proprio passato. E ancora oggi pervade il pensiero di intellettuali, politici di area, giornalisti di grido. L'eskimo in redazione (formidabile intuizione di Michele Brambilla) resta appeso agli attaccapanni ma non è mai passato di moda.La collezione di nonni dei fiori ultrasettantenni che oggi sfila in gendarmeria con almeno 30 anni di ritardo comprende Sergio Tornaghi (Brigate rosse, deve scontare l'ergastolo per l'omicidio del maresciallo Francesco Di Cataldo), Roberta Capelli (Br, ergastolo per l'omicidio del generale Enrico Galvaligi, il rapimento del giudice Giovanni D'Urso e l'uccisione del poliziotto Michele Granato), Marina Petrella (Br, ergastolo per Galvaligi, D'Urso più il sequestro dell'assessore regionale campano Ciro Cirillo), Narciso Manenti (Nact, ergastolo per l'omicidio dell'appuntato Giuseppe Gurrieri), Giovanni Alimonti (Br, deve scontare 11 anni e mezzo per il tentato omicidio del poliziotto Nicola Simone), Enzo Calvitti (capo della colonna romana delle Br, deve scontare 18 anni per tentato omicidio di un funzionario di polizia). Il più famoso è Pietrostefani, figlio di un prefetto, manager di un'azienda dell'Iri (di quello Stato che voleva abbattere), fondatore con Adriano Sofri di Lotta Continua, mandante dell'omicidio Calabresi, fuggito due volte a Parigi per sottrarsi alla condanna. Mentre Sofri e Ovidio Bombressi bussavano al portone del carcere di Pisa dopo la nona sentenza (l'ultima), lui si dileguava, pretendeva le scuse, si faceva intervistare dagli inviati dei giornali ai tavolini dei bistrò. «Ho quasi 60 anni e mi tocca giocare a nascondino», ripeteva giudicando il mondo davanti a un croque monsieur. Ricordava le assemblee con Massimo D'Alema, il fascino di Toni Negri e dell'intellettuale palindromo Alberto Asor Rosa, i manovali della rivoluzione come Pancho Pardi e Vittorio Agnoletto («Non contavano niente»). Criticava Silvio Berlusconi («In Francia non potrebbe mai fare il premier, qui anche i parrucchieri devono avere il diploma di parrucchiere»). Riceveva affettuose visite di compagni di strada come Erri De Luca, che ai tempi era il capo del servizio d'ordine di Lotta Continua a Roma. E trattava «con distratto disprezzo» Leonardo Marino, il pentito che rivelò i retroscena dell'omicidio Calabresi, l'unico operaio della compagnia, travolto dal rimorso. Allora il venditore di crêpes a Bocca di Magra diceva la verità ma passò per infame perché osava contraddire le icone della nouvelle vague culturale. Il Foglio lo definiva «la bocca bugiarda», il Corriere della Sera lo dipingeva come «venditore di bibite e panini, malandrino» che si era messo contro Pietrostefani e Sofri, quest'ultimo «professore, studioso di estetica, uno dei migliori uomini della sua generazione». Fra i difensori d'ufficio c'erano anche Gad Lerner e Michele Serra. Sarebbe un gran film quello sulla banda Pietrostefani (titolo C'eravamo tanto armati). Ma nessuno lo finanzierà, lo girerà, lo distribuirà perché parla di loro. Perché parla di oggi. Nomi noti, politici di prima fila, intellettuali che discettano di inclusione e democrazia. Quello fu l'uovo del serpente di una sinistra che si finge liberal sotto l'ombrello protettivo delle istituzioni. Quando Roberto Speranza scrive nel libro fantasma che grazie alla pandemia «per la sinistra c'è una nuova possibilità di costruire un'egemonia culturale», si rifà a quella stagione. Quando Luca Casarini prende il mare, lo fa in nome di quella rivoluzione mancata. I loro idoli sono pensatori da weekend che camminano sempre sul lato assolato della strada, asintomatici per antonomasia nella stagione del facile contagio politico. Tutti autoassolti dalla malinconia della gioventù e da uno slogan bugiardo: «Erano ragazzi che volevano fare la rivoluzione e non si sono accorti della scia di sangue alle loro spalle». Tranne Marino, di quella compagnia non si è mai pentito nessuno. Ancora oggi spicca la risposta che diede Sofri alla domanda sul bilancio di quel passato: «Tutti noi ci siamo accomiatati dal nostro passato e l'ho fatto anch'io. Ma siamo rimasti in ottimi rapporti». Pietrostefani sarà costretto a riaprire il libro, forse a rileggerlo. Dovrà farlo a 78 anni, con gesti lenti e anacronistici. Con un volto irriconoscibile rispetto a quello che dava gli ordini, che si dichiarava innocente, che pretendeva le scuse e che scappava due volte. Se c'è qualcosa di surreale nella storia fatta di flashback e non di attualità, la colpa è solo sua. Se si fosse consegnato alla giustizia dopo l'ultima sentenza, oggi sarebbe un uomo libero, graziato come Bompressi per via di una seria patologia al fegato. E (forse) con i conti in pareggio.Mentre i legali degli arrestati parlano di «vendetta di Stato», i parenti delle vittime di quella stagione orribile hanno un'altra versione. Adriano Sabbadin, figlio di un macellaio ucciso a Venezia dai Proletari armati per il comunismo: «Hanno rovinato famiglie come la mia, questi assassini devono essere consegnati alla giustizia». Fra i tre ex terroristi parigini in fuga c'è Raffaele Ventura, l'uomo che nel 1977 a Milano in via De Amicis uccise Antonino Custrà, vicebrigadiere che aveva solo 25 anni. Passamontagna, gambe larghe, mani sulla P38 puntata ad altezza d'uomo: gli anni di piombo non furono una fotografia.
Nel riquadro la prima pagina della bozza notarile, datata 14 novembre 2000, dell’atto con cui Gianni Agnelli (nella foto insieme al figlio Edoardo in una foto d'archivio Ansa) cedeva in nuda proprietà il 25% della cassaforte del gruppo
Papa Leone XIV (Ansa)
«Ciò richiede impegno nel promuovere scelte a vari livelli in favore della famiglia, sostenendone gli sforzi, promuovendone i valori, tutelandone i bisogni e i diritti», ha detto Papa Leone nel suo discorso al Quirinale davanti al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. «Padre, madre, figlio, figlia, nonno, nonna sono, nella tradizione italiana, parole che esprimono e suscitano sentimenti di amore, rispetto e dedizione, a volte eroica, al bene della comunità domestica e dunque a quello di tutta la società. In particolare, vorrei sottolineare l'importanza di garantire a tutte le famiglie - è l'appello del Papa - il sostegno indispensabile di un lavoro dignitoso, in condizioni eque e con attenzione alle esigenze legate alla maternità e alla paternità».
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