2023-01-18
Politically correct fuori moda con Armani
Re Giorgio, a Milano, è andato controcorrente con una sfilata di vestiti eleganti e con cinque coppie finali formate da uomini e donne «Basta trasgressioni, torno al classico», ha detto. Rimettendo ordine nell’armadio. E suggerendo di mettere a posto anche la testa.«Forzare sul brutto, forzare sullo strano non mi appartiene». Uno non fa in tempo a convincersi che il sales manager maschio deve indossare la gonna a pieghe in cda, il webmaster baffuto la pelliccetta fucsia in ufficio e la professoressa di matematica un sacco di juta (ma griffato) in classe, che arriva Giorgio Armani in una mattina d’inverno e ribalta tutto. Uno trascorre mesi di training autogeno per fare propria la tremenda moda woke in nome dell’asessualità e dell’inclusione genderfluid, e quando gli sembra di essere a buon punto compare l’icona più abbronzata del made in Italy a buttare tutto nel cassonetto con una frase: «Basta trasgressioni, io torno al classico».È bello scoprire che il ragazzino capace di dire al mondo della moda che «il re è nudo» ha 88 anni. Giovanissimo e modernissimo, da sempre lucido nel fotografare la realtà della società oltre le narrazioni plastificate di potenti minoranze infinitesimali, Armani fa sfilare uomini che somigliano a uomini accompagnati da donne che somigliano a donne. E chiude l’happening milanese «Uomo 2023-2024» con cinque coppie stupende in abito da sera che si tengono per mano guardandosi negli occhi in chiave retrò sulle melodie di Ludovico Einaudi. Poi deliziosamente binario fa di più. Lo spiega.«La mia collezione parla di un uomo e una donna che si amano e si vogliono bene. Facciamo vedere questa realtà che piace a tutti. Poi ci sono le trasgressioni e le varianti moderne dell’amore, che naturalmente vanno bene, ma ho voluto tenerle in disparte per regalare l’immagine di una coppia carina e gentile. Ho immaginato una donna che si faceva elegante per uscire con il suo uomo, anch’egli curato, perché pure nel tempo libero ci vuole dignità d’abito». Questa, sul fronte del plissè, si chiama restaurazione. E non è solo moda, è politica.L’elogio della gentilezza è una leggiadra spallata al conformismo del melting pot, all’uomo ridicolo in longuette celebrato fino all’altroieri da tutti - ma proprio da tutti - nel silenzio complice dei media. È la via della soffitta per gli imbarazzanti happening stile Alessandro Michele, una Wanda Osiris del fashion trasformata in una sorta di Gesù laico dal mainstream mediatico genuflesso davanti a ripetitive esibizioni tardo-felliniane.Le sfilate erano inguardabili, gli abiti una fiera paesana del trash, bisognava mettersi le mani sulla bocca per non ridere. Sombreri rossi e boa di struzzo per elettricisti palestrati, pianoforti di alcantara in tinello, ragionieri con calzino e tacco a spillo. Reazioni dei guru redazionali: gridolini, applausi e tartine vegane. Nessuno osava dire nulla per non sembrare reazionario e soprattutto per salvare i budget pubblicitari (funziona così da 40 anni).Poi è arrivato Armani in versione Clint Eastwood. Dev’essersi fatto delle gran risate allestendo la sfilata classica, quindi maledettamente controcorrente, e soprattutto preparando la conferenza stampa. Eccolo di nuovo a provocare le nouveau bourgeois gauchiste. «La mia è la volontà di riprendere il classico in termini moderni. L’uomo della finanza non può andare in giro con un cappotto di finta tigre ma deve avere un look preciso, anche se con una forma nuova che rassicura. A me non piace vedere uno con la camiciaccia andare a una riunione importante dove, per esempio, si decide il futuro del prezzo della benzina».Rimettendo a posto l’armadio, re Giorgio sembra consigliare di rimettere a posto la testa. «Nelle foto d’epoca si vedono scrittori e artisti che portavano giacche colorate, seduti nelle poltrone dei salotti, nelle case di grande rispetto. Occorre più dolcezza nei rapporti. E occorre valorizzare i colori della natura, dai quali non mi staccherò mai».Parlare di punto di svolta è fuori luogo. Non siamo a Valle Giulia il giorno in cui, leggendo su un muro dell’università «Macché Lenin/ macché Ingrao/ è Falcao/ il nostro Mao», si intuì che il tempo della contestazione era finito. Difficile scardinare il fricchettonismo californian-capalbiese al potere nel cinema e nei riflessi condizionati delle élite culturali. In più, quasi spaventato dalle sue stesse parole e dagli sguardi terrorizzati di chi le stava ascoltando, Armani ha tenuto a precisare che «vestirsi bene non significa essere conservatori». Ma l’esplicita scelta di campo del grande sarto (mai aveva parlato così chiaro) è un sonoro schiaffone allo stupidario modernista fine a se stesso, perché vale più una sua giacca destrutturata di un intero festival woke presentato da Michela Murgia.Non sarà un punto di svolta ma è una consolazione, un sospiro di sollievo per chi ritiene che equilibrio e dignità si possano trovare anche dentro un guardaroba. Con un sussulto finale. Sui colli dei ragazzi eleganti di Armani compare un oggetto sconosciuto che provoca un moto di sincera commozione nei meno giovani. Ci ricorda qualcosa di famigliare, dolcemente borghese e perduto nella furia smutandata dell’orrida rivoluzione unisex. Una volta si chiamava cravatta.