2024-09-18
La diversità cara al Papa non c’entra con Dio
Per Bergoglio, le altre fedi sono una ricchezza voluta dal Signore. Così contraddice a teologia e predecessori. È più forte di lui. Quando c’è da parlare di culture o tradizioni diverse da quella cristiana, e in particolare cattolica, papa Francesco deve mettere al centro la diversità come ricchezza, il diverso da noi come fonte di ispirazione, ciò che non è cattolico (che tra l’altro significa «universale») come qualcosa dal quale dobbiamo farci profondamente interpellare, porre in questione. Dai e dai, a suon di interpellarsi, di mettersi in questione di fronte al diverso da noi, alla fine, faremo come le pastiglie effervescenti: esse si sciolgono nell’acqua, noi ci scioglieremo negli altri. E fin qui è papa Bergoglio e lo conosciamo. D’altra parte, Papa hanno eletto lui e la Chiesa la guida lui. Ma fuori dal dogma, come è noto, si può discutere anche di ciò che un Papa dice. Le fila di coloro che si allontanano dalla Chiesa bergogliana - come è altrettanto noto - si stanno ingrossando. L’ultima occasione in cui si è distinto è stata durante un videomessaggio che ha inviato al «Med24 - Pellegrini di speranza. Costruttori di pace». Quarta tappa dagli incontri del Mediterraneo a Tirana dopo gli appuntamenti di Bari, Firenze e Marsiglia. E fin qui, per carità, nulla da dire. L’affermazione che ci ha colpito profondamente è la seguente: e cioè che la diversità delle tradizioni è «una ricchezza voluta da Dio». Onestamente, pur essendoci esercitati nello studio della teologia per qualche annetto, che la diversità delle tradizioni fosse voluta direttamente da Dio non lo sapevamo. Sapevamo che Dio onnipotente aveva in qualche modo limitato la sua onnipotenza creando l’uomo e lasciandolo libero di scegliere tra il bene e il male, e di compiere tutte le altre scelte libere nella sua vita, evidentemente comprendendo anche la religione. Ci sfuggiva che, specificamente, Dio avesse voluto questa diversità. Sapevamo che un rapporto particolarissimo lo avevamo con la religione ebraica, tanto è vero che Giovanni Paolo II, in una visita alla sinagoga di Roma, definì gli ebrei «i nostri fratelli maggiori» o, come li definì Benedetto XVI «i nostri padri nella fede». Questo sapevamo e sappiamo. Dio ha voluto il popolo di Israele come progenitore della Chiesa cattolica e prima ancora di Gesù Cristo nonché della sua ebraicità, vissuto in un ambiente ebraico come i primi discepoli. Ci sfuggiva il fatto che avesse voluto deliberatamente il proliferare di tutte le altre religioni ma, evidentemente, Papa Bergoglio ha delle informazioni che a noi sfuggono. Non si capisce perché uno, per essere aperto all’altro, debba in qualche modo annullarsi nell’altro stesso. Cioè, cercare i punti di contatto e, trovatili, renderli più importanti dei suoi contenuti. Come avrebbe detto Martin Buber, filosofo ebreo del Novecento, nel volume Io- Tu (Ich-Du), l’«io» si completa nell’altro ma in quanto permane «io», non perché si annulla nel tu o, come ha detto recentemente sempre il nostro Papa, «bisogna smetterla di dire io e bisogna cominciare a dire noi». Non bisogna cominciare a smettere di dire un bel nulla. Bisogna dire «io» e bisogna dire «noi» riferendoci, ovviamente, alla persona nel caso dell’io, e alla comunità nel caso del noi. La comunità non è fatta dalla comunità, che in sé non esiste, ma è fatta dai tanti «io» che la compongono. Tra l’altro, il concetto di persona ha una delle sue radici fondamentali proprio all’interno della tradizione cattolica quando, dovendo la teologia cattolica stessa definire la Trinità, l’ha fatto affermando che è «una sostanza in tre persone» (una substantia tres personae). Nel concetto di persona, e quindi dell’io, c’è compreso anche il suo aspetto sociale, cioè il noi, ma il noi per i cattolici non può annullare l’io della persona. Per quanto riguarda poi le religioni diverse da quella cristiana che sarebbero volute direttamente da Dio, a parte quella ebraica, nutriamo una qualche perplessità. Un teologo francese, Jacques Dupuis, scrisse, circa vent’anni fa, un volume intitolato Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso. Allora era papa Giovanni Paolo II e prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede era il teologo Card. Joseph Ratzinger. A proposito di questo libro, fu scritta una Notificazione del 24 gennaio 2001 e pubblicata sull’Osservatore Romano del 26-27 febbraio 2001, giusto per essere precisi. Tra le altre osservazioni critiche che venivano fatte a quel volume del teologo francese ce n’era una che sosteneva che «è dunque legittimo sostenere che lo Spirito santo opera la salvezza dei non cristiani anche mediante quegli elementi di verità e di bontà presenti nelle varie religioni; ma non ha alcun fondamento nella teologia cattolica ritenere queste religioni, considerate come tali, vie di salvezza, anche perché in esse sono presenti lacune, insufficienze ed errori, che riguardano le verità fondamentali su Dio, l’uomo e il mondo». Ora, come è affermato nei testi sacri della Bibbia, le vie di Dio non sono le vie dell’uomo e sono imperscrutabili per cui, certamente, né noi né il Papa possiamo affermare alcunché sui pensieri di Dio circa la salvezza degli uomini. Ci atteniamo a un documento ufficiale del Vaticano che non è esattamente in linea con quanto detto da papa Bergoglio. Le altre tradizioni religiose saranno anche un qualcosa voluto da Dio, ma in questo documento si dice esplicitamente che il confronto con le altre religioni non può significare lo scioglimento in esse del nostro patrimonio culturale e teologico.