True
2023-07-31
Dal porno alle scommesse: ecco gli imprenditori del calcio che resistono ai fondi stranieri
True
David Sullivan, proprietario del West Ham
La cessione del centrocampista Sandro Tonali alla squadra inglese del Newcastle per 80 milioni di euro ha aperto le porte del campionato italiano ai fondi illimitati degli sceicchi arabi. La squadra inglese a strisce bianco e nere, infatti, è di proprietà del Fondo di investimento pubblico PIf, di Ryad, con in pancia 320 miliardi di sterline. Ma non è l’unica in Premier League. Il campionato inglese resta infatti la competizione con la più alta percentuale di club di proprietà straniera, davanti alla Jupiler Pro League belga e alla Ligue1 francese. Oltre Manica, infatti, sono ben 15 su 20 le squadre di proprietà straniera, con gli Stati Uniti proprietari di ben nove club.
La Bundesliga tedesca non ha proprietà straniere, anche perché ancorata alla regola del 50+1: i club tedeschi premiano l’azionariato dei tifosi. La Serie A invece ha il 35% di proprietà straniere. Ma in Premier League ci sono anche delle particolarità. Il Nottingham Forrest è in mano a Evangelos Marinakis, armatore e imprenditore greco, proprietario del Capital Maritime Group, è tra i maggiori operatori al mondo nel campo delle navi cargo con un patrimonio da 505 milioni di euro. Di lui si era parlato anche per l’acquisto del Monza Calcio dopo la morte di Silvio Berlusconi. Per non parlare del Southampton, dove il proprietario è Sport Republic di Dragan Šolak, un uomo d'affari serbo, magnate delle comunicazioni. La squadra belga del Sint-Truidense V.V. è di proprietà del colosso giapponese di elettronica Dmm. E poi in Francia, dove il Nantes è di proprietà del polacco Waldemar Kita che è diventato ricco grazie alle lenti a contatto.
Ma c’è anche chi resiste, come David Sullivan, patron del West Ham United, storica squadra di Londra. Sullivan è un personaggio molto controverso in Inghilterra. Deve le sue fortune al business del mondo della pornografia, dove ha iniziato giovanissimo negli anni Sessanta e Settanta: periodo in cui il magnate del porno controllava metà del mercato delle riviste per adulti nel Regno Unito, tra cui i famosi Playbirds e Whitehouse. Vanta un patrimonio netto di 1,15 miliardi di sterline. La prima avventura di Sullivan nel calcio risale al 1993, quando acquistò il Birmingham City con David Gold e Ralph Gold. Nel 2010, Sullivan ha acquisito una quota del 50% nel West Ham insieme a David Gold. Il proprietario del West Ham ha resistito in questi anni alle sirene dei fondi esteri, anche se nel 2016 aveva promesso che avrebbe venduto la sua squadra solo al fondo di Pif di Mohammed Bin Salman. Manterrà la promessa? Ma di club inglesi con solo un proprietario c’è anche il Brentford di Matthew Benham o il Luton Town di David Wilkinson, imprenditori che hanno però patrimoni leggermente inferiori rispetto a quelli di Sullivan. Ma anche Benham è un personaggio molto particolare. Arrivato nel 2012, ha investito molto nel dipartimento di analisi del club, una decisione che si è rivelata di grande successo. È in pratica uno dei primi applicatori del Moneyballs, ovvero statistiche applicate al calcio, come sta cercando di fare Red Bird di Jerry Cardinale nel Milan in Italia.
Benham credeva che i giovani giocatori avessero bisogno di almeno 35 partite per dimostrare il loro valore, una filosofia che non era condivisa da altri club. Di conseguenza, il Brentford ha eliminato la sua accademia giovanile e ha fatto affidamento su una squadra B di ragazzi dai 17 ai 20 anni. La strategia ha dato i suoi frutti, poiché il Brentford è stato promosso dalla League One all'English League Championship nel 2014 e poi in Premier League nel 2021. Il Brentford è tornato nella massima serie del calcio inglese per la prima volta dal 1993 e ora ha un valore di oltre 400 milioni. Benham ha fondato Smartodds, una società di ricerca statistica per giocatori d'azzardo professionisti. È una sorta di sindacato delle scommesse che dà consulenze ai suoi clienti attraverso analisi, algoritmi e statistiche. Quando acquistò il Brentford pagò solo 700.000 sterline, ora vale quasi mezzo miliardo di euro. Insomma, anche a chi non è arabo conviene investire nel mondo del calcio.
Nel calcio i giocatori simbolo delle squadre servono sempre meno
È una storia difficile, complessa e dolorosa quella dei grandi giocatori di calcio diventati poi bandiere dei rispettivi club. Il licenziamento di Paolo Maldini, 23 stagioni con la stessa maglia, storico capitano del Milan, icona del tifo milanista e simbolo dell’ultimo scudetto, è purtroppo diventata una regola nella grande giostra del pallone. L’ex terzino, figlio di un altro grande simbolo rossonero come Cesare, è stato messo alla porta da Jerry Cardinale all’inizio di giugno. C’è chi sostiene che la risoluzione è stata consensuale. Che alla fine il proprietario americano avesse offerto a Maldini un ruolo da consulente togliendogli il ruolo di direttore tecnico, forse anche per il malumore interno alla società per il ruolo sempre più carismatico e centrale che aveva assunto.
C’è chi dice che il grande capitano milanista volesse avere ancora più poteri sul mercato, magari potendo disporre di un budget più cospicuo e volesse persino mettere in discussione l’allenatore Stefano Pioli, cambiandolo magari con l’ex compagno di squadra Andrea Pirlo o con l’ex mister di Tottenham e Inter Antonio Conte. Ora a decidere l’acquisto di nuovi giocatori sarà l’algoritmo di Moneyballs, tramite dati e statistiche, dove l’ultima parola sarà presa proprio da Pioli. Sono retroscena che spesso non trovano conferme, ma che danno bene la tara su quanto sia difficile far convivere passione e amore per la maglia, con i bilanci di una squadra di calcio nel 2023. Maldini non è che uno dei tanti giocatori simbolo di club calcistici finiti in mezzo a polemiche societarie, litigi, licenziamenti, sofferenze soprattutto per i tifosi che se un mese fa scrivevano su twitter #cardinaleout ora invece festeggiano un calciomercato sontuoso, con il Milan che ha già comprato 8 nuovi giocatori investendo più di 100 milioni di euro. Ora sarà il campo a decidere se Cardinale, e in particolare il suo scudiero Giorgio Furlani, hanno avuto ragione. Forse i giocatori simbolo nel calcio servono a poco?
Non è un caso che in molti club, invece, le cosiddette bandiere abbiano ruoli non operativi, restino solo dei simboli. Ne è un esempio Javier Zanetti, anche lui storico capitano nerazzurro, attuale vicepresidente dell’Inter che si appresta a disputare la finale di Champions League a Istanbul. A guidare l’area sportiva dei nerazzurri è Beppe Marotta, dirigente di grande esperienza con un passato tra Sampdoria e Juventus. Maldini l’aveva ripetuto spesso, se fosse tornato al Milan avrebbe voluto un ruolo di spessore, non certo quello di semplice figurina da mostrare ai tifosi. Ma così gira il pallone. Cosa dovrebbe dire Oliver Khan, portierone indimenticabile del Bayern Monaco (dal 1994 al 2008), fresco di vittoria dello scudetto all’ultima giornata in Bundesliga a danno degli storici rivali del Borussia Dortmund. È stato licenziato pochi giorni fa da amministratore delegato dei bavaresi nemmeno 24 ore dopo la conquista del titolo. E con lui è stato fatto fuori anche il direttore sportivo Hasan Salihamidzic, anche lui per dieci anni una colonna di uno dei Bayern Monaco più forti di tutti i tempi.
Sulle difficoltà di Francesco Totti di entrare nella dirigenza della Roma si è già scritto moltissimo. Come sono note le difficoltà di Alessandro Del Piero di conquistare una scrivania nell’amministrazione della Juventus, in questi giorni impegnata in una dura resa dei conti di famiglia tra John Elkann e Andrea Agnelli. Ma anche Gigi Buffon non avrebbe disdegnato un posto da dirigente dei bianconeri. Il Napolista, testata online che segue oneri e onori del Napoli, anni fa scrisse un pezzo che titolava così. «Totti, Maldini: una bandiera come dirigente vuol dire stipendiare Dorian Gray». E si ricordava anche il capo di Ottavio Bianchi, ex allenatore dello scudetto 86-87 che negli anni del post Maradona si era fatto dare una scrivania a Soccavo per cercare di risollevare le sorti dei biancazzurri, senza successo. «Il dirigente Bianchi aveva acquisito crediti sportivi, ma da amministrativo non aveva studiato. E si vedeva». È dura la vita dei simboli. A Liverpool Steven Gerrard non ha mai trovato spazio. Eppure proprio lui dopo il ritiro nel 2015 lo aveva chiesto espressamente. «Sarei rimasto come dirigente».
Anche al Real Madrid, che proprio Maldini aveva citato una volta in un’intervista come esempio dove le bandiere dei club di calcio riescono a convivere con le proprietà, Emilio Butragueno, storico 10 dei blancos, non ha avuto vita facile. Era entrato subito nella dirigenza del club nel 2001 come direttore generale, ormai a fine carriera, ma poi si era dimesso 5 anni dopo, nel 2006. Ora è ritornato come responsabile delle relazioni istituzionali. Non ha l’ultima parola sul mercato né mette becco sul nome dell’allenatore. È ormai una figurina che fa rinvangare bei ricordi ai tifosi. E un ruolo di questo tipo, Maldini, non lo avrebbe mai accettato.
Continua a leggereRiduci
Non ci sono solo arabi e americani nel mondo del calcio. L'inglese David Sullivan, patron del West Ham United, deve le sue fortune al business del mondo della pornografia mentre Matthew Benham che ha in mano il Brentford ha fatto la sua fortuna fornendo consulenza agli scommettitori.Due mesi fa dopo l'addio di Paolo Maldini, i tifosi del Milan protestavano contro la proprietà Red Bird per aver perso una storica bandiera. Ma ora dopo una campagna acquisti da più di 100 milioni di euro le proteste sono finite. Lo speciale contiene due articoli.La cessione del centrocampista Sandro Tonali alla squadra inglese del Newcastle per 80 milioni di euro ha aperto le porte del campionato italiano ai fondi illimitati degli sceicchi arabi. La squadra inglese a strisce bianco e nere, infatti, è di proprietà del Fondo di investimento pubblico PIf, di Ryad, con in pancia 320 miliardi di sterline. Ma non è l’unica in Premier League. Il campionato inglese resta infatti la competizione con la più alta percentuale di club di proprietà straniera, davanti alla Jupiler Pro League belga e alla Ligue1 francese. Oltre Manica, infatti, sono ben 15 su 20 le squadre di proprietà straniera, con gli Stati Uniti proprietari di ben nove club. La Bundesliga tedesca non ha proprietà straniere, anche perché ancorata alla regola del 50+1: i club tedeschi premiano l’azionariato dei tifosi. La Serie A invece ha il 35% di proprietà straniere. Ma in Premier League ci sono anche delle particolarità. Il Nottingham Forrest è in mano a Evangelos Marinakis, armatore e imprenditore greco, proprietario del Capital Maritime Group, è tra i maggiori operatori al mondo nel campo delle navi cargo con un patrimonio da 505 milioni di euro. Di lui si era parlato anche per l’acquisto del Monza Calcio dopo la morte di Silvio Berlusconi. Per non parlare del Southampton, dove il proprietario è Sport Republic di Dragan Šolak, un uomo d'affari serbo, magnate delle comunicazioni. La squadra belga del Sint-Truidense V.V. è di proprietà del colosso giapponese di elettronica Dmm. E poi in Francia, dove il Nantes è di proprietà del polacco Waldemar Kita che è diventato ricco grazie alle lenti a contatto. Ma c’è anche chi resiste, come David Sullivan, patron del West Ham United, storica squadra di Londra. Sullivan è un personaggio molto controverso in Inghilterra. Deve le sue fortune al business del mondo della pornografia, dove ha iniziato giovanissimo negli anni Sessanta e Settanta: periodo in cui il magnate del porno controllava metà del mercato delle riviste per adulti nel Regno Unito, tra cui i famosi Playbirds e Whitehouse. Vanta un patrimonio netto di 1,15 miliardi di sterline. La prima avventura di Sullivan nel calcio risale al 1993, quando acquistò il Birmingham City con David Gold e Ralph Gold. Nel 2010, Sullivan ha acquisito una quota del 50% nel West Ham insieme a David Gold. Il proprietario del West Ham ha resistito in questi anni alle sirene dei fondi esteri, anche se nel 2016 aveva promesso che avrebbe venduto la sua squadra solo al fondo di Pif di Mohammed Bin Salman. Manterrà la promessa? Ma di club inglesi con solo un proprietario c’è anche il Brentford di Matthew Benham o il Luton Town di David Wilkinson, imprenditori che hanno però patrimoni leggermente inferiori rispetto a quelli di Sullivan. Ma anche Benham è un personaggio molto particolare. Arrivato nel 2012, ha investito molto nel dipartimento di analisi del club, una decisione che si è rivelata di grande successo. È in pratica uno dei primi applicatori del Moneyballs, ovvero statistiche applicate al calcio, come sta cercando di fare Red Bird di Jerry Cardinale nel Milan in Italia. Benham credeva che i giovani giocatori avessero bisogno di almeno 35 partite per dimostrare il loro valore, una filosofia che non era condivisa da altri club. Di conseguenza, il Brentford ha eliminato la sua accademia giovanile e ha fatto affidamento su una squadra B di ragazzi dai 17 ai 20 anni. La strategia ha dato i suoi frutti, poiché il Brentford è stato promosso dalla League One all'English League Championship nel 2014 e poi in Premier League nel 2021. Il Brentford è tornato nella massima serie del calcio inglese per la prima volta dal 1993 e ora ha un valore di oltre 400 milioni. Benham ha fondato Smartodds, una società di ricerca statistica per giocatori d'azzardo professionisti. È una sorta di sindacato delle scommesse che dà consulenze ai suoi clienti attraverso analisi, algoritmi e statistiche. Quando acquistò il Brentford pagò solo 700.000 sterline, ora vale quasi mezzo miliardo di euro. Insomma, anche a chi non è arabo conviene investire nel mondo del calcio. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/porno-scommesse-imprenditori-calcio-resistono-2662595078.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="nel-calcio-i-giocatori-simbolo-delle-squadre-servono-sempre-meno" data-post-id="2662595078" data-published-at="1690712578" data-use-pagination="False"> Nel calcio i giocatori simbolo delle squadre servono sempre meno È una storia difficile, complessa e dolorosa quella dei grandi giocatori di calcio diventati poi bandiere dei rispettivi club. Il licenziamento di Paolo Maldini, 23 stagioni con la stessa maglia, storico capitano del Milan, icona del tifo milanista e simbolo dell’ultimo scudetto, è purtroppo diventata una regola nella grande giostra del pallone. L’ex terzino, figlio di un altro grande simbolo rossonero come Cesare, è stato messo alla porta da Jerry Cardinale all’inizio di giugno. C’è chi sostiene che la risoluzione è stata consensuale. Che alla fine il proprietario americano avesse offerto a Maldini un ruolo da consulente togliendogli il ruolo di direttore tecnico, forse anche per il malumore interno alla società per il ruolo sempre più carismatico e centrale che aveva assunto.C’è chi dice che il grande capitano milanista volesse avere ancora più poteri sul mercato, magari potendo disporre di un budget più cospicuo e volesse persino mettere in discussione l’allenatore Stefano Pioli, cambiandolo magari con l’ex compagno di squadra Andrea Pirlo o con l’ex mister di Tottenham e Inter Antonio Conte. Ora a decidere l’acquisto di nuovi giocatori sarà l’algoritmo di Moneyballs, tramite dati e statistiche, dove l’ultima parola sarà presa proprio da Pioli. Sono retroscena che spesso non trovano conferme, ma che danno bene la tara su quanto sia difficile far convivere passione e amore per la maglia, con i bilanci di una squadra di calcio nel 2023. Maldini non è che uno dei tanti giocatori simbolo di club calcistici finiti in mezzo a polemiche societarie, litigi, licenziamenti, sofferenze soprattutto per i tifosi che se un mese fa scrivevano su twitter #cardinaleout ora invece festeggiano un calciomercato sontuoso, con il Milan che ha già comprato 8 nuovi giocatori investendo più di 100 milioni di euro. Ora sarà il campo a decidere se Cardinale, e in particolare il suo scudiero Giorgio Furlani, hanno avuto ragione. Forse i giocatori simbolo nel calcio servono a poco?Non è un caso che in molti club, invece, le cosiddette bandiere abbiano ruoli non operativi, restino solo dei simboli. Ne è un esempio Javier Zanetti, anche lui storico capitano nerazzurro, attuale vicepresidente dell’Inter che si appresta a disputare la finale di Champions League a Istanbul. A guidare l’area sportiva dei nerazzurri è Beppe Marotta, dirigente di grande esperienza con un passato tra Sampdoria e Juventus. Maldini l’aveva ripetuto spesso, se fosse tornato al Milan avrebbe voluto un ruolo di spessore, non certo quello di semplice figurina da mostrare ai tifosi. Ma così gira il pallone. Cosa dovrebbe dire Oliver Khan, portierone indimenticabile del Bayern Monaco (dal 1994 al 2008), fresco di vittoria dello scudetto all’ultima giornata in Bundesliga a danno degli storici rivali del Borussia Dortmund. È stato licenziato pochi giorni fa da amministratore delegato dei bavaresi nemmeno 24 ore dopo la conquista del titolo. E con lui è stato fatto fuori anche il direttore sportivo Hasan Salihamidzic, anche lui per dieci anni una colonna di uno dei Bayern Monaco più forti di tutti i tempi.Sulle difficoltà di Francesco Totti di entrare nella dirigenza della Roma si è già scritto moltissimo. Come sono note le difficoltà di Alessandro Del Piero di conquistare una scrivania nell’amministrazione della Juventus, in questi giorni impegnata in una dura resa dei conti di famiglia tra John Elkann e Andrea Agnelli. Ma anche Gigi Buffon non avrebbe disdegnato un posto da dirigente dei bianconeri. Il Napolista, testata online che segue oneri e onori del Napoli, anni fa scrisse un pezzo che titolava così. «Totti, Maldini: una bandiera come dirigente vuol dire stipendiare Dorian Gray». E si ricordava anche il capo di Ottavio Bianchi, ex allenatore dello scudetto 86-87 che negli anni del post Maradona si era fatto dare una scrivania a Soccavo per cercare di risollevare le sorti dei biancazzurri, senza successo. «Il dirigente Bianchi aveva acquisito crediti sportivi, ma da amministrativo non aveva studiato. E si vedeva». È dura la vita dei simboli. A Liverpool Steven Gerrard non ha mai trovato spazio. Eppure proprio lui dopo il ritiro nel 2015 lo aveva chiesto espressamente. «Sarei rimasto come dirigente».Anche al Real Madrid, che proprio Maldini aveva citato una volta in un’intervista come esempio dove le bandiere dei club di calcio riescono a convivere con le proprietà, Emilio Butragueno, storico 10 dei blancos, non ha avuto vita facile. Era entrato subito nella dirigenza del club nel 2001 come direttore generale, ormai a fine carriera, ma poi si era dimesso 5 anni dopo, nel 2006. Ora è ritornato come responsabile delle relazioni istituzionali. Non ha l’ultima parola sul mercato né mette becco sul nome dell’allenatore. È ormai una figurina che fa rinvangare bei ricordi ai tifosi. E un ruolo di questo tipo, Maldini, non lo avrebbe mai accettato.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
Continua a leggereRiduci
Getty Images
Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
Continua a leggereRiduci
Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
Continua a leggereRiduci