2021-07-01
I tecnocrati vogliono «resettare» l’uomo
La politica che si affida agli algoritmi ritiene l'essere umano obsoleto. Il suo obiettivo è nascondere il potere che tira i fili sulla scacchiera del mondo. E sancisce l'incompatibilità con chi è invece indirizzato a soddisfare una pluralità di bisogni. La tecnocrazia, recita asciuttamente l'Enciclopedia Garzanti, è un «sistema politico fondato sulla gestione del potere da parte degli esperti e dei tecnici delle varie discipline». A ben vedere è un concetto acefalo, un calembour autologico dove gli strumenti (la tecnica, i tecnici) di un'attività (kratos, il potere) diventano di quest'ultima gli autori e finiscono così per rappresentarla senza un soggetto, dadaisticamente appesa a sé stessa. La tecnocrazia è uno sterzo che guida, una scarpa che corre, ultimamente una scienza che parla, è la misera licenza della miseria progressista, di un cammino (gressus) che si dice proiettato in avanti (pro) senza però darsi la pena di distinguere il davanti dal dietro, l'alto dal basso, la tecnica di Hiroshima da quella di Fleming.Gli inganni del governo tecnico si svelano nei sottintesi che tacciono. Siccome non può darsi un atto senza un autore, chi finge che spetti al pilota decidere la meta del viaggio promuove da un lato la finzione corollaria e quadratica del «pilota automatico» e da lì governo degli algoritmi in cui l'umano è obsoleto, dall'altro consegue l'unico obiettivo plausibile di nascondere le umanissime dita che tirano i fili del timone «intelligente». Il tecnocrate è letteralmente il Turco, il robot scacchista creato nel Settecento da Wolfgang von Kempelen per stupire un pubblico così ottusamente fiducioso nei prodigi della tecnica da non sospettare che le braccia dell'automa erano in realtà mosse da un giocatore in carne ossa alloggiato al suo interno, sotto uno strato di ingranaggi messi a casaccio. Da allora non è cambiato davvero nulla, sennonché oggi la scacchiera è il mondo, le pedine i suoi popoli.La tecnocrazia è insomma un'aristocrazia abscondita i cui ottimati non decretano nei consessi pubblici ma muovono gli arti di un golem che si promette senza passioni né peccato, zampettando come topi nel suo ventre buio e facendosi schermo dei meccanismi volutamente contraddittori e barocchi di ciò che chiamano diritto, economia, scienza. Sicché non è difficile comprendere che qualsiasi forma di governo partecipato o anche solo indirizzato a soddisfare una pluralità di bisogni non è compatibile con la tecnocrazia. Ne è piuttosto la vittima designata, fin dall'inizio, come lo sono coloro che hanno salutato nel progresso tecnoscientifico la via maestra dell'emancipazione degli ultimi.Eppure la rappresentanza popolare regge almeno in effige, si svuota ma non tramonta, certamente per meglio dissimulare le mosse dello scacchista occulto incartandole nei fogli bollati della democrazia o di altri poteri riconosciuti. È interessante osservare i modi di questo asservimento. La metafora più calzante è quella della «digitalizzazione» che indica insieme una tecnologia sviluppata negli ultimi decenni e una concezione antica di cui le macchinette elettroniche sono l'utensile sinora più recente. Il digitale (dall'inglese digit, «cifra») estende il riduzionismo matematico galileiano dalle realtà naturali a quelle umane e sociali e quindi a tutto, potendosi raffigurare tutto (in inglese, figure è ancora «cifra») inanellando sequenze numeriche (byte). È il trionfo del «regno della quantità» di René Guénon dove esiste solo ciò che si può misurare e prezzare, un regno però lontanissimo dall'essere materialista, perché il numero sta ai numerabili come l'idea sta alle cose e delle cose viola la proprietà fondamentale, che è il limite. Mentre i numeri possono dividersi e moltiplicarsi all'infinito, le cose sono bloccate in basso dall'indivisibilità delle loro particelle minime (l'atomo, in greco, è ciò «che non si può tagliare»), in alto dalla loro scarsità naturale. Sicché la digitocrazia è innanzitutto la forma propria del capitalismo e della finanza, che per realizzare la moltiplicazione illimitata dell'utile monetario agganciano lo sfruttamento senza limiti degli uomini e della natura, fino alla spoliazione.Come tutte le innovazioni, anche la declinazione elettronica dell'habitus digitale è il parto di un pensiero vecchio che cerca strumenti più affilati per tradursi in opera e annunciare nelle cose un modello destinato agli uomini e alla società. La digitocrazia contemporanea si specchia nell'informatica e nella telematica per attingervi non soltanto i mezzi, ma prima la visione e lo stile. Immagina le comunità come macchine da programmare, dischi vergini su cui far «girare» le istruzioni della norma giuridica, e i decisori pubblici come onnipotenti admin di sistema che possono accedere a tutti i file, anche i più critici e delicati, per sovrascrivere consuetudini, mentalità, diritti e costituzioni con la bacchetta magica di un click. L'affondo del silicio nella carne produce ferite e sepsi. Costretta nel dominio piatto del numerismo, la complessità reagisce con l'eccezione e il disordine, oppone all'eleganza dei flow chart l'irripetibilità dei caratteri, delle biografie e dei bisogni di ciascuno. Da qui, dall'ostinazione con cui la materia viva sfugge agli algoritmi morti, nasce la rabbia che informa il pensare e l'agire politico dei nostri giorni, la foga di escogitare sanzioni sempre più sproporzionate e severe, la ricerca dei soggetti indisciplinati o anche solo pensanti a cui addebitare il fallimento del programma con l'obiettivo di isolarli e sopprimerli, come i malware che infestano il pc. Al resistere degli usi e delle coscienze, il decisore-programmatore prende a pugni la macchina infedele, la scuote accecato dall'ira e non si fa scrupolo di rimuovere ogni cosa che si frapponga tra il comando e la sua esecuzione, anche la più consolidata, anche quella fino al giorno prima più sacra. Esasperato dagli insuccessi si lascerà infine tentare dalla soluzione più radicale: la riformattazione, il reset, il «grande reset», avendo cura di non lasciare backup.Colpisce il fatto che anche chi deplora gli effetti di questo paradigma ne accetti l'impostazione, finendo così per rinforzarlo. La visione politica master-slave attribuisce un ruolo bulimico e spropositato al vertice programmante e crea così la convinzione che nulla possa accadere se non nelle «stanze dei bottoni», nei supremi consessi decisionali a cui occorre perciò rivolgere ogni attenzione e ogni sforzo. Le ricadute concrete delle decisioni, prese o mancate, sono un dettaglio grossolano che il «cittadino informato» allontana da sé con fastidio: preferisce invece strologare su dichiarazioni e tabulati di voto, audizioni, regolamenti, clausole, interpretazioni, emendamenti, equilibri, tattiche e compromessi, corroborato in ciò da un altrimenti inaccessibile archivio di informazioni e commenti offerti dalla rete internet. In aggiunta, i social creano l'illusione di poter conoscere la «vera» personalità, i «veri» obiettivi e i segreti rovelli di chi abita i palazzi, confondendone vieppiù gli atti nei fumenti del gossip e della psicologia d'accatto. Tutti presi dal come e irretiti dal techinicorum degli Abbondi massmediatici e parlamentari, nessuno si cura del cosa, dei frutti da cui solo si deve giudicare l'albero. La politica dell'evo tecnocratico muore dei travestimenti tecnici degli «esperti», ma anche della tecnica di sé.La politica, diceva Rino Formica, è sangue e merda, è la somma di tutte le forze e di tutte le violenze, visibili e invisibili, lecite e illecite. Se gli omini con la valigetta o con la corona (è uguale) recidono i legami con la società restano soli e i loro palazzi diventano trappole dove banchettano i predatori antisociali del lobbismo e delle congreghe. Come nell'epoca di maggior gloria dei «nudi dati» e della scienza si registrano le più grossolane ingiurie al metodo di Galileo e alla coerenza aritmetica, così la pretesa centralità dei palazzi vorrebbe imporsi proprio nel momento della loro debolezza massima, mentre si fa strame di regole e sovranità. È difficile non vedere anche in queste contraddizioni il tentativo dei contemporanei di stendere un velo matematico sul caos, di trovare nell'algoritmo una disciplina e un senso che lo distolga dallo spettro dell'irrazionalità che monta.
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