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2020-09-30
Presa «mamma Isis»: da Lecco alla Siria insegnava ai figli a morire per Allah
Ansa
L'hanno rintracciata in Siria, nel campo di prigionia di Al-Hawl, tra 20.000 donne e 50.000 bambini, dopo quattro anni di ricerche in un non luogo diviso in prigionieri siriani e iracheni da un lato, e stranieri dall'altro, e al cui centro c'è la montagna di Al-Baghuz, dedicata agli irriducibili.
A riportarla in Italia, con i quattro bambini, sono stati gli agenti dell'Aise, il servizio segreto italiano che si occupa di minaccia estera, e i carabinieri del Ros di Milano dopo averle dato la caccia nei territori abbandonati dall'Isis in ritirata, da quando il gip Manuela Cannavale, nel 2016, emise un'ordinanza cautelare per la famiglia di foreign fighters che era partita da Bulciago, in provincia di Lecco, per combattere per lo Stato islamico. Fbi e curdi hanno individuato la famiglia e segnalato la presenza agli uomini dell'Aise.
Che hanno preparato il rientro con un aereo della presidenza del Consiglio dei ministri e con gli uomini del Ros a bordo. Ora Alice Aisha (nome acquisito con la conversione) Brignoli, che per tutti è «mamma Isis», moglie del militante dell'Isis italiano di origine marocchina Mohamed Koraichi, morto da qualche mese per una infezione intestinale e non con l'agognata morte sul campo alla quale aspirava da buon terrorista, è in carcere.
I piccoli Koraichi, invece, verranno affidati a una comunità. La famiglia Koraichi aveva iniziato il percorso di radicalizzazione nel 2009, in concomitanza con la nascita del primo figlio: lei ha iniziato a indossare il velo e a studiare l'arabo, lui, frequentatore delle moschee di Costa Masnaga e di viale Jenner, si è fatto crescere la barba e ha indossato la tunica bianca. Con il passare del tempo i due hanno tagliato i ponti con le rispettive famiglie e a maggio 2015 sono partiti per la Siria. Quando i carabinieri del Ros e gli investigatori della Digos perquisirono la loro abitazione trovarono una bandiera artigianale ottenuta da una stampa, con sfondo nero, riportante nella parte centrale il logo bianco, rotondo, con la scritta in lingua araba della dichiarazione di fede della religione islamica (shahada) che è diventata simbolo dell'Isis, e un un foglio A4 con un messaggio in lingua araba sulla parte superiore e nella parte inferiore, invece, la fotografia del noto Abu Bakr Al Baghdad I, ovvero il Califfo dell'autoproclamato Stato islamico.
La mamma di Alice, invece, quando entrò nell'appartamento della figlia trovò un biglietto: «Sono partita, non mi cercate, non torno». Ora Alice ha fatto sapere di essere «felicissima» di rientrare, anche se è finita dietro le sbarre. «Una bellissima storia italiana», la definisce il procuratore aggiunto Alberto Nobili, capo del pool Antiterrorismo: «Una storia che ha consentito di riportare alla vita quattro ragazzini e la loro mamma».
I due aspiranti foreign fighters, la sorella e il cognato di Koraichi e un'ulteriore coppia di radicalizzati e appartenenti allo Stato islamico raggiunsero tutti la Siria in auto, attraverso i Balcani e poi la Turchia. «Il figlio maggiore », spiega Nobili, «appena arrivato in Siria fu inserito nei campi di addestramento». Aveva solo sei anni, ora è un ragazzino di undici. I fratellini ne hanno nove, sette e il più piccolo tre. È nato in Siria ed è figlio di una seconda moglie di Koraichi, Yassine, vedova di un martire e conosciuta durante la detenzione in un campo siriano. Alice Aisha li teneva tutti assieme in una foto, ritratti in tuta mimetica e col dito puntato in cielo, sul suo stato di Whatsapp. «Per la Brignoli», annotarono gli investigatori, «si tratta dell'immagine simbolo della sua attuale vita».
«Del futuro di questi ragazzini ci dobbiamo occupare», ha spiegato Nobili: «Non è finita, sono bambini che portano dentro un odio feroce. Far tornare in Italia queste persone è una politica che non tutti i Paesi seguono». E il procuratore capo Francesco Greco avverte: «La minaccia è sempre costante». Anche perché, mentre Koraichi, ritengono gli investigatori, avrebbe partecipato direttamente alle operazioni militari dell'Isis, Alice avrebbe ricoperto un «ruolo attivo nell'istruzione dei figli alla causa del jihad».
Per questo aveva chiesto la «tazkiya», l'autorizzazione per aderire al Califfato, a un ignoto sceicco. La famiglia Koraichi sognava un attentato agli infedeli e la «Shahada», il martirio, possibilmente in Italia, come emerge dalle intercettazioni.
Tra le quali ce n'era una inequivocabile. Un messaggio audio Whatsapp intitolato «Poema bomba». Il testo è stato trascritto dagli investigatori del Ros: «Fratello nostro, ascolta lo Sceicco, colpisci! (…) fai esplodere la tua cintura nelle folle dicendo Allah akbar!». Il gip definì quel messaggio «di chiaro e grave contenuto probatorio». E ora il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli chiede che «si valuti con attenzione il peso delle responsabilità di questa terrorista. Questa donna ha scelto di schierarsi contro di noi, contro quello che siamo, come italiani e europei. Per questo mamma Isis merita lo stesso trattamento di Cesare Battisti. E lo stesso deve valere per gli altri foreign fighter italiani rimpatriati dalla Siria e dall'Iraq».
L’uomo che voleva un «Charlie» bis era arrivato in Francia dall’Italia
Il terrorista islamico pakistano, autore dell'attentato davanti alla ex sede di Charlie Hebdo è passato anche dall'Italia, prima di approdare a Parigi. Lo ha confessato lui stesso agli inquirenti che lo interrogavano nell'ambito delle indagini successive all'attacco di venerdì scorso, che ha provocato il grave ferimento di due dipendenti dell'agenzia giornalistica Premières Lignes.
Il giovane ha dato anche altre conferme agli investigatori. In primo luogo ha rivelato che il suo vero nome è Zaheer Hassan Mahmoud, e non Ali H., né Hasham U, come era stato scritto dai media francesi dopo l'aggressione terroristica. Un'altra informazione che non ha colto di sorpresa inquirenti e opinione pubblica è stata quella relativa all'età. Le foto circolate più o meno clandestinamente sui social network lasciavano supporre che l'uomo fosse più vecchio di quanto dichiarato. Jean-François Ricard - capo della Procura nazionale antiterrorismo (Pnat) - ha spiegato in una conferenza stampa, che nel telefono dell'attentatore è stata ritrovata la fotografia di un documento d'identità. Dopo questo rinvenimento, l'aggressore ha in effetti confermato di avere 25 anni e non 18, come aveva fatto credere dopo essere arrivato in Francia, beneficiando così dei sussidi previsti per i minori non accompagnati.
Il clandestino pakistano avrebbe lasciato il proprio Paese nel mese di marzo 2018. Come spiegato dal numero uno della Pnat, Mahmoud è passato anche dall'Iran, dalla Turchia e dal nostro Paese. Arrivato in Francia, ha potuto ricevere e l'aiuto, anche finanziario, dell'Ase, l'assistenza sociale all'infanzia. Poi, qualche settimana dopo il suo presunto diciottesimo compleanno, ha compiuto l'atto terroristico che lo ha portato su tutti i giornali. Il capo della Pnat ha confermato che il terrorista era un clandestino, visto che «non possedeva alcun titolo di soggiorno.
Tuttavia, aveva un appuntamento alla prefettura della Val-d'Oise, il giorno stesso dell'attacco.»
Il procuratore capo antiterrorista ha rivelato che il venticinquenne pakistano aveva fatto dei sopralluoghi nel quartiere in cui aveva sede fino al 2015 il giornale satirico, in tre date diverse: il 18, il 22 e il 24 settembre. L'attentatore ha anche acquistato, in un negozio della banlieue «calda» di Saint-Denis, un martello, del liquido infiammabile e la mannaia usata per ferire gravemente i due dipendenti dell'agenzia.
Ma il piano originario dell'attentatore pakistano era un altro. Il capo della Pnat ha spiegato che «voleva penetrare nei locali del giornale, se necessario usando il martello, prima di incendiarli». Mahmoud ha confessato agli inquirenti di essere stato «in collera» per la ripubblicazione delle caricature del profeta dell'islam da parte di Charlie Hebdo.
In questo senso, secondo quanto riferito agli uomini della Pnat dagli altri sospetti fermati, il giovane clandestino avrebbe guardato «abbondantemente» dei video del partito Tehreek-i-Labbaik Pakistan (TLP), definito da Le Figaro di ispirazione «islamista radicale» e fondato da Khadim Hussain Rizvi. Prima di passare all'atto, Mahmoud ha registrato un video spiegando che si voleva «rivoltare» contro la Francia, dove venivano pubblicate le vignette del «nostro puro, grande e ben amato profeta».
Nel pomeriggio di ieri - dopo che erano trascorse le 96 ore di fermo previste dalla legge francese antiterrorismo - è stato presentato ad un giudice con l'accusa di «tentato omicidio a carattere terroristico» e «associazione terroristica». La Pnat ha chiesto che ne fosse disposto l'arresto.
Sono stati invece scagionati e rilasciati gli ultimi cinque dei nove fermati tra venerdì e sabato nel quadro dell'inchiesta.
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Riduci
Arrestata e rimpatriata. Si era unita col marito al Califfato nel 2015 portando con sé i bambini, ora affidati a una comunitàL'attentatore islamico con la mannaia è passato indisturbato anche da Iran e TurchiaLo speciale contiene due articoli L'hanno rintracciata in Siria, nel campo di prigionia di Al-Hawl, tra 20.000 donne e 50.000 bambini, dopo quattro anni di ricerche in un non luogo diviso in prigionieri siriani e iracheni da un lato, e stranieri dall'altro, e al cui centro c'è la montagna di Al-Baghuz, dedicata agli irriducibili.A riportarla in Italia, con i quattro bambini, sono stati gli agenti dell'Aise, il servizio segreto italiano che si occupa di minaccia estera, e i carabinieri del Ros di Milano dopo averle dato la caccia nei territori abbandonati dall'Isis in ritirata, da quando il gip Manuela Cannavale, nel 2016, emise un'ordinanza cautelare per la famiglia di foreign fighters che era partita da Bulciago, in provincia di Lecco, per combattere per lo Stato islamico. Fbi e curdi hanno individuato la famiglia e segnalato la presenza agli uomini dell'Aise. Che hanno preparato il rientro con un aereo della presidenza del Consiglio dei ministri e con gli uomini del Ros a bordo. Ora Alice Aisha (nome acquisito con la conversione) Brignoli, che per tutti è «mamma Isis», moglie del militante dell'Isis italiano di origine marocchina Mohamed Koraichi, morto da qualche mese per una infezione intestinale e non con l'agognata morte sul campo alla quale aspirava da buon terrorista, è in carcere. I piccoli Koraichi, invece, verranno affidati a una comunità. La famiglia Koraichi aveva iniziato il percorso di radicalizzazione nel 2009, in concomitanza con la nascita del primo figlio: lei ha iniziato a indossare il velo e a studiare l'arabo, lui, frequentatore delle moschee di Costa Masnaga e di viale Jenner, si è fatto crescere la barba e ha indossato la tunica bianca. Con il passare del tempo i due hanno tagliato i ponti con le rispettive famiglie e a maggio 2015 sono partiti per la Siria. Quando i carabinieri del Ros e gli investigatori della Digos perquisirono la loro abitazione trovarono una bandiera artigianale ottenuta da una stampa, con sfondo nero, riportante nella parte centrale il logo bianco, rotondo, con la scritta in lingua araba della dichiarazione di fede della religione islamica (shahada) che è diventata simbolo dell'Isis, e un un foglio A4 con un messaggio in lingua araba sulla parte superiore e nella parte inferiore, invece, la fotografia del noto Abu Bakr Al Baghdad I, ovvero il Califfo dell'autoproclamato Stato islamico.La mamma di Alice, invece, quando entrò nell'appartamento della figlia trovò un biglietto: «Sono partita, non mi cercate, non torno». Ora Alice ha fatto sapere di essere «felicissima» di rientrare, anche se è finita dietro le sbarre. «Una bellissima storia italiana», la definisce il procuratore aggiunto Alberto Nobili, capo del pool Antiterrorismo: «Una storia che ha consentito di riportare alla vita quattro ragazzini e la loro mamma». I due aspiranti foreign fighters, la sorella e il cognato di Koraichi e un'ulteriore coppia di radicalizzati e appartenenti allo Stato islamico raggiunsero tutti la Siria in auto, attraverso i Balcani e poi la Turchia. «Il figlio maggiore », spiega Nobili, «appena arrivato in Siria fu inserito nei campi di addestramento». Aveva solo sei anni, ora è un ragazzino di undici. I fratellini ne hanno nove, sette e il più piccolo tre. È nato in Siria ed è figlio di una seconda moglie di Koraichi, Yassine, vedova di un martire e conosciuta durante la detenzione in un campo siriano. Alice Aisha li teneva tutti assieme in una foto, ritratti in tuta mimetica e col dito puntato in cielo, sul suo stato di Whatsapp. «Per la Brignoli», annotarono gli investigatori, «si tratta dell'immagine simbolo della sua attuale vita».«Del futuro di questi ragazzini ci dobbiamo occupare», ha spiegato Nobili: «Non è finita, sono bambini che portano dentro un odio feroce. Far tornare in Italia queste persone è una politica che non tutti i Paesi seguono». E il procuratore capo Francesco Greco avverte: «La minaccia è sempre costante». Anche perché, mentre Koraichi, ritengono gli investigatori, avrebbe partecipato direttamente alle operazioni militari dell'Isis, Alice avrebbe ricoperto un «ruolo attivo nell'istruzione dei figli alla causa del jihad». Per questo aveva chiesto la «tazkiya», l'autorizzazione per aderire al Califfato, a un ignoto sceicco. La famiglia Koraichi sognava un attentato agli infedeli e la «Shahada», il martirio, possibilmente in Italia, come emerge dalle intercettazioni. Tra le quali ce n'era una inequivocabile. Un messaggio audio Whatsapp intitolato «Poema bomba». Il testo è stato trascritto dagli investigatori del Ros: «Fratello nostro, ascolta lo Sceicco, colpisci! (…) fai esplodere la tua cintura nelle folle dicendo Allah akbar!». Il gip definì quel messaggio «di chiaro e grave contenuto probatorio». E ora il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli chiede che «si valuti con attenzione il peso delle responsabilità di questa terrorista. Questa donna ha scelto di schierarsi contro di noi, contro quello che siamo, come italiani e europei. Per questo mamma Isis merita lo stesso trattamento di Cesare Battisti. E lo stesso deve valere per gli altri foreign fighter italiani rimpatriati dalla Siria e dall'Iraq».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/presa-mamma-isis-da-lecco-alla-siria-insegnava-ai-figli-a-morire-per-allah-2647864927.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="luomo-che-voleva-un-charlie-bis-era-arrivato-in-francia-dallitalia" data-post-id="2647864927" data-published-at="1601455353" data-use-pagination="False"> L’uomo che voleva un «Charlie» bis era arrivato in Francia dall’Italia Il terrorista islamico pakistano, autore dell'attentato davanti alla ex sede di Charlie Hebdo è passato anche dall'Italia, prima di approdare a Parigi. Lo ha confessato lui stesso agli inquirenti che lo interrogavano nell'ambito delle indagini successive all'attacco di venerdì scorso, che ha provocato il grave ferimento di due dipendenti dell'agenzia giornalistica Premières Lignes. Il giovane ha dato anche altre conferme agli investigatori. In primo luogo ha rivelato che il suo vero nome è Zaheer Hassan Mahmoud, e non Ali H., né Hasham U, come era stato scritto dai media francesi dopo l'aggressione terroristica. Un'altra informazione che non ha colto di sorpresa inquirenti e opinione pubblica è stata quella relativa all'età. Le foto circolate più o meno clandestinamente sui social network lasciavano supporre che l'uomo fosse più vecchio di quanto dichiarato. Jean-François Ricard - capo della Procura nazionale antiterrorismo (Pnat) - ha spiegato in una conferenza stampa, che nel telefono dell'attentatore è stata ritrovata la fotografia di un documento d'identità. Dopo questo rinvenimento, l'aggressore ha in effetti confermato di avere 25 anni e non 18, come aveva fatto credere dopo essere arrivato in Francia, beneficiando così dei sussidi previsti per i minori non accompagnati. Il clandestino pakistano avrebbe lasciato il proprio Paese nel mese di marzo 2018. Come spiegato dal numero uno della Pnat, Mahmoud è passato anche dall'Iran, dalla Turchia e dal nostro Paese. Arrivato in Francia, ha potuto ricevere e l'aiuto, anche finanziario, dell'Ase, l'assistenza sociale all'infanzia. Poi, qualche settimana dopo il suo presunto diciottesimo compleanno, ha compiuto l'atto terroristico che lo ha portato su tutti i giornali. Il capo della Pnat ha confermato che il terrorista era un clandestino, visto che «non possedeva alcun titolo di soggiorno. Tuttavia, aveva un appuntamento alla prefettura della Val-d'Oise, il giorno stesso dell'attacco.» Il procuratore capo antiterrorista ha rivelato che il venticinquenne pakistano aveva fatto dei sopralluoghi nel quartiere in cui aveva sede fino al 2015 il giornale satirico, in tre date diverse: il 18, il 22 e il 24 settembre. L'attentatore ha anche acquistato, in un negozio della banlieue «calda» di Saint-Denis, un martello, del liquido infiammabile e la mannaia usata per ferire gravemente i due dipendenti dell'agenzia. Ma il piano originario dell'attentatore pakistano era un altro. Il capo della Pnat ha spiegato che «voleva penetrare nei locali del giornale, se necessario usando il martello, prima di incendiarli». Mahmoud ha confessato agli inquirenti di essere stato «in collera» per la ripubblicazione delle caricature del profeta dell'islam da parte di Charlie Hebdo. In questo senso, secondo quanto riferito agli uomini della Pnat dagli altri sospetti fermati, il giovane clandestino avrebbe guardato «abbondantemente» dei video del partito Tehreek-i-Labbaik Pakistan (TLP), definito da Le Figaro di ispirazione «islamista radicale» e fondato da Khadim Hussain Rizvi. Prima di passare all'atto, Mahmoud ha registrato un video spiegando che si voleva «rivoltare» contro la Francia, dove venivano pubblicate le vignette del «nostro puro, grande e ben amato profeta». Nel pomeriggio di ieri - dopo che erano trascorse le 96 ore di fermo previste dalla legge francese antiterrorismo - è stato presentato ad un giudice con l'accusa di «tentato omicidio a carattere terroristico» e «associazione terroristica». La Pnat ha chiesto che ne fosse disposto l'arresto. Sono stati invece scagionati e rilasciati gli ultimi cinque dei nove fermati tra venerdì e sabato nel quadro dell'inchiesta.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Riduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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