2024-01-14
Ancora caos sulle benedizioni gay: «Alle persone, non ai gruppi Lgbt»
San Giovanni in Laterano, 13 gennaio 2024. Il Papa e il cardinale vicario di Roma Angelo De Donatis durante l'incontro con il clero (Ansa)
Il Papa incontra a San Giovanni il clero, che lo incalza su «Fiducia Supplicans»: «A un imprenditore non chiedereste se ruba». Poi twitta contro l’ideologia gender: «I nuovi diritti? Colonizzazione ideologica».Benediciamo «le persone, non le organizzazioni. Se viene l’associazione Lgbt no, le persone invece sempre». È l’ordine con cui Francesco, incontrando il clero e i diaconi di Roma nella Basilica di San Giovanni, ieri ha aggiunto nuovi ingredienti al pasticcio di Fiducia Supplicans. Guarito in un baleno dalla bronchite di venerdì, ha risposto al quesito di un sacerdote: come ci dobbiamo comportare con le coppie gay? Benedire le persone, «forse» come coppie. Ma «non il peccato». L’esempio chiarificatore si poteva evitare: «Quando benediciamo un imprenditore», ha detto Jorge Mario Bergoglio, «non ci chiediamo se ha rubato». Sorvoliamo sul pregiudizio del capitalista sospetto predone. Al netto dei luoghi comuni socialisteggianti, resta una differenza sostanziale: l’imprenditore non va a farsi benedire in quanto tale; la coppia gay, sì. Perciò, è arduo fugare l’impressione che il gesto, ancorché «pastorale» e non «liturgico», equivalga alla legittimazione di uno stato oggettivo di peccato. Il prefetto della Fede, monsignor Víctor Manuel Fernández, continua a negarlo. Francesco sostiene che i tanti che «sono sbalorditi» semplicemente «non hanno letto bene» e avrebbero bisogno di «un buon ascolto». Ma com’è possibile benedire un’unione senza perciò stesso approvarla? D’altronde, se il sacerdote deve esortare la coppia a vivere conformemente al Vangelo, non sta egli proponendo di rompere il vincolo che al contempo benedice? E cosa c’entrerebbe l’Arcigay con tutto questo?Quanto alla dispensa concessa all’episcopato africano, che sarà libero di ignorare la Dichiarazione dell’ex Sant’Uffizio, il Pontefice ha sposato la spiegazione di Tucho: nel continente nero, «la cultura non lo accetta». È il paradosso del Papa terzomondista, che si ritrova ad adottare il punto di vista paternalistico delle élite libdem occidentali.L’altro cortocircuito è che un uomo accusato di comportarsi da populista, di scavalcare le strutture vaticane per concentrare su di sé i poteri e coltivare un rapporto carismatico tra sé e la gente, sta perdendo il contatto con il suo popolo. E i suoi pastori. Perciò, fiutando il clima di tensione, a cinque anni dall’ultimo raduno, ieri mattina il Papa è tornato in mezzo ai sacerdoti della Capitale. Sempre più a disagio per le sbandate dottrinali della Santa Sede.Il punto è che il cardinale Fernández scrive documenti, diffonde note illustrative, si lascia intervistare sui media di mezzo mondo. Ma poi, nelle parrocchie, ci sono loro: i preti. Talora privi persino di indicazioni definitive da parte dei vescovi, che a loro volta si trovano in imbarazzo, confusi. E specie in una metropoli, non è infrequente che bussino in sacrestia dei trans desiderosi di diventare madrine di battesimo, oppure due coniugi dello stesso sesso, che si saranno convinti di poter mimare una sorta di rito matrimoniale in chiesa, col placet di Santa Marta. Al Laterano, ieri, non c’erano organi di stampa. Qualche telecamera, al massimo. E, accanto al Pontefice, il cardinale vicario, Angelo De Donatis. Nonostante i timori della vigilia, non si sono viste sedie vuote né vibranti contestazioni. Domande scomode, quelle sì.Qualcuna di colore: un ministro del culto ha confessato di essersi sentito «offeso» poiché, anni fa, il Papa aveva dato dello «scemo» a Gesù. Fu un discorso sopra le righe: Francesco descriveva il comportamento di Cristo con l’adultera, la donna che gli ebrei ligi alla Legge volevano lapidare. Il Figlio di Dio, invece, si premura di non umiliarla, «fa un po’ lo scemo, lascia passare il tempo, scrive», notò nel 2016 il Papa.Ieri, lo avrà colto il sospetto che il clero romano si sia trattenuto? Magari, intimidito dalla presenza dei vertici del Vicariato e dei vescovi ausiliari? Non è un caso se, al termine dell’evento, il Pontefice ha esortato i sacerdoti ad annotare l’indirizzo email dei suoi segretari. In privato, si sentiranno più liberi di sollecitarlo. Ad ogni modo, non ha evitato gli argomenti scottanti. Tipo le divisioni interne alla Chiesa. Ha deplorato le «rigidità» (tradotto: il sacrosanto attaccamento alla dottrina); ha rimproverato gli «ultras che non si inseriscono nell’armonia» (ovvero, considerano il Magistero e la Tradizione più importanti delle idee di un singolo Papa); ha manifestato preoccupazione per la perdita del «senso ecclesiale» (la sinodalità è buona quando la si può ritorcere contro gli avversari). Però ha aggiunto che i conflitti non vanno «nascosti», bensì «gestiti». Cosa intenda s’era intuito già lunedì scorso, quando Bergoglio ha pronunciato una dura reprimenda contro l’ideologia gender e l’utero in affitto. Lo sforzo, un po’ goffo, di sembrare equanimi, deve aver indotto pure monsignor Fernández, nel colloquio dell’altro giorno con l’agenzia spagnola Efe, ad anticipare l’uscita di «un documento molto importante sulla dignità umana, che non include solamente i temi sociali, ma anche una forte critica alle questioni morali come il cambio di sesso, la maternità surrogata, le ideologie gender». Più che un intervento in difesa di quelli che Benedetto XVI chiamava «valori non negoziabili», la sensazione è che sarà un testo tattico. Pensato, ha ammesso Tucho, per «tranquillizzare» le «persone più preoccupate». Le quali, ieri, avranno letto un tweet sul profilo del Papa: «La pace esige il rispetto della Dichiarazione universale dei diritti umani. I tentativi di introdurre nuovi diritti, non sempre accettabili, producono colonizzazioni ideologiche che provocano divisioni anziché favorire la pace, come nel caso della teoria del gender». Un colpo al cerchio e uno alla botte. Quelli «preoccupati» faranno i finti tonti?
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)