Renzo Arbore (Ansa)
Il maestro della tv ripercorre la sua gloriosa carriera di conduttore, ricca di aneddoti, nel libro-intervista «Mettetevi comodi»: «Il Cavaliere mi voleva con sé e disse: “Scrivi tu la cifra”. Ma ero un figlioccio della Rai. Baudo tornò a viale Mazzini grazie a me».
In molti hanno tentato di imitare il suo stile. Nessuno, tuttavia, l’ha mai eguagliato. Con fantasia iperbolica Renzo Arbore ha de-istituzionalizzato il tradizionale varietà della Rai inventando una televisione diversa con ritmi, personaggi, canzonette esilaranti e paradossi che facevano riflettere, divertivano e dissacravano. Figlio di un medico dentista che l’incoraggiò a laurearsi in Legge, ha smascherato ipocrisie con eleganza, gentilezza e garbo difendendo sempre la propria libertà. Il jazz, basato sull’improvvisazione creativa, è la sua universale fonte ispiratrice. È appena uscito Mettetevi comodi (ed. Fuoriscena), eccellente libro-intervista con il maestro della tv scritto dal giornalista del Messaggero Andrea Scarpa.
A Foggia sta nascendo «casa Arbore».
«I lavori sono molto avanzati e con i miei architetti, Cappellini e Licheri, gli stessi di Indietro tutta! e di altre mie trasmissioni, stiamo iniziando con l’arredamento. Sarà uno spazio culturale su tre piani nell’ex-liceo scientifico in viale Di Vittorio, dove studiò Gegé Telesforo. Ci saranno posti per piccoli gruppi che potranno suonare ed esercitarsi, una stanza dedicata alle proiezioni, le televisioni per vedere le mie cose perché la Rai mi ha donato tutto il mio repertorio e io l’ho donato alla Rai senza pretendere nulla, quindi uno scambio culturale».
Andiamo agli anni ’90, quelli dell’Orchestra italiana…
«Per me sono stati quelli più belli perché ho conosciuto non solo il successo discografico internazionale ma ho anche cantato sul posto, dall’Australia alla Cina, dal Giappone all’ex Unione sovietica, Nord e Sudamerica, Olympia di Parigi, Rio de Janeiro... Con noi, dovunque andavamo, c’era un regista straordinario che ha filmato tutto, il dietro le quinte, gli arrivi, Rio, il giro di New York nei pullman a due piani promuovendo il concerto… Sto preparando questo materiale per un’eventuale utilizzazione in Rai».
Con Luciano De Crescenzo vi conosceste nel 1967 e scopriste di essere insieme con la stessa ragazza che vi tradiva entrambi. Come lo ricorda?
«Luciano era il primo in tutte le cose che faceva. È stato un grande ingegnere, il primo a utilizzare il computer, lavorava all’Ibm, ha venduto 18 milioni di libri in tutto il mondo, invidiatissimo dagli scrittori napoletani, campione di motonautica, regista e attore. E grande fotografo, ha fatto il bellissimo La Napoli di Bellavista. Quando abbiamo fatto F.F.S.S. (1983, ndr.) la città era vista male, non andava nessun turista, persino i napoletani parlavano male della loro città che per la verità era molto disordinata. A Roma ci siamo incaponiti per fare un film che risolvesse l’immagine di Napoli dandole una chance, noi chiamavamo la scianza, cosa poi avvenuta. Ciampi ci fece un G7 e oggi la città è piena di turisti dall’Italia e dall’estero».
Già dal 1965, in radio, con Boncompagni, creaste la categoria dei giovani…
«È proprio questo. Quando ero giovane ero trattato da ragazzo, il Corriere della Sera faceva il Corriere dei piccoli e poi il Corriere dei ragazzi. Da ragazzi si diventava subito uomini. Con i primi pantaloni lunghi uno era autorizzato a essere uomo, adulto. Con Boncompagni, a Bandiera gialla, abbiamo istituzionalizzato la categoria dei giovani. Quindi il programma era addirittura vietato, perché si scherzava, ai maggiori di 18. Nacquero i teenager e la moda beat. Gli anni dal 1965 al ’72-’73, prima che iniziassero quelli di piombo, furono bellissimi e i giovani coccolati…».
Osserva Roberto D’Agostino, uno dei personaggi di Quelli della notte: «Arbore, mettendo in scena la commedia dell’arte in tv, ha sgangherato e sbeffeggiato la Rai di quegli anni, seriosa e pedagogica, attraverso una baraonda di personaggi (…) in linea orizzontale, non più “l’ecco a voi”». Dopo 40 anni lei come lo legge il suo programma cult?
«Senza volere, noi abbiamo inventato una nuova maniera, anzi la vera maniera di fare il varietà televisivo, perché prima il varietà era quello di Falqui, cioè scritto, codificato, approvato e recitato. Quelli della notte è diventato una specie di modello per tante cose televisive in seguito, ma non è stato eguagliato perché la conversazione strampalata che facevano noi non è stata fatta più».
Nel 1977 Silvio Berlusconi era agli inizi con Telemilano 58, lei al secondo anno dell’Altra domenica. Una cena a Milano con lui e altri, in un ristorante sui Navigli, fu una gara di barzellette tra voi due…
«Certo, confermo. Però devo dire che Berlusconi mi ha contattato ripetutamente quando avevo grande successo dicendomi: “Se proprio non vuoi tradire la Rai dammi almeno dei consigli”. Gli dissi: “Devi fare una televisione diversa da quella della Rai”. E lui mi ha detto “no, io la devo fare uguale”. Gli ho dato qualche ideuzza, sì e più avanti ci siamo incontrati, ma lui è andato per la sua strada, vabbé…».
Poi, nel 1985, al ristorante Giannino di Milano, il futuro premier la chiamò in disparte e le presentò un assegno in bianco per passare da lui…
«Lui disse: “Metti tu la cifra”».
Sua risposta?
«Interpretai la cosa come una gag. Io mi reputo figlioccio della Rai perché sono l’unico della mia generazione che non l’ha mai tradita. Non faccio alcun nome ma gli altri, tutti, hanno avuto il momento di Berlusconi, sono andati da lui, anche miei amici intimi. Alcuni sono tornati indietro, però ci sono andati… Io in Rai sono rimasto sempre. Anche perché la Rai mi lasciava libero e io, un po’ fuori ordinanza… È vero che mi hanno anche levato dei programmi eccetera, ma non volevo un, come si dice, “padrone”. Certamente una grande personalità come quella di Berlusconi mi avrebbe influenzato nelle scelte artistiche perché la tv commerciale aveva e ha anche regole diverse da quelle della Rai».
Aiutò Baudo a rientrare in Rai dopo l’esperienza fallimentare a Mediaset?
«È la verità. Quando fu mandato via, in Rai non lo volevano più. Lui avrebbe voluto tornare. Mi diceva l’allora direttore della Rai, Biagio Agnes, “piuttosto Raffaella Carrà ma non Pippo Baudo”. Vidi Pippo disperato e insistetti. Poi Biagio raccontò che un’anziana incontrata al cimitero gli disse: “Perché non lo riprende?”. La verità è che fui io a convincerlo».
Anni prima con Pippo andaste insieme a far visita a Padre Pio.
«Sì, a San Giovanni Rotondo, andai tre volte, di cui una con Pippo. Padre Pio gli chiese: “Sei venuto per fede o per curiosità?”. Lui rispose “più per curiosità”. E allora Padre Pio gli disse “vattenne”».
Nel libro sostiene che nella tv di oggi prevale l’«isteria del politicamente corretto». Ritiene possibile che qualcuno possa realizzare un programma controcorrente come i suoi?
«No, perché poi c’è la regola dell’auditel che è un dittatore assoluto. Non c’è più il gradimento, difficilissimo che una cosa rivoluzionaria possa essere fatta. Quindi la vedo dura. C’è stato qualche esperimento poi subito crollato».
Idea memorabile e paradossale quella delle «ragazze coccodè» a Indietro tutta!, alludente alla strumentalizzazione della donna. Reazioni dei movimenti femministi?
«Non ci furono reazioni perché si capì che era una satira contro le “ragazze bingo”, usate dagli sponsor per la pubblicità anche in Rai, per esempio a Fantastico. Facemmo una satira di quella televisione, uno sponsor finto - il cacao meravigliao - la “ruotona della fortunona”, Marenco che faceva il bambino perché Boncompagni aveva preso un bambino a Domenica in, insomma tutto ciò che poteva essere contro la dittatura dell’auditel».
Regista del Pap’occhio, che fece scandalo. Nella trama papa Wojtyla vede la sua réclame della birra e la invita, con la squadra dell’Altra domenica, a fare la tv del Vaticano… Milly Carlucci «suorina buonasera».
«Volevo dire che, per la prima volta, si poteva cercare di scherzare su una cosa assolutamente proibita. Non c’erano imitatori della voce del Papa. Volevo dire che, con gusto, si poteva scherzare almeno sul catechismo imparato a scuola. Il film fu poi sdoganato dall’Opus Dei che lo giudicò “ecumenico”».
Karol Wojtyla interpretato da Manfred Freyberger, altoatesino, incredibilmente somigliante.
«Era così somigliante che quando giravamo il film, nella Reggia di Caserta, una suora lo vide e svenne…».
Giovanni Paolo II vide il film?
«No, penso che il Papa proprio no. Però un cardinale molto in vista mi disse: “Non si preoccupi che noi ci siamo divertiti”».
Nel libro si dichiara credente, «cattolico apostolico foggiano».
«(sorride) Io, come diceva De Crescenzo, sono sperante. Voglio innanzitutto dire che sono ossequioso a tutti i comandamenti della religione cattolica. Alcuni mi sono particolarmente cari, come ama il prossimo tuo come te stesso. Quindi confermo gli insegnamenti di quando frequentavo la mia parrocchia a Foggia. Ho visto che non vanno contestati e sono giusti».
Le capita di partecipare a qualche funzione religiosa?
«Qualche volta sì, ma soprattutto ho rapporti personali con i miei santi…».
Con qualcuno in particolare?
«Io sono devoto ai santi della sanità, santissimi Cosma e Damiano».
La sua casa è gremita di oggetti di ogni tipo. Qualcuno, affettivamente, le è più caro?
«L’orologio di mio padre, il corno di corallo di Totò che mi regalò la figlia e altri che mi sono stati rubati. Adesso rimango legato a qualche giocattolo della mia infanzia…».
Tipo?
«I soldatini di piombo, i soldatini famosi di allora. Ho 88 anni e allora si giocava con queste cose, gli ascari».
Ce l’ha ancora la scatola di carne di coccodrillo?
«Sì, ma l’ho dovuta ricomprare perché quella che avevo se l’era mangiata un mio amico di Bologna».
Dove l’ha scovata?
«Sono cittadino onorario di New Orleans, dove sono andato varie volte. A Cape Canaveral ho comprato persino il cibo dell’astronauta, ma non mangio queste cose perché m’incuriosisce tenerle».
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2025-12-25
Il calcio ipotecato: così fondi e banche hanno messo le mani sul futuro dei club
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Mentre i tifosi guardano il campo, il futuro del pallone si gioca su altri tavoli lontano dai riflettori. Fondi e banche finanziano stadi e mercato, ma incassano oggi su ricavi di domani. Il denaro arriva subito. Il peso delle scelte resta a chi deve poi sostenerle.
Il vero vincitore della trasformazione finanziaria del calcio europeo non scende in campo. Non indossa una maglia. E non porta un numero sul retro. Non sta in panchina. Non festeggia sotto la curva. Perché ormai nel mondo del pallone moderno il vincitore è sempre di più il capitale che presta, struttura e garantisce. Sono i fondi di credito privato e gli intermediari finanziari che monetizzano il tempo, l’urgenza e la volatilità di un’industria sempre più ossessionata dal risultato immediato.
Mentre i tifosi discutono di moduli e acquisti, su quotidiani sportivi sempre più sdraiati, i i club di tutta Europa si stanno riconfigurando come asset finanziari complessi. Il calcio resta spettacolo. Ma diventa anche una catena di flussi di cassa futuri già promessi. I bilanci assomigliano sempre meno a quelli di società sportive tradizionali e sempre più a quelli di aziende altamente indebitate, con ricavi stagionali, costi rigidi e un bisogno costante di liquidità.
Il debito non è più un incidente. È diventato una strategia. Serve a finanziare stadi e infrastrutture. Serve a sostenere il capitale circolante. Serve a stabilizzare ricavi che dipendono da una qualificazione europea, da un sorteggio favorevole, da un infortunio evitato. La banca commerciale arretra. Il fondo specializzato avanza. Accetta più rischio. Pretende più garanzie. Incassa rendimenti più alti.
Dentro questo passaggio c’è una figura che resta spesso invisibile. L’advisor. La banca d’affari. Il consulente che struttura l’operazione, valuta gli asset, imposta le garanzie, mette in contatto club e capitale. È qui che la partita diventa asimmetrica. Perché l’advisor viene pagato quando l’operazione si chiude. Non quando il modello regge nel tempo.
Il primo esempio è Barcellona. Tra il 2022 e il 2023 il club attiva le cosiddette “leve finanziarie” per oltre 800 milioni di euro. Vende circa il 25 per cento dei diritti televisivi della Liga per 25 anni, incassando poco più di 500 milioni. Cede quasi la metà di Barça Studios per altri 200 milioni. Ottiene cassa immediata per iscriversi ai campionati, registrare giocatori, sostenere il mercato. In cambio rinuncia a una parte rilevante dei ricavi futuri. Gli advisor incassano commissioni subito. Il costo reale emerge solo nel tempo.
Poi arriva lo stadio. Il progetto Espai Barça vale circa 1,5 miliardi di euro. Nel 2023 una parte del debito viene ristrutturata con un’emissione obbligazionaria da 424 milioni, a un tasso medio superiore al 5 per cento e con rimborsi rinviati negli anni. Il club compra tempo. Il mercato applaude. Il rischio resta concentrato sulla capacità di generare ricavi extra per decenni.
Il secondo esempio è il Real Madrid. La ristrutturazione del Bernabéu viene finanziata con una struttura di project finance che cresce nel tempo. Il primo prestito, nel 2019, vale 575 milioni di euro. Nel 2021 viene aumentato di altri 225 milioni. Nel 2023 la linea complessiva arriva a circa 1,17 miliardi. I rimborsi iniziano nella stagione 2023-24. A metà 2025 il debito residuo supera ancora 1,1 miliardi. L’operazione è solida solo se lo stadio produce flussi continui da eventi, hospitality e utilizzo non calcistico. Le banche d’affari svolgono più ruoli. Strutturano il debito. Lo collocano. Incassano commissioni. Il rischio sportivo resta in capo al club.
Il terzo esempio è Tottenham. Il nuovo stadio costa circa 1,2 miliardi di sterline. Nel 2021 il club rifinanzia una parte rilevante del debito con un collocamento istituzionale da 250 milioni. La durata media supera i vent’anni. Una tranche arriva a trent’anni, con scadenza nel 2051. L’operazione riduce la pressione di breve periodo e allinea il debito alla vita dell’infrastruttura. Gli advisor chiudono il deal. Il club resta obbligato a massimizzare ogni giorno l’utilizzo commerciale dello stadio.
Il quarto esempio è Inter ed è il più rivelatore. Nel 2021 il club ottiene un finanziamento da circa 275 milioni di euro, con un costo complessivo che supera il 12 per cento annuo. La garanzia è la holding di controllo. Nel 2024 il rimborso complessivo, tra capitale e interessi, arriva a circa 395 milioni. Il pagamento non viene effettuato. Il creditore escute la garanzia e prende il controllo del club. Advisor legali e finanziari avevano certificato la sostenibilità dell’operazione tre anni prima. Le parcelle erano già state pagate. La proprietà cambia. Il tifoso scopre che il debito non era solo una leva, ma una porta.
Il quinto esempio è il Manchester United. A metà 2025 il club dichiara oltre 165 milioni di sterline di debiti a breve termine, contro poco più di 35 milioni un anno prima. A questi si sommano più di 500 milioni di debito a lungo termine legato a vecchie emissioni obbligazionarie. Le linee di credito servono a coprire il capitale circolante. I costi finanziari crescono. Le grandi banche d’affari seguono il dossier come consulenti per una possibile vendita, come finanziatori e come analisti. Ogni ruolo genera valore per l’intermediario. Nessuno dipende dai risultati sportivi.
Il sesto esempio riguarda la fascia più fragile del sistema. Club di medio-bassa classifica inglese ricorrono a prestiti da 70–80 milioni di sterline, con tassi che arrivano all’8 o 9 per cento annuo. Le garanzie includono stadi e immobili. Il finanziamento serve a restare competitivi. Se arriva la retrocessione, i ricavi crollano. Il fondo resta protetto. Il club entra in difficoltà. L’advisor ha già chiuso l’operazione.
In questo quadro le banche d’affari non sono semplici spettatrici. Sono architetti del sistema. Creano strumenti su misura per un’industria che vive di reputazione e aspettative. Spesso consigliano lo stesso club su più fronti. Ristrutturazione del debito. Ricerca di investitori. Valutazione degli asset. Ogni passaggio genera parcelle che, anche su percentuali minime, valgono milioni. Il movimento è premiato più della stabilità.
Il regolatore osserva e rincorre. Le nuove regole UEFA stanno provando a limitare la spesa per salari e cartellini in rapporto ai ricavi. Ma non entrano nel merito della qualità del debito. Non distinguono tra investimenti e rincorsa sportiva. Non guardano al ruolo degli intermediari. Il sistema resta legale. Non sempre resta sano.
Le conseguenze sul mercato sono evidenti. I trasferimenti diventano strumenti finanziari. I contratti si allungano per diluire i costi. Le plusvalenze diventano ossigeno contabile. I giovani diventano asset liquidi. Le scelte sportive rispondono sempre più spesso a vincoli scritti nei contratti di finanziamento, non solo alle idee dell’allenatore.
Cambia anche l’identità dei club. Lo stadio non è più solo casa. È una garanzia. I diritti televisivi non sono più solo ricavi. Sono promesse anticipate. La maglia non è più solo simbolo. È una linea di business da valorizzare. Il tifoso percepisce il cambiamento quando il prezzo sale, quando l’orario cambia, quando il club parla più il linguaggio degli investitori che quello della città.
Alla fine la domanda è semplice solo in apparenza. Questo modello rende il calcio più solido o solo più dipendente dal capitale che lo finanzia? Quando il debito serve a costruire infrastrutture che producono ricavi stabili, il sistema regge. Quando serve a inseguire risultati immediati, il rischio viene solo spostato in avanti.
In questa partita silenziosa, mentre l’attenzione resta sul campo, una cosa è già chiara. I fondi che prestano e i consulenti che strutturano hanno già vinto. Incassano prima. Incassano comunque. Tutti gli altri, club compresi, giocano a credito. E nel calcio, come nella finanza, il credito non è mai neutrale. Decide chi comanda quando il risultato non basta più.
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In alto a sinistra una «Rettungsboje» tedesca. Sotto, la boa Asr-10 inglese e i rispettivi esplosi
Durante la guerra aerea dell'estate 1940 sulla Manica, la Luftwaffe realizzò scafi galleggianti per salvare i preziosissimi aviatori in caso di ammaraggio. Ancorate in punti strategici del Canale d'Inghilterra, le boe salvarono numerose vite. Anche gli inglesi ne realizzarono esemplari simili.
Nei mesi della Battaglia di Inghilterra, iniziata nel luglio 1940 dopo la rapida caduta della Francia, la guerra aerea fu l’essenza della strategia da entrambe le parti. La Luftwaffe, con i suoi 2.500 velivoli in condizioni operative, superò inizialmente la Royal Air Force, che in quel periodo iniziò un enorme sforzo industriale per cercare di ridurre il «gap» numerico e tecnologico (nacquero in quel periodo i fortissimi caccia Hawker «Hurricane» e Supermarine «Spitfire» che saranno decisivi per l’esito finale della battaglia). Se le fabbriche sfornavano centinaia di velivoli al mese (i tedeschi con i Messerschmitt Bf 109, gli Heinkel 111 e i Dornier Do17), i comandi delle due aviazioni non potevano formare altrettanti piloti in così poco tempo, rendendo la figura dell’aviatore un bene preziosissimo da preservare il più possibile viste le ingenti perdite in battaglia. Un aspetto così delicato in un momento così drammatico per l’esito della guerra fu affrontato per primo dagli alti comandi della Luftwaffe. La necessità era quella di salvare il più alto numero di equipaggi in un teatro di operazioni principalmente localizzato nello specchio di mare della Manica, sopra il quale nel picco dei combattimenti dell’agosto 1940 volavano quotidianamente oltre 1.500 aerei.
La soluzione per il salvataggio degli aviatori in caso di ammaraggio con sopravvissuti venne da un ex asso della Grande Guerra, il generale di squadra aerea Ernst Udet. L’ufficiale, secondo solamente al «Barone Rosso» Manfred von Richtofen per numero di abbattimenti, era stato da poco nominato responsabile per la logistica e gli appalti della forza aerea del Terzo Reich. Fu nel picco delle operazioni dell’estate 1940 che Udet sviluppò la sua idea: una boa «abitabile», posizionata nei tratti di mare statisticamente più soggetti agli ammaraggi e ancorata al fondale. I piloti potevano leggerne la posizione sulle carte aeronautiche in dotazione. Di forma esagonale, la «Rettungsboje» (letteralmente boa di soccorso) aveva una superficie abitabile di 4 metri quadrati. Lo scafo aveva un’altezza di 2.5 metri ed era sovrastato da una torretta finestrata di ulteriori 1,8 metri. Verniciata in giallo, presentava una visibile croce rossa (standard della Convenzione di Ginevra) sui lati della torretta. All’interno dello scafo potevano trovare alloggio sicuro quattro aviatori, con due cuccette a castello ancorate alla struttura per rimanere stabili nel mare agitato. Riscaldata da una stufa ad alcool, la boa offriva razioni d’emergenza e acqua ma anche cognac, sigarette e carte da gioco. Negli armadi erano presenti il kit di primo soccorso ed abiti asciutti, mentre le comunicazioni erano fornite da una radio ricetrasmittente. All’interno c’erano anche una pompa per eventuali falle e un canotto per raggiungere i soccorsi una volta giunti nei pressi della boa. Completavano l’equipaggiamento razzi di segnalazione e una macchina per i fumogeni di emergenza. Il personale ospitato dalle boe poteva resistere protetto dall’ipotermia e dai marosi anche per una settimana nell’attesa che un idrovolante di soccorso o una nave li raggiungesse.
Circa 50 furono le «Rettungsbuoje» dislocate nella Manica, contribuendo al salvataggio di un numero imprecisato di aviatori. Gli inglesi realizzarono un mezzo simile nello stesso periodo, seppure molto differente nella forma. La boa ASR-10 (Air Sea Rescue Float) assomigliava molto ad un motoscafo, seppur priva di propulsore. Era studiata per facilitare l’accesso da parte dei naufraghi in balia delle onde, con la poppa digradante verso l’acqua. L’equipaggiamento era molto simile a quello della boa tedesca. Dipinta in rosso e arancio vivaci, fu realizzata in 16 esemplari ancorati nel braccio di mare tra Inghilterra e Francia tra il 1940 ed il 1941. Oggi un esemplare è conservato presso lo Scottish Maritime Museum.
Le boe tedesche, dopo la fine della Battaglia di Inghilterra, furono spostate presso le Channel Islands, il piccolo arcipelago occupato temporaneamente dai tedeschi e utilizzate come punti di vedetta o di difesa dopo essere state munite di una mitragliatrice. A causa della loro vulnerabilità furono quasi tutte affondate dagli aerei della Raf. Un esemplare recuperato nel 2020 dopo essere rimasto per decenni arenato e insabbiato a Terschelling nelle isole Frisone occidentali è conservato al «Bunkermuseum» dell’isola olandese.
Ernst Udet, dopo l’esito infausto della Battaglia d’Inghilterra per la Luftwaffe, già in preda all’alcolismo cadde in depressione. Si tolse la vita a Berlino il 17 novembre 1941, forse anche per le conseguenze della pressione psicologica che Hermann Göring esercitò sull’ufficiale dell’aeronautica addossandogli la responsabilità della sconfitta.
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Appaiono sempre più spesso sul manto stradale, creano dossi artificiali che costringono a rallentare. Ma non sempre è così, talvolta possono risultare persino pericolosi.
Con molta probabilità anche chi legge è già incappato nei nuovi dossi in gomma presenti nelle nostre strade: una macchia scura in mezzo alla strada, un sobbalzo improvviso e, ad andar bene, soltanto uno spavento. Una delle ultime mode in fatto di dispositivi per rallentare il traffico sono i cosiddetti cuscini berlinesi. Si chiamano così perché adottati nella capitale tedesca, ma si tratta di dossi dalla pendenza limitata che, per dimensioni, sono tali da costringere le auto a rallentare. Ma al tempo stesso non sono sufficientemente larghi per costituire un ostacolo per moto, ambulanze e mezzi di soccorso in genere.
Stanno comparendo in diverse città italiane, graditi soprattutto alle giunte di centro sinistra e in particolare ai fanatici delle zone con limitazione di traffico a 30kmh. Basta una nottata e grazie a una serie di tasselli inseriti nell’asfalto l’installazione è fatta. Tutto bello? Non proprio: a ben guardare la normativa riguardante tale soluzione è Incompleta, poiché In Italia non sono previsti nel dettaglio dal Codice della Strada e questo rende la loro adozione più complicata sul pano della burocrazia. In pratica, per ora la loro installazione avviene solo tramite sperimentazione autorizzata dal Ministero dei Trasporti. Ci sono poi alcune questioni tecniche: andrebbero installati soltanto sulle strade con bassa densità di traffico e, appunto, laddove il limite è già 30 km/h, e questo giocoforza li rende una soluzione praticabile soltanto in alcune zone. Inoltre, i cuscini berlinesi devono essere posizionati a una distanza tale da curve e incroci per permettere ai veicoli più grandi di potersi raddrizzare completamente dopo aver effettuato la svolta prima di valicarli. Il peggio però è altro: se chi è distratto da aver superato di poco il limite, finendoci sopra rischia di danneggiare la vettura e ciò accadrà ancora di più se essa è poco rialzata da terra. Ma se la distrazione o le condizioni psicofisiche del conducente sono alterate al punto che egli non si sta rendendo conto della sua velocità, e questa è elevata, egli può facilmente perdere il controllo, ad andare bene finendo per sbattere contro altri mezzi, peggio finendo per travolgere delle persone. E non mancano neppure i problemi di manutenzione, poiché nel tempo si usurano a causa delle pressioni ma anche dell’irraggiamento solare e degli sbalzi di temperatura. Laddove sono stati applicati in modo diffuso è in Francia e nel Regno Unito, nazioni che ne hanno definito le specifiche riprendendo a loro volta quelle tedesche. Il Dipartimento per i trasporti del Regno Unito già nel 1984 aveva fissato la pendenza massima degli elementi al 12,5% per le rampe longitudinali di ingresso e di uscita dai cuscini, ed il rapporto del 25% per le rampe trasversali laterali. Stando a quanto si trova online, la Francia prevede rampe longitudinali con pendenze molto più elevate: le rampe devono essere lunghe 20 cm per cuscini alti 5 cm (con una pendenza del 25%), 25 cm per cuscini alti 7 cm (con una pendenza del 28%). Rampe così ripide devono essere adottate con cautela: indagini condotte dal Dipartimento dei trasporti britannico hanno mostrato che, con rampe longitudinali dalla pendenza maggiore del 17%, i veicoli rischiavano di toccare il con il fondo riportando seri danni: dalla distruzione dell’impianto di scarico fino alla rottura della coppa dell’olio con annesso sversamento del fluido e inquinamento. Di conseguenza essi devono essere particolarmente ben segnalati – tipicamente con verniciature gialle – ma anche tale caratteristica tende ovviamente a degradarsi con il tempo. E stante il livello di manutenzione delle nostre strade è facile prevedere che dovremo confidare nell’attenzione di chi guida e nell’illuminazione pubblica. Una delle questioni è anche come gli automobilisti reagiscono quando si accorgono in ritardo della loro presenza: frenate improvvise e repentine deviazioni di traiettoria sono all’ordine del giorno. Stando ai dati raccolti dalle municipalità che in Europa li stanno utilizzando da tempo la velocità media di superamento dei cuscini berlinesi di è di poco superiore ai 22 km/h per larghezze di 1,9 metri, mentre sale a 30 km/h per quelli più stretti, che quindi provocano nei conducenti meno apprensione per l’impatto sotto gli pneumatici. E di conseguenza illudono che l’effetto di un attraversamento accelerato sia inferiore. Invece il botto è garantito. Pur sapendo che taluni lettori non saranno d’accordo, chi scrive pensa che la sicurezza (stradale in primis), nasca dalla cultura della consapevolezza e non dalle costrizioni. E che più una strada è sgombra, più ridotto è il rischio di fare incidenti.
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