2020-09-30
Presa «mamma Isis»: da Lecco alla Siria insegnava ai figli a morire per Allah
Arrestata e rimpatriata. Si era unita col marito al Califfato nel 2015 portando con sé i bambini, ora affidati a una comunitàL'attentatore islamico con la mannaia è passato indisturbato anche da Iran e TurchiaLo speciale contiene due articoli L'hanno rintracciata in Siria, nel campo di prigionia di Al-Hawl, tra 20.000 donne e 50.000 bambini, dopo quattro anni di ricerche in un non luogo diviso in prigionieri siriani e iracheni da un lato, e stranieri dall'altro, e al cui centro c'è la montagna di Al-Baghuz, dedicata agli irriducibili.A riportarla in Italia, con i quattro bambini, sono stati gli agenti dell'Aise, il servizio segreto italiano che si occupa di minaccia estera, e i carabinieri del Ros di Milano dopo averle dato la caccia nei territori abbandonati dall'Isis in ritirata, da quando il gip Manuela Cannavale, nel 2016, emise un'ordinanza cautelare per la famiglia di foreign fighters che era partita da Bulciago, in provincia di Lecco, per combattere per lo Stato islamico. Fbi e curdi hanno individuato la famiglia e segnalato la presenza agli uomini dell'Aise. Che hanno preparato il rientro con un aereo della presidenza del Consiglio dei ministri e con gli uomini del Ros a bordo. Ora Alice Aisha (nome acquisito con la conversione) Brignoli, che per tutti è «mamma Isis», moglie del militante dell'Isis italiano di origine marocchina Mohamed Koraichi, morto da qualche mese per una infezione intestinale e non con l'agognata morte sul campo alla quale aspirava da buon terrorista, è in carcere. I piccoli Koraichi, invece, verranno affidati a una comunità. La famiglia Koraichi aveva iniziato il percorso di radicalizzazione nel 2009, in concomitanza con la nascita del primo figlio: lei ha iniziato a indossare il velo e a studiare l'arabo, lui, frequentatore delle moschee di Costa Masnaga e di viale Jenner, si è fatto crescere la barba e ha indossato la tunica bianca. Con il passare del tempo i due hanno tagliato i ponti con le rispettive famiglie e a maggio 2015 sono partiti per la Siria. Quando i carabinieri del Ros e gli investigatori della Digos perquisirono la loro abitazione trovarono una bandiera artigianale ottenuta da una stampa, con sfondo nero, riportante nella parte centrale il logo bianco, rotondo, con la scritta in lingua araba della dichiarazione di fede della religione islamica (shahada) che è diventata simbolo dell'Isis, e un un foglio A4 con un messaggio in lingua araba sulla parte superiore e nella parte inferiore, invece, la fotografia del noto Abu Bakr Al Baghdad I, ovvero il Califfo dell'autoproclamato Stato islamico.La mamma di Alice, invece, quando entrò nell'appartamento della figlia trovò un biglietto: «Sono partita, non mi cercate, non torno». Ora Alice ha fatto sapere di essere «felicissima» di rientrare, anche se è finita dietro le sbarre. «Una bellissima storia italiana», la definisce il procuratore aggiunto Alberto Nobili, capo del pool Antiterrorismo: «Una storia che ha consentito di riportare alla vita quattro ragazzini e la loro mamma». I due aspiranti foreign fighters, la sorella e il cognato di Koraichi e un'ulteriore coppia di radicalizzati e appartenenti allo Stato islamico raggiunsero tutti la Siria in auto, attraverso i Balcani e poi la Turchia. «Il figlio maggiore », spiega Nobili, «appena arrivato in Siria fu inserito nei campi di addestramento». Aveva solo sei anni, ora è un ragazzino di undici. I fratellini ne hanno nove, sette e il più piccolo tre. È nato in Siria ed è figlio di una seconda moglie di Koraichi, Yassine, vedova di un martire e conosciuta durante la detenzione in un campo siriano. Alice Aisha li teneva tutti assieme in una foto, ritratti in tuta mimetica e col dito puntato in cielo, sul suo stato di Whatsapp. «Per la Brignoli», annotarono gli investigatori, «si tratta dell'immagine simbolo della sua attuale vita».«Del futuro di questi ragazzini ci dobbiamo occupare», ha spiegato Nobili: «Non è finita, sono bambini che portano dentro un odio feroce. Far tornare in Italia queste persone è una politica che non tutti i Paesi seguono». E il procuratore capo Francesco Greco avverte: «La minaccia è sempre costante». Anche perché, mentre Koraichi, ritengono gli investigatori, avrebbe partecipato direttamente alle operazioni militari dell'Isis, Alice avrebbe ricoperto un «ruolo attivo nell'istruzione dei figli alla causa del jihad». Per questo aveva chiesto la «tazkiya», l'autorizzazione per aderire al Califfato, a un ignoto sceicco. La famiglia Koraichi sognava un attentato agli infedeli e la «Shahada», il martirio, possibilmente in Italia, come emerge dalle intercettazioni. Tra le quali ce n'era una inequivocabile. Un messaggio audio Whatsapp intitolato «Poema bomba». Il testo è stato trascritto dagli investigatori del Ros: «Fratello nostro, ascolta lo Sceicco, colpisci! (…) fai esplodere la tua cintura nelle folle dicendo Allah akbar!». Il gip definì quel messaggio «di chiaro e grave contenuto probatorio». E ora il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli chiede che «si valuti con attenzione il peso delle responsabilità di questa terrorista. Questa donna ha scelto di schierarsi contro di noi, contro quello che siamo, come italiani e europei. Per questo mamma Isis merita lo stesso trattamento di Cesare Battisti. E lo stesso deve valere per gli altri foreign fighter italiani rimpatriati dalla Siria e dall'Iraq».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/presa-mamma-isis-da-lecco-alla-siria-insegnava-ai-figli-a-morire-per-allah-2647864927.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="luomo-che-voleva-un-charlie-bis-era-arrivato-in-francia-dallitalia" data-post-id="2647864927" data-published-at="1601455353" data-use-pagination="False"> L’uomo che voleva un «Charlie» bis era arrivato in Francia dall’Italia Il terrorista islamico pakistano, autore dell'attentato davanti alla ex sede di Charlie Hebdo è passato anche dall'Italia, prima di approdare a Parigi. Lo ha confessato lui stesso agli inquirenti che lo interrogavano nell'ambito delle indagini successive all'attacco di venerdì scorso, che ha provocato il grave ferimento di due dipendenti dell'agenzia giornalistica Premières Lignes. Il giovane ha dato anche altre conferme agli investigatori. In primo luogo ha rivelato che il suo vero nome è Zaheer Hassan Mahmoud, e non Ali H., né Hasham U, come era stato scritto dai media francesi dopo l'aggressione terroristica. Un'altra informazione che non ha colto di sorpresa inquirenti e opinione pubblica è stata quella relativa all'età. Le foto circolate più o meno clandestinamente sui social network lasciavano supporre che l'uomo fosse più vecchio di quanto dichiarato. Jean-François Ricard - capo della Procura nazionale antiterrorismo (Pnat) - ha spiegato in una conferenza stampa, che nel telefono dell'attentatore è stata ritrovata la fotografia di un documento d'identità. Dopo questo rinvenimento, l'aggressore ha in effetti confermato di avere 25 anni e non 18, come aveva fatto credere dopo essere arrivato in Francia, beneficiando così dei sussidi previsti per i minori non accompagnati. Il clandestino pakistano avrebbe lasciato il proprio Paese nel mese di marzo 2018. Come spiegato dal numero uno della Pnat, Mahmoud è passato anche dall'Iran, dalla Turchia e dal nostro Paese. Arrivato in Francia, ha potuto ricevere e l'aiuto, anche finanziario, dell'Ase, l'assistenza sociale all'infanzia. Poi, qualche settimana dopo il suo presunto diciottesimo compleanno, ha compiuto l'atto terroristico che lo ha portato su tutti i giornali. Il capo della Pnat ha confermato che il terrorista era un clandestino, visto che «non possedeva alcun titolo di soggiorno. Tuttavia, aveva un appuntamento alla prefettura della Val-d'Oise, il giorno stesso dell'attacco.» Il procuratore capo antiterrorista ha rivelato che il venticinquenne pakistano aveva fatto dei sopralluoghi nel quartiere in cui aveva sede fino al 2015 il giornale satirico, in tre date diverse: il 18, il 22 e il 24 settembre. L'attentatore ha anche acquistato, in un negozio della banlieue «calda» di Saint-Denis, un martello, del liquido infiammabile e la mannaia usata per ferire gravemente i due dipendenti dell'agenzia. Ma il piano originario dell'attentatore pakistano era un altro. Il capo della Pnat ha spiegato che «voleva penetrare nei locali del giornale, se necessario usando il martello, prima di incendiarli». Mahmoud ha confessato agli inquirenti di essere stato «in collera» per la ripubblicazione delle caricature del profeta dell'islam da parte di Charlie Hebdo. In questo senso, secondo quanto riferito agli uomini della Pnat dagli altri sospetti fermati, il giovane clandestino avrebbe guardato «abbondantemente» dei video del partito Tehreek-i-Labbaik Pakistan (TLP), definito da Le Figaro di ispirazione «islamista radicale» e fondato da Khadim Hussain Rizvi. Prima di passare all'atto, Mahmoud ha registrato un video spiegando che si voleva «rivoltare» contro la Francia, dove venivano pubblicate le vignette del «nostro puro, grande e ben amato profeta». Nel pomeriggio di ieri - dopo che erano trascorse le 96 ore di fermo previste dalla legge francese antiterrorismo - è stato presentato ad un giudice con l'accusa di «tentato omicidio a carattere terroristico» e «associazione terroristica». La Pnat ha chiesto che ne fosse disposto l'arresto. Sono stati invece scagionati e rilasciati gli ultimi cinque dei nove fermati tra venerdì e sabato nel quadro dell'inchiesta.
La Global Sumud Flotilla. Nel riquadro, la giornalista Francesca Del Vecchio (Ansa)
Vladimir Putin e Donald Trump (Ansa)