2023-11-01
Premierato ok, però subito: non aspettiamo cinque anni
Sergio Mattarella e Giorgia Meloni (Ansa)
Lo dico subito, così sgombero il campo dagli equivoci: invece del premierato avrei preferito la riforma presidenziale, perché se c’è un ruolo che oggi nel nostro Paese ha bisogno di essere ridefinito è quello del capo dello Stato, che da arbitro qual era secondo la Costituzione, ormai si è trasformato in giocatore, anzi in attaccante, e per di più senza essere eletto dal popolo.Dunque, sarebbe stato meglio ridisegnarne i poteri e arginarne le esondazioni. Dopo di che, visto che a quanto pare la revisione delle prerogative del Colle è destinata a rimanere nel mondo dei sogni, prendo atto che con il premierato qualche novità positiva potremmo averla.La prima e più importante è quella che mette la parola fine a presidenti del Consiglio tecnici, cioè non passati dalle elezioni. Negli ultimi anni è diventata una costante. Quando cade il governo, infatti, il Quirinale ha preso l’abitudine di non restituire la parola agli italiani, ma di darla a qualcuno che non è stato eletto e che spesso è pure sconosciuto a chi avrebbe il diritto di sceglierlo. Il primo a dare il via alla soluzione istituzionale fu, sul finire della Prima Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, che nominò premier Carlo Azeglio Ciampi con la scusa della crisi economica. Poi, nel corso degli anni, sono seguiti Mario Monti e Mario Draghi, entrambi invocati come salvatori della patria. Il vizio di mettere alla guida dell’esecutivo persone mai scelte con un voto è alla base delle carriere politiche di Matteo Renzi e Giuseppe Conte, che pur non essendo mai neppure entrati in Parlamento, si ritrovarono alla guida del Paese. Ecco, con la riforma voluta da Giorgia Meloni, nel futuro – se il testo verrà approvato – tutto ciò sarà impossibile. Il premier verrebbe votato direttamente dagli elettori e al capo dello Stato non sarebbe consentito sceglierne uno esterno alle Camere, come capitò con Conte nel 2018. Al massimo, se il presidente del Consiglio si dimette, il Colle potrebbe scegliere il sostituto fra gli onorevoli all’interno della stessa maggioranza, ma non nominarne uno di un partito diverso. Le modifiche proposte dalla riforma che venerdì sarà discussa in Consiglio dei ministri dovrebbero porre così un argine ai ribaltoni che, insieme con i cambi di casacca, sono diventati la regola del Parlamento italiano. Pur senza elezione diretta del capo dello Stato, verrebbe così limitata la discrezionalità dell’inquilino del Quirinale, al quale verrà lasciato il potere di nomina dei ministri, ma non il diritto di scegliersi il premier che più gli aggrada pur di non indire le elezioni. Tra le innovazioni del testo concordato dal centrodestra, c’è poi un premio di maggioranza del 55% su base nazionale, che garantirebbe la stabilità dell’esecutivo, evitando che sia lasciato in balia di numeri ballerini. Una soluzione che, insieme con l’impossibilità di pescare, in nome dell’interesse nazionale, persone esterne alle Camere, eviterebbe giochi di potere e trame parlamentari. Non è finita, la riforma mette la parola fine anche a quella strana anomalia denominata senatori a vita, ossia persone che pur frequentando poco il Parlamento, a volte sono state determinanti per decidere le sorti di un governo. Oggi, oltre agli ex presidenti della Repubblica, sono nominati senatori a vita figure che si sono particolarmente distinte nel mondo della cultura, della scienza, dell’industria e delle arti. Una scelta che la Costituzione demanda al capo dello Stato, ma che non di rado ha suscitato qualche critica, in quanto è capitato che siano stati determinanti per sostenere un governo. Una stampella che di fatto ha tolto agli onorevoli eletti dal popolo (che secondo la Costituzione è sovrano) il diritto di decidere della vita o della morte di un esecutivo. Le annunciate novità hanno già fatto gridare allo scandalo la sinistra e la stampa progressista. Repubblica, tanto per dirne una, se ne è uscita con il solito titolo sobrio: «Le mani sulla Repubblica», non curandosi dell’equivoco fra la testata e l’istituzione. In realtà, sono almeno settant’anni che in questo Paese si discute di come rendere più stabili i governi ed evitare i ribaltoni tipici della nostra vita politica. Dunque, non si capisce perché ora la riforma debba suscitare allarme, se non per partito preso, o meglio perché i partiti che la propongono sono quelli di centrodestra. Per quanto mi riguarda, la penso come Indro Montanelli, che già nei primi anni Settanta si lamentava di una Costituzione che non aveva dato alcun potere all’esecutivo, esagerando invece con il Parlamento. Se proprio devo muovere una critica, mi spiace che per le novità sia prevista un’entrata in vigore fra cinque anni, cioè allo scadere del mandato di Sergio Mattarella. Pare che rendere operative le modifiche da subito sarebbe interpretato come un foglio di via al capo dello Stato. Ma il problema non sono le cortesie istituzionali nei confronti del Colle, bensì l’urgenza di avere un governo che governi senza essere minacciato con sgambetti e trabocchetti. Perciò, a prescindere dall’attuale inquilino del Quirinale, fossi in Giorgia Meloni io ci ripenserei e se la riforma sarà votata passerei all’incasso subito. Di certo, la stabilità del suo governo ne guadagnerà.
Emmanuel Macron (Getty Images). Nel riquadro Virginie Joron
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L'evento organizzato dal quotidiano La Verità per fare il punto sulle prospettive della transizione energetica. Sul palco con il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin, il ministro dell'Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, il presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana, il presidente di Ascopiave Nicola Cecconato, il direttore Ingegneria e realizzazione di Progetto Terna Maria Rosaria Guarniere, l'Head of Esg Stakeholders & Just Transition Enel Maria Cristina Papetti, il Group Head of Soutainability Business Integration Generali Leonardo Meoli, il Project Engineering Director Barilla Nicola Perizzolo, il Group Quality & Soutainability Director BF Spa Marzia Ravanelli, il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il presidente di Generalfinance, Boconi University Professor of Corporate Finance Maurizio Dallocchio.
Kim Jong-un (Getty Images)