2023-12-21
C’è un «patriarcato» che non indigna: quello degli immigrati
Le femministe hanno ignorato il processo per la morte di Saman. Se si parla di stranieri tollerano persino la violenza maschile.Non si sono viste manifestazioni oceaniche di fronte al tribunale di Reggio Emilia, dove i giudici scandivano le condanne all’ergastolo e a quattordici anni di reclusione per i genitori e lo zio di Saman Abbas, uccisa a 18 anni perché rifiutava il matrimonio imposto dalla famiglia. Le transfemministe rabbiose che settimane fa hanno preso d’assalto la sede di Pro vita non si sono certo presentate con la stessa aggressività davanti all’ambasciata pakistana per pretendere chissà quali gesti contro la violenza sulle donne. Tutti coloro che avevano affettato commozione per il discorso di Gino Cecchettin e che si sono affannati a cercare nelle viscere dell’omicida Filippo Turetta i residui del patriarcato ieri sono rimasti in silenzio di fronte a una delle più brutali manifestazioni mai viste della logica tribale e femminicida.Intendiamoci: le editorialiste mica hanno smesso di ragionare sulla violenza maschile. Proprio ieri, sulla Stampa, Fabrizia Giuliani sosteneva che «chiamare le cose per nome è necessario, vuol dire smettere di coprire o ridimensionare le responsabilità reali». E spiegava: «Il conflitto sanguinoso che segna il tramonto del patriarcato, la risposta violenta alla “rivoluzione pacifica” delle donne è governata solo dalla legge del possesso: da questa acquisizione non dovremmo tornare indietro, dovremmo invece fissarla, nel senso comune e nelle azioni di contrasto che devono essere aggiornate, implementate, verificate e sostenute a ogni livello».Molto bene, obiettivi persino condivisibili. Ma il caso di Saman, in tutto questo, dove rientra? Eppure dovrebbe essere un caso da manuale di violenza patriarcale, giusto per restare nel recinto degli stereotipi costruito dal neofemminismo. Viene allora il sospetto che la provenienza geografica e l’etnia giochino un ruolo in questo nascondimento ipocrita. È molto difficile, dopo tutto, parlare dell’omicidio di Saman senza tirarne in ballo la causa prima, e cioè l’immigrazione incontrollata. La famiglia Abbas è giunta dal Pakistan e non ne ha mai abbandonato i più oscuri vizi culturali, che per altro si sono spesso manifestati drammaticamente anche in altre realtà italiane. Quella famiglia ha vissuto isolata nelle campagne reggiane, a Novellara, lavorando duramente e forse per pochi denari, mantenendo vive le ancestrali usanze rurali della terra d’origine.Fra gli osteggiatori del patriarcato c’è chi sia disposto ad ammetterlo? A sostenere che aprendo a tutti i confini ci si porti in casa gente che non ha la nostra stessa cognizione del diritto e del rispetto dell’altro? A giudicare dalle reazioni, pare proprio di no. L’indignazione, di questi tempi, la si può rivolgere verso i maschi e la loro «brutalità congenita». Ma se quei maschi sono stranieri – e dunque appartengono a una minoranza per definizione «discriminata» – il discorso cambia, ed entrano in gioco perverse forme di comprensione, subdoli tentativi di giustificazione. Non lo ammetteranno mai, ma in troppi si fanno sfiorare dal pensiero terribile: «C’è poco da fare, è la loro cultura».Non c’è integrazione che tenga, a queste condizioni. La famiglia di Saman lavorava, pare onestamente. Ma aveva ricreato una sorta di microcosmo arcaico, impenetrabile. E ha applicato le stesse logiche ferine che avrebbe applicato in patria. Troppo comodo, a queste condizioni, accanirsi sulla «violenza maschile». Perché serve soltanto a oscurare il nodo centrale della vicenda, e trascura un dettaglio di non poco conto. La madre di Saman, che è ancora latitante in Pakistan, ha svolto un ruolo determinante nel massacro. Ha rassicurato la figlia impaurita, l’ha attirata di nuovo a casa con l’inganno, invece di proteggerla o di lasciarla libera l’ha spinta fra gli artigli dei carnefici. E adesso se ne sta altrove, del tutto incurante, apparentemente non pentita. Del resto non sembra particolarmente sconvolto neppure il padre della giovane ammazzata: insiste ad affastellare scuse, piagnucola e mendica la pietà che non ha concesso.Che fine fanno, dunque, i ragli isterici sul patriarcato e sull’oppressione maschile? E che fine hanno fatto in tutti gli altri delitti legati allo scontro di culture? Si sono affievoliti fino a sparire, ecco la verità. Non per nulla ci sono perfino femministe pronte a sostenere che non si debba usare la scusa dei «diritti delle donne» per biasimare le minoranze, perché si sarebbe razzisti. Non stupisce, alla fine dei conti: è facile combattere il patriarcato immaginario. Un po’ meno prendersela contro i carnefici veri, specie se importati.
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.