
Matteo Salvini, ormai onnivoro, ha prevalso anche su Luigi Di Maio. Grazie alla complicità dei dem che si sono dissolti con Matteo Renzi, il giglio magico e lo squadrone di donne prime della classe.Forse non ce ne rendiamo conto, ma il sistema politico e istituzionale italiano sta cambiando alla velocità della luce. Sino a ieri eravamo una democrazia parlamentare che si basava su una dialettica fra partititi diversi, con tutti i vantaggi e gli svantaggi del caso, ma adesso abbiamo imboccato una strada diversa, molto pericolosa. Questa ci porterà ad assomigliare a un regime con un solo partito e soprattutto con un solo leader. In pratica una dittatura della Lega e di Matteo Salvini, il capo leghista che si propone di diventare il padrone d'Italia. E sta raccogliendo un consenso impetuoso e inaspettato che cresce di giorno in giorno. So bene che questa non è l'opinione della Verità, ma il Bestiario è sempre stato uno spazio tanto libero da sembrare anarchico, scritto da un bastian contrario come il vecchio Pansa. E spero che anche questa volta la direzione del giornale mi consentirà di mettere nero su bianco in che modo la penso. E quali siano i fatti che mi spingono a prevedere quanto accadrà. Il primo di questi fatti sta sotto gli occhi di tutti: il premier Giuseppe Conte è soltanto una comparsa, un avvocato di provincia con troppi amici, ma senza esperienza politica e tanto meno il polso adatto a tenere insieme una nazione difficile come l'Italia. Gli erano stati affiancati due vice: il grillino Luigi Di Maio e il leghista Salvini. Dovevano essere una coppia paritaria, ma non è andata così. Il giovane Di Maio si è rivelato una nullità parolaia. E su di lui ha prevalso il roccioso leader della Lega. Salvini ha 45 anni, l'età giusta per un politico che si proponga la scalata al cielo. Non credo che avesse deciso di diventare il protagonista dell'attuale stagione fin troppo carica di problemi, tutti pesanti e diversi. Ma non sempre gli esseri umani sono consapevoli del futuro che li attende. I più svelti approfittano delle circostanze e da quel momento diventano invincibili. È quanto sta accadendo a Salvini. Leggo che la gente lo chiama «il Capitano». In Europa molti lo ritengono il vero capo del governo italiano. Mi capita spesso di essere interpellato da giornalisti stranieri. E parecchi di loro si stupiscono che il premier sia un certo avvocato Conte e non lui. Un collega tedesco mi ha confessato: «Salvini mi ricorda un signore che si chiamava Adolf Hitler. Speriamo che il suo percorso non sia quello del capo nazista».Anch'io lo spero, ma vedo troppi segnali che mi allarmano. Il primo potrà sembrare futile, ma in questo inizio dell'estate 2018 non può essere sottovalutato. Salvini ha già vinto una prima battaglia: quella della popolarità sui media. Si parla soltanto di lui nella carta stampata, su Internet, sui maledetti social e in tutte le trasmissioni televisive che si occupano di politica. Inoltre larghi strati di opinione pubblica, parlo degli italiani che non badano soltanto al proprio privato, tifano per lui. E sembrano destinati ad aumentare. Per un motivo che sta sotto i nostri occhi: Salvini è l'unico politico italiano che mostri di sapere in quale modo affrontare la nuova ondata di migranti che tentano di approdare in Italia. È la cosiddetta invasione, che forse non lo è, però a molti lo sembra. Perché il Capitano leghista sta vincendo e continuerà a farlo? Perché non incontra nessuno che si opponga alla sua marcia vittoriosa. Un solo soggetto potrebbe riuscirci: la sinistra italiana. Ma questo soggetto non esiste più oppure è ridotto talmente male da sembrare un fantasma. L'epoca di Matteo Renzi, il Bullo, si è conclusa nel modo peggiore, con la distruzione del Partito democratico. Che cosa rimane dell'impero del Bullo? Soltanto i suoi sproloqui su Facebook. Non ci ricordiamo neppure della Maria Elena Boschi, la maliarda della Leopolda, e meno che mai dei sopravvissuti minori del Cerchio magico renzista, come il Luca Lotti, già ministro dello Sport, se non vado errato. A guidare quanto resta del Pd c'è il cosiddetto segretario reggente, il povero Maurizio Martina, sempre più solo e scheletrico, con l'aria del bravo figlio di famiglia, scaraventato in una guerra che lo nausea e non ha voglia di combattere. Dei capi storici meglio non parlare. Pier Luigi Bersani si è fatto un suo micropartito di cui non si hanno notizie. Massimo D'Alema pare abbia traslocato nella parrocchietta di Liberi e uguali, inventata da Pietro Grasso, già presidente del Senato. Graziano Delrio ogni tanto rompe il silenzio, di solito urlando e senza molto costrutto. Matteo Richetti, già portavoce del Bullo, è scomparso. Di lui restano soltanto le vecchie comparsate televisive. Piero Fassino, sempre più ridotto pelle e ossa, è ormai lo spettro di sé stesso. Dario Franceschini è disperso in quel di Ferrara. Luigi Zanda, che quando era il capo del gruppo dem al Senato aveva la forza di esternare sei volte al giorno, adesso non parla più. Sarà diventato muto? Il Pd si vantava di avere uno squadrone di donne imbattibili. Ho già ricordato la Boschi che nel tempo dei suoi successi ispirava libri cortigiani neanche fosse Greta Garbo. Ma non posso dimenticare Valeria Fedeli, Marianna Madia, Roberta Pinotti, Paola De Michelis, Alessia Morani, Deborah Serracchiani e tante altre prime della classe. Ma di loro oggi non si sente più parlare. Resistono invece, grazie al potere che hanno conquistato in territori importanti, una serie di presidenti regionali: Sergio Chiamparino in Piemonte, Stefano Bonaccini in Emilia Romagna, Enrico Rossi (ora Leu) in Toscana, Nicola Zingaretti nel Lazio, Michele Emiliano in Puglia, Vincenzo De Luca in Campania. Ma nell'Italia del 2018 la loro notorietà è uguale a zero e tutti risultano dei pigmei se confrontati con Salvini il Padreterno leghista. Per concludere, il Pd ha sofferto una strage di classe dirigente. E al Nazareno riuscirà molto difficile crearne una nuova. Al momento c'è un solo big che resiste sulla scena: Carlo Calenda. Dice cose sensate, parla in modo chiaro, sembra avere dei propositi intelligenti. Ma per i superstiti del Pd è un signor nessuno. Potrebbe diventare un concorrente e dunque va tenuto alla larga da un partito che lui ha descritto con un'immagine al vetriolo: «Sembra una classe di terza media che si è ridotta a litigare tutti i giorni». E credo che nello stesso isolamento verrà tenuto Marco Minniti. Con il centro sinistra era stato un ottimo ministro dell'Interno. E dentro il suo partito credo che sia l'unico a sapere come affrontare la tragedia epocale dei migranti. Ma nessuno dei suoi compagni lo affianca. Qualunque parrocchia vorrebbe disporre di un esperto come lui. Ma il guaio sta nel manico, avrebbe detto mia nonna: il Pd è uno sciame di fantasmi che si aggira nel Palazzo. Dunque dobbiamo rassegnarci agli ordini del capitano Salvini. Il capo leghista presenta un solo difetto: ama il potere e soprattutto l'accentramento del potere. Inoltre ha una fiducia eccessiva nelle proprie forze. Per un signore che si prepara a governare l'Italia può essere un handicap. Come diceva un vecchio adagio: attento, il troppo stroppia. La politica è una brutta bestia. Un giorno stai sugli altari. E il giorno successivo stai nella polvere.
Francobollo sovietico commemorativo delle missioni Mars del 1971 (Getty Images)
Nel 1971 la sonda sovietica fu il primo oggetto terrestre a toccare il suolo di Marte. Voleva essere la risposta alla conquista americana della Luna, ma si guastò dopo soli 20 secondi. Riuscì tuttavia ad inviare la prima immagine del suolo marziano, anche se buia e sfocata.
Dopo il 20 luglio 1969 gli americani furono considerati universalmente come i vincitori della corsa allo spazio, quella «space race» che portò l’Uomo sulla Luna e che fu uno dei «fronti» principali della Guerra fredda. I sovietici, consapevoli del vantaggio della Nasa sulle missioni lunari, pianificarono un programma segreto che avrebbe dovuto superare la conquista del satellite terrestre.
Mosca pareva in vantaggio alla fine degli anni Cinquanta, quando lo «Sputnik» portò per la prima volta l’astronauta sovietico Yuri Gagarin in orbita. Nel decennio successivo, tuttavia, le missioni «Apollo» evidenziarono il sorpasso di Washington su Mosca, al quale i sovietici risposero con un programma all’epoca tecnologicamente difficilissimo se non impossibile: la conquista del «pianeta rosso».
Il programma iniziò nel 1960, vale a dire un anno prima del lancio del progetto «Gemini» da parte della Nasa, che sarebbe poi evoluto nelle missioni Apollo. Dalla base di Baikonur in Kazakhistan partiranno tutte le sonde dirette verso Marte, per un totale di 9 lanci dal 1960 al 1973. I primi tentativi furono del tutto fallimentari. Le sonde della prima generazione «Marshnik» non raggiunsero mai l’orbita terrestre, esplodendo poco dopo il lancio. La prima a raggiungere l’orbita fu la Mars 1 lanciata nel 1962, che perse i contatti con la base terrestre in Crimea quando aveva percorso oltre 100 milioni di chilometri, inviando preziosi dati sull’atmosfera interplanetaria. Nel 1963 sorvolò Marte per poi perdersi in un’orbita eliocentrica. Fino al 1969 i lanci successivi furono caratterizzati dall’insuccesso, causato principalmente da lanci errati e esplosioni in volo. Nel 1971 la sonda Mars 2 fu la prima sonda terrestre a raggiungere la superficie del pianeta rosso, anche se si schiantò in fase di atterraggio. Il primo successo (ancorché parziale) fu raggiunto da Mars 3, lanciato il 28 maggio 1971 da Baikonur. La sonda era costituita da un orbiter (che avrebbe compiuto orbitazioni attorno a Marte) e da un Lander, modulo che avrebbe dovuto compiere l’atterraggio sulla superficie del pianeta liberando il Rover Prop-M che avrebbe dovuto esplorare il terreno e l’atmosfera marziani. Il viaggio durò circa sei mesi, durante i quali Mars 3 inviò in Urss preziosi dati. Atterrò su Marte senza danni il 2 dicembre 1971. Il successo tuttavia fu vanificato dalla brusca interruzione delle trasmissioni con la terra dopo soli 20 secondi a causa, secondo le ipotesi più accreditate, dell’effetto di una violenta tempesta marziana che danneggiò l’equipaggiamento di bordo. Solo un’immagine buia e sfocata fu tutto quello che i sovietici ebbero dall’attività di Mars 3. L’orbiter invece proseguì la sua missione continuando l’invio di dati e immagini, dalle quali fu possibile identificare la superficie montagnosa del pianeta e la composizione della sua atmosfera, fino al 22 agosto 1972.
Sui giornali occidentali furono riportate poche notizie, imprecise e incomplete a causa della difficoltà di reperire notizie oltre la Cortina di ferro così la certezza dell’atterraggio di Mars 3 arrivò solamente dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Gli americani ripresero le redini del successo anche su Marte, e nel 1976 la sonda Viking atterrò sul pianeta rosso. L’Urss abbandonò invece le missioni Mars nel 1973 a causa degli elevatissimi costi e della scarsa influenza sull’opinione pubblica, avviandosi verso la lunga e sanguinosa guerra in Afghanistan alla fine del decennio.
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Il presidente torna dal giro in Francia, Grecia e Spagna con altri missili, caccia, radar, fondi energetici. Festeggiano i produttori di armi e gli Stati: dopo gli Usa, la Francia è la seconda nazione per export globale.
Il recente tour diplomatico di Volodymyr Zelensky tra Atene, Parigi e Madrid ha mostrato, più che mai, come il sostegno all’Ucraina sia divenuto anche una vetrina privilegiata per l’industria bellica europea. Missili antiaerei, caccia di nuova generazione, radar modernizzati, fondi energetici e contratti pluriennali: ciò che appare come normale cooperazione militare è in realtà la struttura portante di un enorme mercato che non conosce pause. La Grecia garantirà oltre mezzo miliardo di euro in forniture e gas, definendosi «hub energetico» della regione. La Francia consegnerà 100 Rafale F4, sistemi Samp-T e nuove armi guidate, con un ulteriore pacchetto entro fine anno. La Spagna aggiungerà circa 500 milioni tra programmi Purl e Safe, includendo missili Iris-T e aiuti emergenziali. Una catena di accordi che rivela l’intreccio sempre più solido tra geopolitica e fatturati industriali. Secondo il SIPRI, le importazioni europee di sistemi militari pesanti sono aumentate del 155% tra il 2015-19 e il 2020-24.
Imagoeconomica
Altoforno 1 sequestrato dopo un rogo frutto però di valutazioni inesatte, non di carenze all’impianto. Intanto 4.550 operai in Cig.
La crisi dell’ex Ilva di Taranto dilaga nelle piazze e fra i palazzi della politica, con i sindacati in mobilitazione. Tutto nasce dalla chiusura dovuta al sequestro probatorio dell’altoforno 1 del sito pugliese dopo un incendio scoppiato il 7 maggio. Mesi e mesi di stop produttivo che hanno costretto Acciaierie d’Italia, d’accordo con il governo, a portare da 3.000 a 4.450 i lavoratori in cassa integrazione, dato che l’altoforno 2 è in manutenzione in vista di una futura produzione di acciaio green, e a produrre è rimasto solamente l’altoforno 4. In oltre sei mesi non sono stati prodotti 1,5 milioni di tonnellate di acciaio. Una botta per l’ex Ilva ma in generale per la siderurgia italiana.
2025-11-20
Mondiali 2026, il cammino dell'Italia: Irlanda del Nord in semifinale e Galles o Bosnia in finale
True
Getty Images
Gli azzurri affronteranno in casa l’Irlanda del Nord nella semifinale playoff del 26 marzo, con eventuale finale in trasferta contro Galles o Bosnia. A Zurigo definiti percorso e accoppiamenti per gli spareggi che assegnano gli ultimi posti al Mondiale 2026.





